domenica 31 dicembre 2017

Il minimalismo a base della nuova documentazione fotografica del Novecento: Diane Arbus

Siamo molto abituati ad un certo linguaggio visivo, sia perché siamo immersi in una società della comunicazione che adotta criteri e canoni comunicativi per noi usuali, sia perché è invalsa una concezione per cui si afferma una automatica ed indiscussa identità tra «verismo» e «realismo» lasciando alcuni spazi (rivelantesi pericolosamente ambigui), in cui anziché la chiarezza oggettiva, tanto enfatizzata, prevale una confusione ontologica che non è facile sciogliere. Questo perché crediamo che esista uno stato dell'essere, il dato oggettivo, forse anche la realtà materiale, avulsa, se non addirittura estranea, alla manipolazione ideologica della narrazione comunicativa.
Una illusione appunto, come l'opera di Umberto Eco ha mostrato, tuttavia questa convinzione ci viene rafforzata da un altro convincimento, creato pretestuosamente dalla fotografia, cioè che esiste un'immagine che sia solo una mera rappresentazione mimetica della realtà. Basta uno scatto fotografico ed ecco che digitalizziamo una parte di realtà, la fissiamo (forse la congeliamo!) nell'istante raccolto dallo shoot fotografico. Un'idea che ci deriva da alcuni grandi fotografi, uno su tutti Henri Cartier-Bresson, ma quest'idea si rafforza non perché sia intrinsecamente vera, ma perché l'attuale nostro linguaggio visivo è configurato in modo tale da confermarci in questa opinione.
A questo cambiamento, di cui si può essere consapevoli solo tramite una retrospettiva storiografica, ci si è giunti attraverso alcuni momenti decisivi della nostra civiltà. A tal riguardo, l'opera fotografica di Diane Arbus è di certo, uno di questi. Il suo minimalismo fotografico ha modificato il nostro modo di intendere la fotografia, perché non solo ha reso possibile ad un qualsiasi amatore e/o cultore della fotografia di acquisire una legittimità artistica, ma ha decretato anche la fine del modo tradizionale di concepire la stessa fotografia. Nel 1967, la mostra al MOMA di New York intitolata New documents, a cui partecipa Arbus assieme a Friedlanger realizza una svolta vissuta come epocale dalla generazione successiva di fotografi (quella degli anni Settanta), non tanto sul piano linguistico della immagine (la rivoluzione si era già compiuta con Abbott, a.e.), ma proprio su quello della “narrazione” ad opera dell'immagine fotografica. La scelta dei soggetti, tratti per lo più dai ceti emarginati o marginalizzati della grande metropoli americana, offre al pubblico statunitense una galleria di immagine inusuali, mai viste e che sconvolgono il pensiero benpensante dell'epoca. Lo scopo è raggiunto, ma schiude un orizzonte di cui in parte si colgono tutte le conseguenze. Arbus non ebbe grande consapevolezza di ciò che aveva innescato, o forse ne ebbe solo una vaga intuizione, tuttavia attraverso la sua opera il presunto realismo del fotoreporter ha accesso all'immaginario del vivere ordinario e quotidiano della società, invadendo quel paesaggio che è l'intimità individuale della microstoria delle persone e che spesso è rimbalzata fuori dagli schemi della Grande Storia dell'umanità.