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Molti
ricordano (quelli della mia generazione certamente) la data del 26 aprile 1986,
è il giorno in cui nel quarto impianto sovietico di energia elettrica a
reazione nucleare intitolato Nicolai Illic Lenin, presso Pripjat, nella regione
ucraina di Chernobyl, esplode il reattore numero 4, del tipo RBMK, sigla che nel
ministero per lo sviluppo tecnologico sovietico indicava una particolare
tipologia di reattori nucleari, nello specifico i reattori ad acqua, tipologia
molto diffusa al tempo in Unione Sovietica. In questo caso, i reattori RBMK
sono uno sviluppo – ed il reattore numero 4 di Chernobyl era un prototipo
recente e considerato all’avanguardia – del primo reattore nucleare sovietico costruito
dal fisico Igor Vasil’evic Kurcatov, padre della fisica nucleare sovietica e
figura di grande importanza nella scienza russa novecentesca. Il reattore di
Chernobyl dunque, era uno degli occhielli della scienza e dell’industria
sovietica, tanto che la produzione nucleare era al centro della propaganda
sovietica di quell’epoca ed in fondo dell’ orgoglio scientifico dell’U.R.S.S. Come
accennato, tutto ciò termina, anche in modo inopinato proprio in quel dì di
aprile del 1986, tanto che molti critici e storici contemporanei concordino nel
ritenere il disastro ucraino un fattore decisivo sulle vicissitudini della
stessa perestroika avviata dall’allora segretario comunista Mikhail Gorbaciov.
Il
disastro è datato 26 aprile, ma la conferma ufficiale da parte del governo
sovietico si avrà solo tre giorni dopo e tra l’altro in una confusa ridda di
informazioni contraddittorie e contrastanti, trapelata, come è in questi casi,
sotto forma di insinuazioni, di rimostranze politiche da parte delle nazioni
confinanti e come onda inarrestabile di sospetti alimentata a sua volta dall’insufficiente
azione di contenimento della censura governativa, non così efficiente nel
soffocare l’ingombrante vicenda: le difficoltà a cui andarono incontro le
autorità sovietiche furono molte e tutte di gravità sempre crescente,
soprattutto in un’epoca in cui non esisteva un codificato protocollo di sicurezza
e di intervento in casi di disastri nucleari; i fatti di Chernobyl a riguardo, avranno
come conseguenza quella di avviare una standardizzazione internazionale delle
procedure d’intervento e dei protocolli immediati d’emergenza, ma anche una
visione complessiva della gestione del nucleare che non sarà più materia
nazionale o regionale: la fine della politica della tensione, a mio avviso, può
chiaramente collocarsi con quest’evento.
Nessuno
insomma, poteva dirsi realmente preparato ad un evento di quel genere e
nonostante i grandi sforzi e i drammatici sacrifici, i sovietici non lo erano
certamente. Tuttavia, prim’ancora di essere banco di prova delle capacità
scientifiche in materia di nucleare, il disastro di Chernobyl ha paventato
spettri che avevano da tempo una loro collocazione nella propaganda sovietica in primis, ma più in generale nella
stessa opinione pubblica internazionale. La gravità di un disastro nucleare, in
questo caso quello ucraino, era comparato all’immaginario postbellico
ampiamente codificato dalla Guerra Fredda, tanto che giudizi e concetti
venivano riferiti quasi per una sorta di automatismo cognitivo all’esperienza e
al terrore instillato nel dopoguerra dall’ordigno atomico. Uno degli aspetti
insiti nella vicenda ucraina è appunto, quello di costringere la stessa
politica internazionale a rivedere opinioni e valutazioni sul nucleare: un
esempio, è la fine dell’idea terribile della bomba atomica come mezzo di
deterrenza contro eventuali aggressioni militari, anche se alcuni casi recenti
hanno riproposto, solo come mera protesta verbale e per fortuna mai
accompagnate da intenzioni reali, il vecchio tema della minaccia atomica,
argomento che a causa del principio bushiano della guerra preventiva trova un
appiglio concettuale e politico (es. la lotta al terrorismo internazionale), ma
ampiamento anacronistico nella situazione attuale della politica internazionale:
a tal riguardo, gli episodi a cui mi riferisco sono la crisi indo-pakistana e la crisi USA-Corea del Nord (febbraio 2019), momenti di tensione diplomatica
dove almeno in un caso (quello USA-Corea del Nord) il confronto s’incentrava
anche sulla possibilità degli ordigni di distruzione di massa.
Comunque,
negli anni la vicenda di Chernobyl è stato oggetto di una produzione trasversale
tra letteratura, cinema e teatro, oltre a varie citazioni qua e là anche in
canzonette musicali, che ha mirato a documentare, ad approfondire o
semplicemente a divulgare (vedasi le varie inchieste giornalistiche sui fatti
giudiziari collegati alla vicenda e sulla cronaca del dopo-Chernobyl) ciò che
nel frattempo emergeva dalle inchieste governative e da quelle scientifiche,
oltre che dai documenti politici secretati e resi consultabili proprio per
arginare il vasto movimento di opinione pubblica innescato dalle restrizioni
collegate alle procedure di salute pubblica avviate per contrastare il
diffondersi del contaminazione radioattiva. Di recente, una versione affidabile
di docu-fiction, realizzata dalla
statunitense HBO, ripropone un’altra ricostruzione fedele delle vicende del
disastro; questa produzione è interamente incentrata sui tre giorni concitati e
drammatici successivi all’esplosione e traccia una narrazione delle settimane
successive, quelle caratterizzate dal processo ai responsabili del disastro e
dalla svolta politica che l’evento ebbe nell’azione del governo dell’epoca. La
serie trae spunto dall’audio-diario del fisico sovietico Aleksander Legasov, responsabile
e coordinatore scientifico del gruppo operativo a Chernobyl, morto suicida nel
secondo anniversario del disastro, ma implementa la narrazione con alcune
ricostruzioni scientifiche e giornalistiche che hanno in tutti questi anni
chiarito molti aspetti della vicenda: il rapporto tra lo evento in sé e le disastrose
conseguenze da esso prodotte è ampiamente avvertibile nei sei episodi della
serie, ma si avverte anche come la serie televisiva statunitense ammetta
abbastanza esplicitamente valida la versione del governo sovietico dell’epoca,
che per certi aspetti appare convincente, anche se ovviamente non cancella, né
si può dimenticare il pesante fardello di responsabilità che comunque rimane in
capo al governo sovietico dell’epoca (noncuranza e sottovalutazione dei rischi
produttivi per citarne un paio).
Dopo
Chernobyl, non si ripeteranno altri disastri così gravi e tutta l’attività
industriale sovietica legata all’energia nucleare sarà rigidamente regolata in
base ad un rigido protocollo di sicurezza, tuttavia la gravità dell’evento ha
richiesto la formulazione di uno strumento epistemologico di valutazione del
rischio reale di contaminazione ambientale ad uso soprattutto per la
comunicazione pubblica: l’intento è di evitare l’insorgere di confusione e di disinformazione
(o possibili censure) che facilitano l’allarmismo nelle opinioni pubbliche
nazionali. Tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta viene
formulato uno strumento di comparazione del rischio ambientale noto come Scala
INES, elaborato e proposto dalla IEAE, dall’Ente Internazionale per l’Energia
Atomica, un’organizzazione fondata negli Stati Uniti d’America nel luglio del
1957 e promossa nel dopoguerra dall’amministrazione di Dwight D. Eisenhower
(1953). La Scala INES prevede sette livelli di gravità (rischio effettivo) ed è
estesa ad ogni fatto che comporti una contaminazione ambientale, lo si applica
a.e. anche in caso di incidenti relativi al trasporto. Nel caso della centrale
ucraina l’evento viene classificato con l’ultimo livello, il settimo,
considerato «catastrofico». Per quanto in quel caso si sia trattata, almeno
inizialmente, di una semplice esplosione delle condutture dell’acqua che
componevano l’apparato di refrigerazione del reattore, infatti il disastro è
collegato alla disseminazione dopo l’esplosione del reattore della grafite del
nocciolo nell’ambiente intorno all’edificio, allo sversamento dell’acqua
contaminata nel terreno sottostante al reattore – proveniente in parte dalla
vasca del reattore, in parte dalle pompe dei vigili del fuoco che per l’intera
notte innaffiarono il reattore in fiamme - e all’irraggiamento delle particelle
radioattive nell’aria sotto forma di polvere e di fumo di combustione che
determinarono il crearsi di una nube tossica di particelle sospese sopra tutta
la Polonia e buona parte dell’Europa orientale: il disastro si verifica per le
conseguenze da esso prodotto e non per una specifica meccanica del disastro. In
tal senso infatti, la cronaca attesta un disastro ancora più catastrofico di
quello sovietico e riguarda il disastro presso il complesso industriale
giapponese di Fukushima Daiichi, avvenuto in concomitanza con il più grave
terremoto ed il relativo tsunami mai verificatosi in Giappone (11-16 marzo 2011): ciò
a testimonianza che gli incidenti sono sempre possibili, nonostante le
pregresse esperienze, le rigide norme di sicurezza o i più sofisticati
dispositivi che si possano utilizzare.
Eppure,
il disastro sovietico occupa un posto nell’immaginario mondiale molto
importante e ciò non a caso, visto che è il primo evento dell’era globale, anzi
forse l’evento che introduce l’Europa nella nuova era della globalizzazione e
ciò lo rende non solo fondamentale, ma un costante modello di riferimento nelle
valutazioni che a livello europeo si possono fare in merito alle opportunità
prodotte dall’utilizzo dell’energia nucleare. Se infatti, le prime applicazioni
della scoperta dell’utilizzo dell’energia prodotta dalla fissione del nucleo
atomico di metalli pesanti e radioattivi come l’uranio235 ed il plutonio sono
state di natura bellica, la via verso un uso pacifico o per un uso civile come
si dice in genere, è tracciata in parte come esito dell’azione pacifista di una
parte degli scienziati, ricordo la petizione avanzata dal premio Nobel James
Frank nel 1945 contro l’uso delle nuove bombe contro il Giappone, in parte da
alcune esigenze energetiche che scaturiscono dal raggiunto livello di sviluppo
tecnologico ed economico-sociale del mondo occidentale. Ora, la costruzione dei
reattori nucleari sovietici, ma allo stesso modo altrove, deriva da un obiettivo
costante nella politica sovietica, quello cioè di realizzare la completa autarchia
energetica dell’U.R.S.S. e quindi, realizzare un’effettiva autonomia dalle
risorse economiche tradizionali. Nell’era contemporanea pianificare un’“autarchia
energetica” vuol dire ragionare su uno scenario energetico dove non compaia
l’utilizzo del petrolio e dei suoi derivati, ma significa anche tentare la via
per elaborare un sistema economico nazionale incentrato su risorse energetiche
totalmente alternative a quelle convenzionali. Ecco allora, che lo sviluppo
dell’energia atomica inizia ad acquisire motivazioni che non sono più solo militari,
ma più realisticamente di tipo energetico ed economico, anche se convertire
barre di combustibile in esplosivo non è un’operazione irrealizzabile. Il
disastro di Chernobyl pertanto, ha incrinato quella facile illusione che il
nucleare potesse rappresentare quella risorsa energetica alternativa al
petrolio, da cui a sua volta trarre una differente definizione di benessere
economico, di giustizia sociale autenticamente “democratica” o “popolare” e ovviamente,
una fonte energetica potenzialmente infinita.
La
drammatica vicenda di Chernobyl ripropone una questione di grande interesse
nella società contemporanea il tema del fabbisogno energetico, soprattutto da
quando la stessa teoria economica mondiale ha ormai preso atto dell’esauribilità
delle convenzionali risorse energetiche e del futuro rischio di collasso dello
stesso sistema economico che ha indicato in queste risorse energetiche non solo
i propri asset economici, ma anche gli stessi fondamenti delle dinamiche
economiche. La scoperta di un utilizzo a scopo civile del nucleare determina
uno scenario energetico possibile ed alternativo a quello tradizionale, ma
prima del disastro di Chernobyl è difficile che si ragionasse sulla possibilità
che l’estensione dell’energia nucleare al tradizionale modello energetico fosse
del tutto incompatibile con il sistema economico che è venuto a definirsi dopo
la Rivoluzione Industriale, e non tanto per le evidenti motivazioni
ecologico-ambientali relative all’altissimo rischio di contaminazione che
rappresenta l’utilizzo dei metalli radioattivi, ma per ragioni inerenti al
modello economico che ancora adesso utilizziamo.
La
ricerca e l’uso di risorse economiche che fungano da fonti energetiche
(combustibile) è di molto precedente alla nascita dello stesso sistema
capitalistico, si è passati dall’uso del legno come fonte energetica domestica
all’uso del carbone, ricavato da miniere scavate nel terreno; tuttavia, il
legame tra energia e sistema capitalistico appare meno stringente, cioè meno
determinante rispetto alle epoche attuali, e ciò nonostante l’utilizzo dei
prodotti fossili come il carbone sia attestata chiaramente fin dall’epoca
medievale, per non parlare del legno che è un materiale che attraverso la
stessa storia dell’uomo fin da epoche remote. Il rapporto dunque, tra l’economia
e l’energia è labile e comunque segue le regole ed i criteri di un’economia
pre-industriale, lontana dall’integrare i due termini in un sistema
interconnesso così come lo conosciamo oggi: la richiesta energetica non è tale
da convertirsi automaticamente in attività economica vera e propria, per
ottenere questo infatti, occorre che la civiltà umana inizi a dotarsi di un apparato
tecnologico che riveli l’esigenza di un supporto energetico sempre più
performante e determinante. Il coke, il cherosene (oli infiammabili per le
lampade) ed infine il petrolio sono venuti ad imporsi gradualmente nel corso
della storia energetica moderna e con essi inizia a modificarsi anche il
paesaggio tecnologico e sociale della civiltà europea, tanto che diventeranno i
perni di uno sviluppo modernistico inarrestabile delle società occidentali. A
riguardo, la data da fissare è il 28 agosto 1859, quando un ferroviere
americano, un certo Edwin Laurentine Drake, realizza il primo pozzo petrolifero
a Titusville, in Pennsylvania occidentale: un pozzo di una ventina di metri e
con l’intento di cercare non il petrolio, ma quello l’olio infiammabile su cui
il ferroviere pensava di iniziare una fiorente attività commerciale. Inizialmente
la scoperta del petrolio non fu così decisiva nella definizione degli assetti
economici della società occidentale, ma bisogna attendere l’invenzione del
motore a scoppio e la scoperta industriale di ottenere un certo liquido
frazionato del petrolio, più leggero e con alte capacità detonanti, la benzina.
È
da questo momento che inizia la corsa al petrolio ed in fondo, è a partire da questo
momento che inizia la svolta fondamentale impressa dalla Prima Rivoluzione
Industriale, la quale definirà non solo un diverso modo di produrre
(meccanizzazione), ma condizionerà le stesse strutture del capitalismo pre-industriale,
all’epoca un mero capitalismo agrario.
Il
rapporto che intercorre tra le risorse energetiche ed il sistema economico
viene a palesarsi con chiarezza solo all’epoca della meccanizzazione della
produzione e con il trascorrere del tempo diventerà un legame sempre più
stringente, tanto che nell’ambito della teoria economica classica viene a comporsi
un modello specifico relativo proprio all’utilizzo del petrolio e dei suoi
derivati, detto «modello standard dell’energia», che è il solo paradigma
concettuale relativo al fabbisogno energetico che si sia mantenuto nel corso
della storia economica recente. Il problema energetico dunque, è forse il primo
e più importante tema affrontato dal pensiero liberista e dal liberalismo
ottocentesco, forse più decisivo della stessa nascita del capitalismo. Tuttavia,
l’approccio della scuola economica classica elabora lentamente la possibilità
di considerare il tema energetico come un capitolo a sé o comunque, formulato
in una prospettiva dove bene economico e risorsa energetica descrivono aspetti differenti
di un medesimo prodotto. Alla base di quest’approccio infatti, si collocano le
tesi economiche dello inglese Adam Smith, iniziatore di ciò che oggi intendiamo
con Teoria Economica Classica. Smith non ha di per sé esposto una precisa
teoria energetica, infatti il tema dell’energia compare nel suo La ricchezza delle nazioni (1776)[i] sotto
forma di una valutazione economica dell’opportunità di produrre carbone, all’epoca
importante (ed unica) fonte energetica e combustibile decisivo dei primi incerti
passi della meccanizzazione industriale. Tuttavia, il discorso sul carbone non
è un problema a sé, ma viene collocato in un discorso più ampio e più generico relativo
alla rendita dei prodotti della terra. La rendita ottenuta dalla produzione del
carbone appare all’economista inglese irrilevante, o comunque non così decisiva,
nell’incidenza della rendita terriera; in tal senso, fattori determinanti che
compongono una rendita significativa è l’utilizzo intensivo della stessa terra
come fondo agricolo o altrimenti, la deposizione del terreno come demanio
incolto dove lasciare che venga a crescere una macchia boschiva, in quanto la
produzione di legname appare una produzione più redditizia, ma ovviamente
ancora collegata ad un uso domestico dell’energia. In ogni caso, il valore di
una materia è direttamente correlato al suo volume produttivo, ma nel caso del
carbone, per quanto possa esserne prodotto, non è una materia così pregiata che
possa rappresentare una rendita economicamente interessante. «Il carbone – dice
Smith ne La ricchezza delle nazioni –
è un combustibile meno gradevole del legno; si dice anche che sia meno salubre»
(pp.184-85), e comunque indipendentemente da questi giudizi, il suo costo di
produzione appare (e deve essere) più basso della produzione di legname.
Infatti, qualunque essa sia la rendita che possa dare la produzione di carbone
«questa è in genere una quota più piccola del suo prezzo rispetto alla maggior
parte degli altri prodotti grezzi della terra» (p.186), perché solo un prodotto
naturale, già diffusamente presente in natura, rappresenta un bene economico
rilevante e non un prodotto che richiede alcuni processi di lavorazione che ne
abbassano il valore: per queste ragioni risulta poco conveniente la produzione
autoctona del carbone e si suggerisce l’importazione, costa di meno e si
salvaguarda l’integrità del proprio territorio, magari in proiezione di una
buona politica forestale di rimboschimento.
Da
quanto detto, è evidente che il tema energetico in Smith non è per nulla
individuato e comunque la sua valutazione evidenzia un primo elemento che
confluisce nel rapporto tra energia e sistema economico, cioè la gratuità della
risorsa energetica. L’investimento nella produzione del carbone non è
un’attività economica rilevante, perché per ottenere questa materia si deve
attivare un ciclo produttivo che non riesce a valorizzare la materia oggetto
della lavorazione. Questo motivo è una delle ragioni principali che
caratterizzano il modello economico di Smith, ma che ci suggeriscono anche in
che modo nel corso degli approfondimenti teorici viene a delinearsi il rapporto
tra economia ed energia. Dal modello di Smith per adesso, si trae solo uno
schema di base di come comporre i rapporti economici, uno schema dove al centro
vi è la rendita terriera che, assieme al capitale ed al lavoro, configura i
termini economici più rilevanti. L’idea di fondo nel discorso di Smith è che la
terra di per sé è un bene economico, in quanto se rimane incolta produce
risorse come il legname che hanno di suo un certo valore economico, se invece,
è oggetto di una coltivazione intensiva produce una serie di prodotti agricoli
che producono una certa rendita, ma iniziare un’attività produttiva, con la
quale estrarre quella rendita conservata nelle materie naturali, significa
iniziare ad utilizzare la terra, cioè significa depauperare la stessa risorsa
che nel sistema economico smithiano ha una doppia funzione, quella di risorsa
economica essa stessa e quella di spazio entro cui viene a realizzarsi la
stessa attività produttiva. Smith non pone con molta chiarezza il problema del
depauperamento dei terreni, anche se suggerisce che una terra che viene
sottratta ad un’attività produttiva convenzionale (agricola nella fattispecie)
smette di essere un bene economico come a.e. nel caso delle miniere di carbone
– non c’è l’idea di bonifica in Smith, ma c’è l’idea di massimizzare ciò che la
natura sembra offrire all’uomo (visione edenica) -, tuttavia dalle sue tesi
economiche si rileva
- Lo spreco economico delle terra che cessa di essere bene economico.
- La convinzione per cui compito e funzione del lavoro è solo quello di estrarre (valorizzazione) quel valore economico insito nei prodotti spontanei della terra e di capitalizzare, cioè di accumulare sotto forma di rendita, ciò che viene estratto dalla lavorazione. Il lavoro ha una rilevanza economica solo nella misura in cui estrae un valore economico già pre-esistente nel prodotto che viene lavorato, ma non c’è produzione di valore economico nella semplice attività fine a se stessa. L’intervento del lavoro non è economicamente determinante per se stesso, ma è finalizzato semplicemente ad incrementare la ricchezza che deriva dalla sua attività. In tal senso, la ricchezza del lavoratore non deriva del suo essere tale, ma dalla sua capacità di incrementare il volume di ricchezza collegato alla sua stessa attività.
È
evidente a questo punto, che se esiste una problematica energetica, essa viene
inscritta da Smith in una cornice economica pre-industriale e chiaramente in un
regime agricolo, tuttavia pone subito il problema, che è di natura
squisitamente economica, dello spreco dei beni economici, anche se nel suo
modello lo spreco non riguarda tutte le risorse in generale, ma una risorsa
specifica che è quella della terra, il che giustifica ovviamente il regime
privatistico che diventa l’ordine con il quale preservare dalla distruzione
questa risorsa fondamentale sia per l’esistenza umana, sia per le attività
economiche. Ed infatti, il problema energetico inizia ad affacciarsi nella
riflessione economica nei termini smithiani di depauperamento della terra, ma
quest’ultima ricollocata e presentata sotto forma di difesa monopolistica del
benessere economico nazionale.
Il
primo a porre chiaramente il tema è un economista contemporaneo a Smith, David
Ricardo, il quale pone l’accento sul depauperamento del terreno. L’attività
produttiva trasforma il fondo terriero in un bene economico, ma maggiore è
l’orientamento in questa direzione, minore sarà la disponibilità di questo
bene: per questo economista il problema determinante è l’effettiva
disponibilità produttiva della terra, quantità messa in rischio da un utilizzo
che non ha finalità produttive (es. terreni edificabili). L’alienabilità del
terreno diventa un tema preoccupante negli economisti, i quali tentano di
risolverla tramite prospettive sempre più restrittive ed in ogni caso orientate
ad una austerity apocalittica, come
nel caso di un altro economista inglese, Thomas R. Malthus, che fisserà un
principio economico basato sulla crescita demografica: la crescita demografica
è un grave fattore di rischio, perché aliena la terra dal suo compito
economico, quello di essere utilizzata per finalità produttive. La valutazione
malthusiana afferma che il volume produttivo cresce più lentamente della
richiesta di cibo da parte della popolazione e ciò accade perché le quantità
messe in relazione descrivono due differenti progressioni matematiche: la
produzione procede secondo una progressione aritmetica, il cui ritmo di
crescita ha un andamento costante ed è fissato annualmente con un valore che si
addiziona al dato già raggiunto; è una progressione del tipo n + 1; di contro, la crescita della popolazione
non segue lo stesso andamento, ma segue una progressione geometrica, in quanto
il dato demografico è un valore di superficie, cioè legato all’estensione, per
cui procede con strutture del tipo n2.
Il
modello malthusiano, seppur segnala un fatto grave, non raggiunge i toni di
drammaticità che si avranno con l’economista tedesco Johann Heinrich Gottlob
von Justi, che denuncia come la crescita senza controllo della popolazione
possa incidere negativamente nello sfruttamento delle superfici e nel consumo
delle risorse economiche, ma è soprattutto un altro economista inglese William
Stanley Jevons, autore di Il problema del
carbone (1865) a codificare definitivamente il modello energetico entro il
quale verrà inscriversi lo sviluppo in senso civile del nucleare. La
valutazione apocalittica di Jevons introduce esplicitamente il tema della
penuria di risorse, così come l’aveva posto Smith, ma rovesciandone la
prospettiva ed il significato: Smith valutava l’idea che nazioni competitrici
non potessero avere le stesse risorse economiche, di qui l’opportunità di trasformare
il gap negativo in un’effettiva opportunità di creazione di ricchezza,
individuando e favorendo la produzione di quei prodotti che potessero assurgere
al ruolo di beni di consumo nel proprio mercato interno come nel mercato
estero, magari nel mercato di un diretto competitore. Lo scopo nel modello
smithiano è creare un P.I.L. e basare la ricchezza nazionale su quelle attività
che incrementino questo valore. Ora, Jevons, muovendo da questa stessa
prospettiva, valorizza invece gli effetti depauperativi ed esaustivi della
stessa attività produttiva. L’intenso utilizzo delle risorse economiche
comporta un loro esaurimento che alla fine incide negativamente sul valore
economico dell’intero sistema produttivo. La preoccupazione di Jevons non è
orientata dai timori relativi al sistema economico in sé, verso cui c’è una
sorta di indifferenza, tipica negli economisti classici, ma è orientato alla
conservazione del monopolio economico, in questo caso il monopolio ed il
benessere acquisiti dall’utilizzo del carbone. Non è minimamente ipotizzabile
da questi economisti che l’elaborazione di altri meccanismi, quali a.e. una
ridistribuzione in termini di servizi sociali (come farà la welfare economy) della ricchezza
prodotta possano contribuire al mantenimento degli alti tassi di benessere, ma
mostrano una certa sensibilità (ovviamente senza coscienza ecologica di
sostenibilità ambientale) al tema del depauperamento delle risorse, ma si limitano
ad immaginare solo politiche di razionalizzazione (sprending review) e comunque
tese a difendere monopoli acquisiti o nel caso di crearne di nuovi.
Lo
scenario paventato da Jevons descrive un duro contraccolpo economico sia a
livello produttivo che a livello occupazionale, molto simile a quello vissuto
a.e., a fine Ottocento in Sicilia con la crisi dei Fasci Siciliani e del
commercio del salgemma raccontato da Luigi Pirandello in I Giovani e i vecchi, ma lo sfruttamento intensivo denunciato da
questo economista è effetto non del modello economico adottato, bensì dalle
conseguenze derivanti dall’innovazione tecnologica innescata proprio dalla
Rivoluzione Industriale: la meccanizzazione della produzione ha creato le
condizioni affinché esistesse uno sfruttamento intensivo del carbone, ma il
fenomeno della Rivoluzione Industriale risponde ad un’esigenza insita nel
modello economico classico, vale a dire creare volumi di produzione sempre più
grandi, in quanto da questi volumi dipende la ricchezza, il benessere e lo
stesso reddito da lavoro. Alla valutazione energetica proposta da Jevons non è
estranea la stessa impostazione classica, semmai introduce nel linguaggio
economico termini quali «disutilità», «utilità negativa» e «utilità marginale»
che troveranno una sistematica applicazione nella teoria economica dell’austriaco
Carl Menger, iniziatore di quell’indirizzo economico austriaco che fa capo alla
teoria economica marginalista, duramente avversata da Karl Marx[ii], un
modello economico cioè, che privilegia la tesi per cui il valore di scambio di
una merce debba calcolarsi sul fabbisogno effettivo di quello stesso bene
economico e non sul suo presunto valore intrinseco. In questo modello, la sfera
emotiva e le stesse suggestioni dei consumatori sono assunti come criteri
decisivi per la definizione di una politica economica liberista, collocando de facto la riflessione economica nello
stesso ambito della psicologia e del controllo sociale, dell’ideologia e del
circuito istituzionale della cultura e della trasmissione pubblica dei saperi:
il condizionamento effettivo dei comportamenti dei consumatori diventa un
interesse economicamente rilevante, oltre che una strategia valida di
contenimento di tutte quelle condotte ritenute disagianti e sperequative.
La
teoria marginalista di Menger in particolare, rivela un fatto economico che
merita di sottolinearsi, cioè che nella determinazione del valore della merce
il processo produttivo non è esente dal condizionamento della stessa tecnologia
produttiva, soprattutto se si inizia a muoversi in una logica di
razionalizzazione degli stessi processi produttivi, come farà in seguito
Friedrich August von Hayek (Vienna 1899 – Friburgo 1992). La via della
razionalizzazione, considerato da questo filosofo austriaco è l’unico strumento
in mano al produttore su cui può ricavare informazioni certe e valide e queste
informazioni spingono la produzione a valorizzare non tanto il prodotto in
quanto tale (visione artigianale), ma come produrlo al meglio, in quanto è
dalla tecnologia che si utilizza che dipende il successo della stessa attività
produttiva. Vista in questo modo, il tema energetico comincia ad assumere una
rilevanza maggiore, non solo perché è l’energia che permette che la produzione
rimanga attiva (cfr. la crisi energetica degli anni Settanta del secolo
scorso), ma anche perché sempre più il costo energetico fa sentire il suo peso
tra i costi produttivi. Ecco allora, che si delineano due questioni:
- L’attività produttiva richiede un fabbisogno energetico sempre crescente e non solo perché si produce di più, ma perché si riesce a produrre meglio e tramite un apparato tecnologico sempre più ampio e complesso.
- I volumi produttivi non sono direttamente comparabili ai volumi energetici, quest’ultimi crescono non a causa della logica della sovraproduzione, ma per preservare l’integrità del sistema economico basato sulle stesse risorse energetiche, poiché la produzione, la diffusione e infine, il consumo di energia sono quelle voci che permettono di scaricare su di esse le stesse contraddizioni economiche del sistema attuale in termini a.e., occupazionali.
Ecco
delinearsi il nodo economico su cui verrà ad inserirsi la ricerca nucleare. La
capacità produttiva del petrolio compensa tutte le note ordinarie dei processi
economici, ma riesce addirittura a produrre un surplus che può essere depositato, accumulato. Ciò ha reso il
petrolio quell’asset economico indispensabile nello sviluppo della civiltà
umana attuale e ciò ha finito per definire quel modello energetico che è ancora
oggi in uso, ma l’uso intensivo del petrolio e dei suoi derivati ha riproposto
quelle stesse questioni che a suo tempo avevano tenuto banco con l’uso del
carbone, cioè il suo depauperamento. La crisi energetica degli anni Settanta
del XX secolo ha ampiamente confermato tutti i timori che già tra gli anni
Cinquanta e Sessanta si erano palesati e che avevano dato avvio ad una serie di
politiche energetiche nazionali orientate per lo più alla autarchia energetica,
anche se de facto l’utilizzo del
petrolio rimane diffusissimo e vincolante. L’esigenza di trovare un’altra fonte
energetica alternativa e credibile, che riuscisse ad assolvere a tutte le
funzioni economico-produttive assegnate al petrolio e che permettesse, si
sperava in via definitiva, di sostituire il modello standard dell’energia con
un nuovo modello economico, almeno a livello industriale, era un tema che si
rilevava con sempre più evidenza: risolvere le problematiche energetiche
dell’industria diventa un’urgenza sociale, oltre che economica, poiché da essa
dipende lo stesso benessere nazionale. La speranza è a questo punto della
storia economica dell’energia che il nucleare fosse appunto, questa panacea
economica.
La
scoperta della fissione del nucleo atomico e la consapevolezza dell’enorme
potenziale elettrico che può ottenersi dalla spaccatura del nucleo di un atomo
non sono di per sé sufficienti per inscrivere l’energia nucleare nell’ambito
del sistema tradizionale dell’energia. Infatti, a parte la prima applicazione
in termini bellici non era possibile ancora pensare uno scenario differente, a
meno che si riuscisse ad inventare un apparato industriale che inserisse l’energia
nucleare tra le convenzionali fonti energetiche. La soluzione arriva dalla
scienza applicata e dalla possibilità di convertire meccanicamente le varie
forme di energia. In tal senso, una reazione nucleare è comparabile ad una
qualsiasi reazione chimica, vale a dire può essere di due tipi:
- Reazione esoenergetica, vale a dire una reazione che ha un’energia maggiore di zero, energia indicata con la lettera Q, da cui si ha Q > 0: in questo tipo di reazioni si ha un enorme rilascio energetico sotto forma di calore e di emissioni elettromagnetiche (radioattività).
- Reazione endoenergetica, vale a dire una reazione che ha un’energia inferiore a zero, il che vuol dire che anziché rilasciare quantità di energia, la assorbe (Q < 0).
Dal
punto di vista della produzione energetica le reazioni che sono tecnicamente di
grande interesse sono le fissioni e le fusioni, in quanto rilasciano grandi quantità
di energia. La reazione di una bomba atomica è una reazione di fissione, in quanto
l’innesco di una bomba atomica porta alla frammentazione dei nuclei atomici
dell’elemento che funge da esplosivo, ciò si traduce in una produzione enorme
di elettroni che a loro volta spaccano i nuclei in una proliferazione
geometrica estesa e all’apparenza irreversibile. Questo tipo di principio è
alla base della produzione di energia nucleare, in quanto consiste
nell’eccitare la barra di combustibile in modo da farle rilasciare elettroni.
La differenza fondamentale rispetto allo scoppio di una bomba atomica è la
possibilità di poter controllare il processo di frammentazione nucleare e
soprattutto la possibilità di convogliare queste enormi energie in un sistema
da cui ricavare energia. A riguardo, la via iniziale che si percorrerà è quella
di costruire dispositivi atomici integrando diversi principi fisici, nello
specifico ricorrendo agli studi della termodinamica ottocentesca ed utilizzare
i cambi di stato della materia come produttori energetici. Ma per fare questo
occorre poter controllare in qualche modo la reazione a catena che è alla base
del processo radioattivo del metallo. Lo scienziato italiano Enrico Fermi nel
1934 aveva elaborato un sistema che faceva uso di una sostanza detta moderatore elettronico con la quale inibire
la radioattività dell’uranio-235 in fase di fssione: la interconnessione del moderatore elettronico ha lo scopo di assorbire
parte dell’energia della reazione nucleare e rilasciarla (senza fermarla,
beninteso) sotto forma di energia termica, prodotta a sua volta da particelle
dette neutroni lenti che hanno
l’effetto di diminuire la crescita esponenziale delle particelle proiettili
della fissione. In riferimento alla teoria della relatività di Albert Einstein,
la presenza di questo moderatore
elettronico fa sì che la reazione nucleare converta quest’enorme quantità
di energia in massa, condizionando la meccanica della reazione. Si realizza
quello che viene detto difetto di massa,
che descrive de facto il consumo del
materiale atomico, il quale a lungo andare finisce per esaurirsi. E tuttavia,
maggiore è la radioattività, più grande è la produzione di elettroni, che in
termini economici si trasforma in abbondante produzione di energia elettrica.
La
costruzione ed il funzionamento infatti, del primo dispositivo nucleare (pila
atomica) lo si devono a Fermi il 2 dicembre del 1943 a Chicago, un dispositivo
che utilizza e sviluppa un effetto fisico detto effetto Seebeck, con il quale si descrive l’insorgere di un
potenziale elettrico da un metallo sottoposto ad una stimolazione
elettromagnetica. Thomas Johann Seebeck è stato un fisico tedesco che nel 1823
realizza una esperienza empirica di conversione del calore in elettricità. Alla
base dell’esperienza di Seebeck vi è semplicemente l’esigenza di evitare lo
spreco del combustibile emittente calore e a tal riguardo, il fisico tedesco
realizza un dispositivo composto da un unico circuito chiuso che prevede due
metalli di diversa natura tenuti assieme da un terzo metallo di congiunzione
(vedasi figura). Lo scopo dell’esperienza è quello di creare un potenziale
elettrico ottenuto mediante il riscaldamento per induzione del metallo di
congiunzione ed osservabile con un amperometro collegato ai due metalli, che fungono
da poli magnetici. L’intuizione fondamentale di Seebeck è quella di utilizzare
il calore per generare una trasmissione di elettroni nello spazio compreso tra
i due metalli. L’effetto che si ottiene produce la termoelettricità, cioè la capacità
di ottenere da un metallo un irraggiamento di elettroni una volta sottoposto a
determinate condizioni di temperatura: basta tenere un ago polarizzato vicino al
circuito per osservare l’esistenza di questa trasmissione elettronica.
La
produzione di energia nucleare si sviluppa a partire da quest’effetto, tanto
che un reattore nucleare di prima generazione è un combinato di dispositivo
eterogenei, nello specifico la tecnologia combina il potenziale elettrico
derivante dalla radioattività dei semiconduttori con alcuni principi di
termodinamica; il menzionato fisico sovietico Kurcatov realizza nel giugno del
1954 in Unione Sovietica il primo reattore nucleare, piuttosto piccolo e con
una potenza non superiore a 5000 kilowatt. Sulla stessa tipologia nell’ottobre
del 1956 la Gran Bretagna mette in funzione la centrale elettrica di Calder
Hall che sviluppa una potena di 50000 kilowatt. Il 26 maggio 1958 negli Stati
Uniti d’America la Westinghouse inizia la produzione di corrente elettrica da
un piccolo reattore costruito a Shippingport, in Pennsylvania, che sviluppa
60000 kilowatt. Nell’aprile del 1965 viene messo in orbita il primo satellite
artificiale a propulsione atomica. L’energia atomica dunque, ha per tutto il
periodo della Guerra Fredda uno sviluppo costante ed una proliferazione ampia,
ovviamente sotto il regime di programmi industriali e non militari e ciò
nonostante questo sviluppo non sembrava rappresentare un grave rischio, almeno
fino al 28 marzo 1979, data in cui si registra il primo grave incidente nucleare
nel reattore di Three Mile Island, sul fiume Susquehanna, vicino a Harrisburg, con
dinamiche molto simili a quelle che contraddistingueranno il disastro di Chernobyl,
ma con conseguenze decisamente meno gravi e più sostenibili, anche se ciò ha
comportato un’ampio programma di bonifica del territorio. Prima di questa data
il movimento anti-nucleare è cresciuto poco per volta e se non ha potuto
impedire la proliferazione di questa energia, ha in parte contribuito a creare
una certa coscienza dei rischi collegati all’uso industriale del nucleare,
coscienza che però non può eludere la questione di fondo, quello di dare una
qualche risposta credibile al fabbisogno energetico sempre crescente della
civiltà umana: i movimenti ambientalisti attuali offrono solo una parziale e
limitante risposta al quesito, in quanto la riflessione riguarda l’impiego
industriale e non – come viene posta da questi gruppi – un eventuale impiego
domestico dell’energia, questa fase è stata ampiamente superata da più di un
secolo e la sfida energetica si configura in uno scenario molto differente da
quello conosciuto e che una semplice regressione tecnologica non può né
preservare, né risolvere le contraddizioni in esso presenti.
Le
contraddizioni economiche che il sistema capitalistico industriale scaricava
chiaramente sull’attività di lavoro dipendente, con grande disappunto dei
socialisti e del filosofo tedesco Karl Marx, sono state progressivamente
scaricate quasi interamente sulle stesse risorse energetiche. Non si produce
più per consumare o per realizzare quella sovrapproduzione che reggeva l’intero
sistema economico capitalistico ottocentesco, ma si produce per consumare le
risorse energetiche, per distruggere proprio quello spazio vitale che ci
sostiene, perché è l’unica attività, almeno prima della svolta
elettronico-digitale degli ultimi decenni, che dà modo di compensare a tutte le
storture che spontaneamente il mercato, il capitale e lo stesso lavoro non
riescono a risolvere. Le enormi quantità energetiche prodotte dall’energia
nucleare compensano, almeno in questa fase di civiltà, gran parte di queste
esigenze economiche, al netto ovviamente degli alti costi legati alla sua
stessa produzione. Ciò rende l’energia nucleare non solo compatibile con il
convenzionale ed attuale modello economico, ma ne rende possibile la sua stessa
inscrizione nel classico modello energetico, anche se il nucleare è un’energia non
convenzionale e non esibisce le caratteristiche economiche del modello standard.
L’energia
nucleare, per quanto enorme possa essere, non ha il vantaggio di trovarsi così
diffusamente in natura, cioè non è che praticando un buco sul terreno si
ottiene il materiale radioattivo che serve per la produzione del combustibile
atomico. La radioattività diventa una risorsa energetica dopo un lungo e
complicato processo produttivo che sintetizza il combustibile che serve per la
produzione industriale. Ciò si traduce in costi che rendono l’energia nucleare
anti-economica, almeno secondo i criteri della teoria economica classica; senza
contare gli alti costi di stoccaggio per lo smaltimento delle stesse barre
esauste. Ecco perché, nonostante i gravissimi disastri ambientali, la domanda
relativa all’uso del nucleare per soddisfare il fabbisogno energetico attuale e
futuro non è eludibile, anzi trova addirittura, una risposta affermativa. Sì, il
nucleare è una risorsa energetica che, volenti
e nolenti, compone oggi uno scenario energetico che si ritroverà anche in futuro;
un futuro composto da molti soggetti (non necessariamente economici) che
interagiscono tra loro in un equilibrio precario, sia dal punto di vista
economico che sociale, oltre che finanziario: qui, precarietà vuol dire che
sarà un sistema facilmente condizionato e facilmente disarticolabile, a meno
che iniziamo l’avventura egemonica spaziale, ma anche in quel caso l’intervento
del nucleare sarà fondamentale.
In
tal senso, la sostenibilità del nucleare può essere una strategia che assieme
ad altri dispositivi normativi e non solo permettono di gestire al meglio tutte
le varie dinamiche che agiscono a favore oppure contro l’equilibrio economico
della società umana del futuro, soprattutto tenendo ben a mente che il G20 del
2015 ha confermato alcuni motivi fondamentali:
- La lotta contro l’inquinamento passa anche attraverso una diversa e più oculata gestione di tutte le risorse energetiche e non solo (vedasi il consumo idrico e lo sfruttamento delle terre coltivabili), ma condotta entro un diverso regime di sostenibilità ambientale, che però può solo strappare parziali compromessi per la salvaguardia e l’integrità delle risorse territoriali (vedasi ciò che sta accadendo in Amazzonia).
- Nonostante tutti i buoni propositi e le sincere intenzioni ambientaliste, non vi è alcuna nazione al mondo in questo momento che abbia una reale intenzione di rallentare i propri ritmi produttivi, ripresi dopo una leggera crisi del turbocapitalismo finanziario degli anni Ottanta del secolo scorso. Il consumo energetico si è adeguato a quest’esigenza che non è solo egemonica, ma è anche insita nel modo attuale di intendere l’economia e la stessa attività produttiva: l’ampliamento delle pratiche di riciclo sono un modo per non gravare sulle risorse energetiche esistenti, ma anche un modo per poter “rallentare” senza incidere significativamente sui ritmi economici degli ultimi decenni. Tuttavia, la velocità che caratterizza l’attuale attività produttiva non richiede strategie di rallentamento, ma di una diversa implementazione dei sistemi ad essa correlati: nessuna intenzione di rallentare, ma di variare velocità tenendo gli stessi livelli di potenza.
- Rallentare non è possibile, a meno che si decida scientamente di cronicizzare fenomeni sociali come la disoccupazione, di strutturare definitivamente ciò che un tempo si chiamava “povertà relativa” in una nuova “povertà assoluta” e cronica, di sperimentare svariate formule di contenimento dell’esplosione demografica in base ad una nuova e cinica ragion di stato e via dicendo in barba al principio di autodeterminazione individuale e collettivo.
- …E via dicendo su scenari ed altre situazioni che oggi non riusciamo ad immaginare, ma che sono realisticamente possibili.
Post
Scriptum. In un messaggio su una chat una compagna di liceo ha fatto
riferimento al concetto di «civiltà», che mi tentava seriamente nel darle
risposta e commento da cui però mi sono astenuto, perché in alcuni casi si ha
la sensazione di voler dire qualcosa in merito, ma poi scavando più
attentamente forse in quel momento non c’è veramente nulla da dire. Meglio il
silenzio direbbe alcuni, ma per quanto si possa stare in silenzio c’è sempre
quella voce interiore che ti costringe a rimuginare su temi, argomenti
illudendo che abbiano un qualche valore intrinseco. Ebbene, allo stato attuale
non saprei cosa significhi la parola “civiltà”, anzi di più, personalmente fa
parte di un lessico e di un apparato concettuale verso cui ho indifferenza ed
in alcuni caso anche grande diffidenza. Certo, apro un libro qualsiasi di
storia (politica, d’arte, di scienza, di…) e trovo buoni motivi per dire che
esiste la civiltà e che è anche un valore, ma questi stessi libri mi dicono
pure che esistono tante altre civiltà quante sono le epoche, gli stili
artistici e letterari che si sono succedute nel corso dei millenni, e senza incappare
in qualche pregiudizio etnico, magari legato a qualche automatismo narrativo,
sembra che in fondo, il genere umano ha dato vita una serie di civiltà che allo
stato attuale sono state soppiantate da una sola e grande civiltà, quella
genericamente detta “Occidentale”. Certo, noi che ne facciamo parte di questo “Occidente”
è un gradevole piacere pensare che tutti i fili possibili della storia si siano
intrecciati in questo grande tessuto che è l’Occidente, finendo per relegare a
periferiche tutte le altre espressioni di civiltà. Ma questo discorso non vale
solo nei confronti di altri uomini, il che legittimerebbe un’eventuale accusa
di razzismo, ma anche nei confronti delle altre specie viventi, es. gli animali
selvatici: vivono in una pax che gli è imposta dal nostro regime di dominatori
della scala alimentare e non solo. Più che risposte, parole come queste, parole
come “civiltà”, “cultura” et similia mi fanno insorgere solo dubbi, perplessità
sul loro effettivo significato e soprattutto sul loro effettivo potere
rappresentativo di ciò che sento di essere adesso e di ciò che altri come me o
differentemente da me sentono di essere. Non chiedo una moratoria, né un’abolizione
di tali termini, ma mi interrogo seriamente a cosa servano e a cosa
significhino, perché ho paura che non abbiano alcun significato per me e la
cosa sorprendente (ma forse riguarda solo me) è che questa loro irrilevanza è
progredita di pari passo con il complicarsi del mio rapporto con la
letteratura: più sentivo estranea una certa narrazione letteraria, più sentivo
l’evanescenza del concetto stesso di civiltà e di cultura. Non è che alla base
di queste rappresentazioni vi sia l’azione perversa delle strutture narrative e
della loro azione configuratrice, quella per cui la verità è un fatto
ideologico anzitutto e non un dato oggettivo, per cui la fede è soprattutto
tradizione che un fatto incontrovertibile e via dicendo. Insomma, il punto è
(da parte mia, ovviamente) se conoscenza, erudizione, approfondimento e via
dicendo sia solo un fatto intellettuale o sia in fondo (come ho sempre pensato
che sia) il tentativo di un’emancipazione vera e propria, cioè un problema di
libertà? E se è così, come questa stessa libertà possa garantirsi in un regime
dove la narrazione domina l’azione comunicativa creando e configurando precisi
confini allo spazio di libertà, al determinismo della volontà individuale e/o
collettiva? È conveniente appellarsi al “buon senso” o alla stessa storia
civile del proprio gruppo di appartenenza?
[i]
Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, introduzione
di Alessandro Roncaglia, con contributi teorici di Lucio Colletti, Claudio
Napoleoni e Paolo Sylos Labini, traduzione italiana di Francesco Bartoli,
Cristiano Camporesi e Sergio Caruso, 1995 Newton Compton editori s.r.l., Roma.
[ii]
A riguardo, da non
dimenticare la pessima opinione espressa sulla teoria marginalista da Anotnio
Gramsci, fondatore e dirigente del Partito Comunista d’Italia, che rappresenta
pienamente l’avversione costante della Sinistra europea ed italiana, in questo
caso, sull’estensione in termini economici di alcune soluzioni analitiche.