giovedì 25 novembre 2021

Sul concetto semiotico di «enciclopedia»


O

gnuno di noi possiede un documento personale di riconoscimento, di solito una carta di identità, ebbene se si consulta questo documento si trovano gran parte delle informazioni che riguardano la nostra persona come il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, il comune di residenza con la indicazione della via compreso di numero civico, perfino la professione che allo atto della promulgazione del documento è stata dichiarata allo ufficiale dello ufficio anagrafe. Per quanto riguarda il tema di queste righe è bene soffermarsi su una sezione in specifico di questo documento, sezione indicata con il titolo «Connotati e Contrassegni salienti». In questa sezione si trovano le seguenti voci con i rispettivi valori determinati, nel mio caso la sezione appare come segue:

 

Voce della sezione

 

 

 Contenuto indicato dal documento

 

 

  STATURA

°°°°167

  CAPELLI

°°°°Castani

  OCCHI

°°°°Castani

  SEGNI PARTICOLARI °

°°°°Nessuno

 

Personalmente, avrei qualche preferenza e se mi fosse stato possibile avrei preferito trovare scritto in questa sezione alla voce OCCHI magari lo attributo AZZURRI, ma guardando la fotografia a corredo del documento sarebbe stato impossibile; forse, più fattibile la informazione «BELLISSIMO» alla voce SEGNI PARTICOLARI, ma non mi pare che ci sarebbe stato qualcuno a crederlo e ad affermarlo. In ogni caso, le varie attribuzioni assegnate dal documento compongono una definizione di me stesso, utile ovviamente non per una riflessione esistenziale o metafisica o psicologica del sottoscritto, ma semplicemente per rendermi riconoscibile alla comunità.

Il sistema adottato dalla burocrazia nazionale ricorre alla costruzione di un sistema di proprietà – e quei contenuti presenti nella carta di identità sono da intendersi tali – con il quale operare una definizione della persona a cui sono attribuite. In linguistica e in semiotica questo procedimento descrive un Contenuto Molare [Eco 1996], cioè informazioni che descrivono alcune caratteristiche specifiche di ciò a cui ci si sta riferendo; il Contenuto Molare è già una informazione più pertinente e più aderente al riferito, anche se a ben guardare ci si muove ancora nello ambito di una connotazione molto generica, non proprio individualizzante, in quanto possono esserci persone oltre me che sono alte 167 cm, che hanno capelli e occhi castani e non presentare alcuna specifica caratterizzazione fisica tanto da essere immediatamente riconoscibile. Infatti, fa fede la fotografia che è allegata al documento a dare allo intero documento personale la sua intrinseca validità e rilevanza significativa, perché la immagine fotografica funge da referenza ostensiva, cioè da esemplare che potrebbe essere indicato con il puntamento di un dito se fosse materialmente presente allo interlocutore: ovviamente, questo meccanismo elude il fatto che anche la immagine fotografica è a sua volta un segnale, certo diverso da quello di un cartello stradale, ma molto più affine ai vari cartelloni pubblicitari.

Ecco dunque, delinearsi un tema particolarmente interessante e a suo modo anche attuale, a causa del dibattito molto caotico e scomposto sulla scienza, e cioè gli esiti effettivi della composizione di un significato. Lo esempio che ho proposto può considerarsi un piccolo modello su cui impostare il ragionamento a riguardo. Per molto tempo, il problema della definizione dei contenuti scientifici è un tema strettamente correlato alla attività di denotazione del soggetto. Nella interlocuzione, ma anche nella composizione delle conoscenze scientifiche ci si muove, anzi ci si muoveva pensando e credendo che il significato di un segno linguistico o di una proposizione fosse determinato dalla sua effettiva correlazione con lo oggetto del suo riferimento. Il linguista svizzero Ferdinand De Saussure (1857-1913) nel suo noto Corso di linguistica generale (1916) costruisce il circuito della comunicazione sul modello medievale della struttura semiotica di signum-res e quindi, il significato di un segno linguistico è inteso come la trasposizione linguistica dello oggetto riferito come se fosse materialmente presente: di qui, la idea molto tradizionale per cui il segno linguistico sia quella unità utilizzata “al posto di” ciò di cui si sta parlando. La lingua insomma, è la immagine virtuale e trasposta della realtà materiale e concreta, per cui la fonte di senso sia delle attività linguistiche e semiotiche, sia delle singole unità linguistiche e semiotiche rimane sempre la realtà concreta e materiale, cioè la dimensione extra-linguistica.

Stesso discorso per le definizioni della scienza, soprattutto dopo la svolta naturalistica avutasi con il noto dibattito astronomico del Seicento e dopo lo imporsi del metodo scientifico che privilegia la osservazione diretta della natura è evidente che la realtà osservata e registrata dai sensi è la sede della rilevanza significativa di qualsiasi asserto scientifico. I dibattiti teorici che dal Seicento in avanti sono stati prodotti ammettono indistintamente questo tipo di dominio empiristico nella formulazione del sapere scientifico, dominio che è diventato il precetto per la definizione di un meccanicismo materialistico formulato dallo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1726), ma imposto culturalmente dall’Illuminismo francese con figure come il matematico e astronomo francese Pierre Simon Laplace (1749-1827) e il matematico di origini italiane Joseph-Louis Lagrange (1736-1813). Si fatica molto prima di accorgersi che la formulazione linguistica degli stessi contenuti scientifici contiene in sé alcune falle per così dire inevitabili e non più solo sul piano logico, come rivela in fondo il formalismo meccanicistico del Tractatus logico-philosophicus (1919) di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Infatti, se figure come Giovanni Vailati (1863-1909) espressero l’esigenza e l’urgenza di ragionare con maggiore consapevolezza sui sistemi rotazionali e sulle procedure comunicative del sapere scientifico, tuttavia la soluzione che veniva avanzata rimaneva saldamente ancorata alla attività denotativa e ad una costruzione logico-semantica degli stessi contenuti; grossomodo come se dai trattati di logica di Aristotele non fossero trascorsi i diciotto secoli che ci separano dallo antico e illustre filosofo greco. Eppure, lo stesso Aristotele aveva rilevato una bizzarra anomalia e metteva in guardia tutti coloro che si occupavano di scienza di badare a questa anomalia. La anomalia in questione si rivela in particolare nei capitoli delle Categorie e riguarda il fenomeno della polisemia. Lo antico filosofo muoveva dalla posizione che il significato di qualcosa fosse una determinazione esclusiva, cioè una composizione univoca dei contenuti che riguardassero lo oggetto riferito; in linea di principio, ogni forma di scostamento rispetto a questa univocità introduce una contraddizione nel significato e dunque, un problema in termini di individuazione e comprensione filosofico-scientifica. Tuttavia, lo stesso Aristotele conveniva che in alcuni casi la definizione dl riferito ammettesse questo fenomeno polisemico in maniera “strutturale”, come nel caso appunto, del concetto filosofico di to’ ‘ón, cioè della espressione che descrive il tema filosofico dello «essere».

È noto che il razionalismo logico di Aristotele si è impegnato a costruire un sapere che fosse il meno contraddittorio e ambiguo possibile, tanto che la stessa struttura del sillogismo scientifico forniva criteri e metodi retorici e formali per determinare argomenti che avessero una validità scientifica indubbia e indiscutibile. Ma la battaglia di Aristotele contro le anomalie linguistiche della comunicazione e le contraddizioni sconcertanti della logica si scontrano nelle affermazioni sensate e alquanto inorridite di una piccola bambina di nome Alice: lo stesso Aristotele ne sarebbe stato sorpreso, malamente stupito.

La svolta linguistica del XX secolo non ha modificato ciò che una lunga tradizione letteraria e scientifica ha ampiamente consolidato, vale a dire la affermazione di un forte dominio semantico, dominio su cui si basa la idea di un «pensiero forte», cioè di un sistema culturale e scientifico per nulla incline a negare validità non solo alle proprie procedure e meccanismi, ma anche ad insinuare il dubbio che la via del metalinguaggio sia in fondo, la sconfessione della semplificazione logico-metafisica di Guglielmo di Occam (1288-1347) e che forse, il rasoio della scienza ha necessità di essere limato. In questo paesaggio, il successo della semiotica definisce la affermazione di una attività che ha il ruolo e la funzione di verificare i procedimenti linguistici che agiscono nella stessa composizione dei significati scientifici, il che di per sé è contraddittorio rispetto al fatto che la fonte della conoscenza è solo la realtà sensibile, gli eventi della natura e i fatti empirici. In effetti, la attività semiotica sembra estranea alla attività scientifica, almeno in senso stretto. Ciò ci viene confermato da una distinzione formulata da Umberto Eco nella prefazione citata dalla antologia di Augusto Ponzio (n.1942) [Ponzio 1976: pp.164-67] a I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico [AAVV, Milano 1969] che indica come la attività scientifica sia legata a sistemi non direttamente collegati al sistema della cultura, cioè a quei meccanismi ordinari propri di una società, e ciò a causa del formalismo simbolico dei suoi contenuti: la scienza compone i propri contenuti secondo regole e criteri che non sono quelli della comunicazione ordinaria, ma sono specialistici e autoreferenziali. Pertanto, lo interesse della semiotica al discorso scientifico è limitato soltanto a quel momento in cui la scienza diventa un fatto culturale, cioè quando i suoi contenuti iniziano ad avere una diffusione nella opinione pubblica, altrimenti la teoria scientifica produce segni e significati “alieni” rispetto al pensiero sociale. E tuttavia, il linguista italiano Tullio De Mauro (1932-2017) parlando di «arbitrarietà del segno linguistico» indica

«la nozione, già aristotelica, di immotivazione naturalistica della forma del segno rispetto al suo valore referenziale. (…) non c’è alcuna necessità d’ordine naturale per cui il referente debba essere individuato da un ordine fisico: [la necessità] sorge soltanto all’interno d’un determinato codice, una volta che si sia stabilito di accettarlo rispettandone le convenzioni» [cit. Ponzio 1976: pp.319-20].

È evidente che tale impostazione rivelerà una certa insoddisfazione teorica, perché suggerisce che le attività legate alla scienza siano di altra natura rispetto alle ordinarie attività cognitive dell’individuo. Inoltre, suggerisce una specializzazione dell’intera attività semantica e una griglia ontologica che possiedono un sistema di “autodiagnosi” dei propri contenuti fondamentalmente differenti da quelli ordinari e oggetto di interesse della stessa semiotica. Ma a lungo andare tale approccio si rivelerà non più sostenibile e lo stesso Eco è tra quelli (forse il primo) a denunciarne i limiti. Una posizione trasversale rispetto al panorama culturale europeo che viene a descriversi costantemente lungo una serie di libri del semiologo e soprattutto intorno ad un tema che prenderà sempre più rilievo nelle tesi del semiologo italiano, cioè il tema della enciclopedia.

Avevo tentato di descrivere questo percorso in uno scritto dal titolo Il problema tassonomico delle definizioni scientifiche, che pensavo di mettere qui sul blog, ma l’eccessiva estensione mi ha scoraggiato a farlo; ecco perché ho optato per una esposizione più sintetica e forse soltanto accennata di queste righe, tuttavia c’è da fare alcune precisazioni. Anzitutto, pur essendo costante l’interesse di Eco al tema della enciclopedia, questo interesse però si focalizza esclusivamente sui termini di una distinzione tra enciclopedia e dizionario che con il passare del tempo diventerà sempre più rilevante e decisiva nella composizione del concetto di enciclopedia, che diventerà un tema fulcro della teoria della referenza e della composizione del significato nell’opera saggistica dopo la metà degli anni Novanta del secolo scorso. Inoltre, il concetto di enciclopedia diventa la risposta migliore che si possa formulare per risolvere alcune fondamentali contraddizioni affiorate nella teoria linguistica, soprattutto per quanto riguarda l’attività scientifica della classificazione tassonomica: il criterio semantico non può intervenire con soddisfazione nel dirimere le eventuali ambiguità tassonomiche e le controversie sulla natura e trasmissione dei contenuti della scienza, proprio perché esiste non solo una divergenza lessicale e contenutistica tra la semantica scientifica e la semantica propria e acquisita in modo ordinario da chi non ha specializzazioni scientifiche. A ciò si aggiunge un fatto semiotico sorprendente e che già era emerso in [Eco 1975], cioè che la composizione dei significati non ha sempre un’origine denotativa. Se l’analisi dei lessemi nello spiegare il contenuto di una definizione, dunque di un significato ricorre sovente alla referenza ostensiva, cioè alla pratica di indicare puntando con un dito il referente del segno linguistico (esempio, /Luna/ significa «Luna» e così dicendo si punta un dito verso il satellite naturale della Terra), tale usanza non risolve i problemi di comprensione (e di persuasione) legati alla comunicazione del contenuto scientifico. Affinché la comunicazione scientifica dei propri contenuti sia efficace occorre una effettiva integrazione tra due sistemi semantici non solo eterogenei, ma anche incompatibili tra loro.

Il concetto semiotico di «enciclopedia» diventa lo strumento concettuale con cui poter risolvere queste controversie, ma significa iniziare a pensare la denotazione non più in termini di referenza ostensiva, ma come un sistema complesso e arzigogolato di connotazioni che raccolte insieme contribuiscono non solo a comporre il significato, ma anche a fornire (seppur in via di indirizzo) una qualche spiegazione. Esempio, se il lessema /balena/ viene spiegato dallo zoologo elencando un sistema di proprietà (semantica da dizionario/vocabolario) da cui a sua volta fa derivare la definizione scientifica grossomodo simile a questa uguaglianza:

«MAMMIFERO + ACQUATICO + APPARATO POLMONARE + PRESENTE NEI MARI DEL NORD»,

definizione dove le proprietà ACQUATICO e APPARATO POLMONARE rivelano la famiglia di appartenenza dell’animale, cioè a quella dei cetacei. Ora, ammesso che un qualsiasi interlocutore abbia una idea o un’immagine cognitiva dell’animale, la definizione può rivelare degli inganni e magari far pensare a chi non è zoologo che la «balena», essendo un animale acquatico, sia più simile ad un comune pesce che non al proprio cane o gatto. Ad aiutare nella comprensione della definizione sopra presentata possono intervenire attribuzioni che derivano da un insieme di connotazioni non tutte derivanti dalla esperienza diretta in mare o ad un acquario pubblico, come nel caso della letteratura, che oltre ad essere piena di una variegata e multiforme caratterizzazioni che possono intervenire nella connotazione del riferito di una definizione scientifica, per cui chi ha letto il noto romanzo di Hermann Melvile (1819-1891), Moby Dick (1851), può avere oltre che il Tipo Cognitivo di /balena/, anche una “giusta” definizione del suo significato, ma anche pregiudizi e imprecisioni contribuiscono a formulare significati che si riversano nel pensiero sociale. Ma questa è un’altra storia.

L’introduzione delle connotazioni letterarie rivela una natura composita di una qualsiasi definizione, anche di una definizione scientifica come si è visto e ciò costringe a dover ammettere che la spiegazione di un contenuto specialistico come può essere appunto, una definizione scientifica deve avvalersi di uno strumento che non sempre interviene a dirimere le controversie come il dizionario. A volte, la spiegazione e comprensione di un significato può realizzarsi tramite un precedente contenuto acquisito magari secondo canali di informazione e secondo mezzi di informazione differenti da quelli consueti – o quelli deputati all’acculturazione della società come famiglia e scuola – e ciò nonostante non è detto che il contenuto sia del tutto fuori campo: basti pensare all’opinione di Eco sul valore dei fumetti contemporanei nella composizione dei significati diffusi socialmente. Ma affinché ciò possa realizzarsi occorre una prospettiva generale e complessiva delle caratterizzazioni che sono attribuibili ad un riferito che può determinare una selezione, un aggiornamento e una scelta delle attribuzioni corrette al significato in questione. È l’idea di Enciclopedia Massimale che Eco espone in [Eco 2012] con la quale mette fine ad una storia di controversie tra dizionario e enciclopedia che risale fino ad epoche antiche, ma dà inizio a possibilità di classificazione e a strutture enciclopediche (esempio le reti neurali alla base della Intelligenza Artificiale) dove il concetto semiotico di «enciclopedia» non indica più il concetto epistemologico di mathesis, cioè di sapere universale [Michel Foucault 1966], ma indica un sistema dove intervengono specifiche condizioni che rende questo sapere un materiale di informazioni suddiviso e divisibile in campi locali, facilmente rintracciabili mediante una ricerca in chiave tematica e che descrive tutte le caratterizzazioni relative all’argomento. A riguardo, alla base di questo concetto non c’è più la tradizionale concezione di una universalità dei contenuti, ma la attività di una struttura, costruita intorno ad un criterio regolativo, che configura percorsi tematici, articolati e complessi, con cui comporre definizioni e contenuti di ogni genere, compreso i contenuti della scienza.

A suo modo, il Discorso Preliminare (1751) del filosofo francese Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert (1717-1783) che introduce la nota opera dell’Illuminismo francese, cioè l’Enciclopedia indica due caratteri che anticipano l’idea di criterio regolativo alla base della Enciclopedia Massimale di cui si diceva. Il filosofo francese offre due caratterizzazioni della Enciclopedia, anzitutto quella di essere un «mappamondo» e quella di essere un «labirinto». Sono due caratterizzazioni di estremo interesse e che più di quanto potesse immaginare D’Alembert colgono due attività di grande potenza e proficuità, almeno per come la civiltà umana ha imparato a definire e a comporre le proprie attività scientifiche e culturali. Il concetto semiotico di «enciclopedia» risolve molti problemi di comprensione e di orientamento, tuttavia non è un concetto predeterminato, ma viene a configurarsi nell’articolato  processo di accumulazione di informazioni e di contenuti; in qualche caso, questo concetto è anche alla base di clamorosi fraintendimenti che sono imputabili per lo più al modo in cui viene configurata la struttura a rete della stessa enciclopedia (è il caso della Enciclopedia Ontologica formulata da James Joyce (1882-1941) [Eco 2012]) che può essere causa e motivo di quel fenomeno di ridondanza semantica che diffonde contenuti perverse o configurazioni scellerate di uno o più significati; in questo casi si deve operare aggiornando o riformulando intere sezioni di enciclopedia e forse addirittura dell’intera stessa enciclopedia. Ma ciò significa anche che, senza scomodare civiltà extraterrestri, essendo le stesse definizioni enciclopediche un condensato di connotazioni, alcune fissate tramite convenzioni sociali, la traduzione di esse in una lingua ed in un sistema culturale che non adotta le convenzioni fissate per le definizioni enciclopediche, la traduzione dicevo, appare molto complicata e non sempre coronata da successo: questo è un aspetto non considerato nel puzzle proposto da un libro del matematico Martin Gardner (1914-2010) riguardante la situazione provocatoria di poter ridurre un intero volume della Enciclopedia Britannica in una stringa numerica [Gardner 1978].

Porto Empedocle, 25/11/2021

mercoledì 24 novembre 2021

La mappa come oggetto semiotico. La mappa non è un oggetto semiotico

Nella mia stanza si può osservare la presenza di un piccolo mappamondo che di tanto in tanto sposto da un ripiano ad un altro, e pur non avendo una stabile collocazione, è divenuto un ordinario soprammobile tra i miei mobili. Il mappamondo in questione è un piccolo giocattolo, sicuramente è uno dei giochi che di tanto in tanto lasciavano i miei nipoti quando erano più piccoli, ma è un modello didattico, adatto per bambini e che ritrae tutti i cinque continenti ed è colorato in modo da mettere in evidenza gli stati e le nazioni: la colorazione segue certamente la teoria dei quattro colori. Dunque, è un tipico mappamondo geografico-politico, simile nella tipologia ad una qualsiasi carta geografica o di un atlante geografico che compone il corredo di qualsiasi studente.

Se la utilità didattica è abbastanza evidente, tali supporti descrivono un tema sul piano teorico di per sé interessante, ma anche complesso. Molti di noi ammetteranno che la immagine riportata da giocattoli del genere sia così fedele alla realtà effettiva della Terra, a parte lo stratagemma della colorazione e della eliminazione di alcune informazioni comunque “reali” come i rilievi montuosi o la presenza di laghi o di sistemi fluviali, che a fatica si direbbe il contrario, cioè che quella immagine è una descrizione della realtà del pianeta, ma non è la “vera” immagine della Terra. E tuttavia, si considerano strumenti di questo tipo, i mappamondi appunto, come autentiche proiezioni delle fattezze materiali del pianeta. Ciò rende una mappa geografica e più in generale un mappamondo un alter ego oppure un avatar della Terra.

Per esperienza ognuno di noi sa che la mappa geo-politica è uno dei diversi formati di mappa, che esistono vari tipi ognuno recanti informazioni molto dettagliate che possono mancare negli altri tipi di mappe. Ma poiché queste descrizioni spesso assumono un importante valore ausiliario magari alla ricerca che si sta compiendo, oppure alle analisi geologiche che si stanno svolgendo, pur essendo parziali e in qualche caso limitate rappresentazioni dello ambiente terrestre, nessuno mette in dubbio che tali descrizioni non siano espressioni della vera realtà delle cose e degli eventi naturali (esempio, le mappe nautiche relative alle correnti oceaniche). Ora, la stessa storia delle mappe e delle carte geografiche rivela come tale strumento sia stato mutevole e come, alla bisogna, esistano diverse tipologie di mappe, ognuna con uno scopo descrittivo raggiunto o da raggiungere, si veda il caso delle carte astronomiche. In genere, quando si parla di mappa si pensa quasi immediatamente alle carte geografiche e appunto, alle carte astronomiche, in quanto nella storia dello uomo la esigenza di potersi orientare lungo i viaggi via mare che via terra era importantissima sia per gli spostamenti nomadi, sia per le rotte commerciali, ma esistono altre descrizioni comunemente associate al concetto di «mappa» che forniscono non una descrizione bensì alcune selezionate informazioni.; è il caso degli stradari o degli orari delle partenze o delle fermate di una metropolitane. In questi ultimi casi, la descrizione della realtà empirica non è una trasposizione reale di questa, ma è una trasfigurazione schematica tesa a rappresentare un circuito dove si trovano inserite le varie informazioni che si richiedono da parte di chi consulta questo tipo di mappe.

In [Eco 2011] il semiologo italiano Umberto Eco (1930-2016) fornisce una piccola “storia” della mappa, più che altro descrivendo alcuni tipi di mappe che nel corso della storia umana sono state pensate e proposte con lo scopo non tanto di fornire una storia delle mappe, quanto indagare sullo immaginario che tali oggetti finiscono per rappresentare. In questo scenario, vengono ovviamente privilegiate le mappe astronomiche in quanto in esse si condensano non solo le idee scientifiche sullo Universo, ma anche il modo in cui chi ha elaborato questi oggetti “immaginava” il mondo e la realtà che lo circondava. A riguardo, è sufficiente pensare alla descrizione del mondo nelle carte geografiche greche, a loro volta basate sulla immagine fenicia del mondo che coincideva de facto con il micro cosmo del mar Mediterraneo: a questa si aggiunga anche la convinzione della “piattezza” della Terra derivante da una valutazione “realistica” della immagine riportate dalle antiche mappe. La premessa di questo breve excursus è dunque, il concetto di immaginario e tale concetto ha prodotto nel corso del tempo una serie di immagini della realtà dello Universo e della Terra che forse non aiutavano un granché nella eventualità di un viaggio realmente intrapreso (si veda tutta la vicenda delle esplorazioni geografiche di epoca moderna e del viaggio del navigante genovese Cristoforo Colombo che portò alla scoperta della America), ma che sono alla base di quei viaggi dello immaginario che spesso hanno trovato dilettevole espressione in letteratura, come nel caso della opera letteraria di Emilio Salgari o nei racconti del mare di Jack London e tanti altri: in questo caso, il tema dello immaginario è strettamente legato al tema dello esotico, a sua volta dipendente dalla ampiezza reale della superficie terrestre, cioè quanto realmente grande fosse la idea del mondo, quale fosse la sua frontiera; un tempo tale confine era lo Stretto di Gibilterra o al limite la isola della Groenlandia da un lato e lo Stretto del Bosforo in Turchia dallo altro lato, oppure tornando indietro nel tempo le sponde del fiume indiano del Gange o il corso del Tigri e dell’Eufrate o del Nilo, oggi  è la frontiera dello spazio (ammaraggio sul pianeta Marte, inverno 2021).

Lo immaginario di cui discute Eco in Astronomie Immaginarie dunque, permette di ragionare sullo oggetto «mappa» come un oggetto semiotico, in quanto ciò che gli dà significato non è la sua funzione utilitaristica, ma il modello di rappresentazioni che descrive e che utilizza per configurare la realtà naturale e astronomica. Ma in linea di principio, il concetto di mappa che ricorre abitualmente nella comunicazione di ognuno di noi non è proprio un oggetto semiotico. Lo stesso Eco lo chiarisce in un breve scritto di [Eco 1992], in cui polemizza con una serie di argomenti sulla convinzione che la immagine riportata da una mappa sia la realtà effettiva di ciò che viene proposto da quella immagine. Se ciò fosse vero, la mappa sarebbe un oggetto semiotico, ma non lo è, almeno in base alla argomentazione del semiologo. Il fulcro di tutta la faccenda è interrogarsi quanto il significato di questo oggetto semiotico possa realmente identificarsi con la realtà naturale del mondo e dello Universo. La premesse fondamentale di questo ragionamento è che la mappa dovrebbe avere una estensione uguale alla realtà che descrive ed essere totalmente sovrapponibile a questa; in pratica, la scala di riferimento delle dimensioni dovrebbe essere di 1/1 m. Questa identificazione della scala di riferimento suggerisce dunque, che la mappa per essere un oggetto semiotico dovrebbe essere in tutte le sue parti la stessa realtà materiale e quindi, “sostituirsi” (come fa il segno linguistico al riferimento denotativo nella teoria linguistica tradizionale) a questa, prendendone il posto e il ruolo. Ci sono varie ragioni per cui ciò non è possibile e per cui si cadrebbe in alcune contraddizioni, ma quella più interessante e importante riguarda proprio la sovrapponibilità della mappa. Pensare che si possa avere una mappa estesa quanto il mondo, sospesa sopra il mondo e sovrapponibile sul mondo suggerisce la idea che il mondo della mappa sia una superficie sovrapposta al mondo reale e che questo ultimo sia un oggetto che può essere «impacchettato» da una superficie di pari dimensione.

Questo ultimo carattere rende la «mappa» non un oggetto semiotico, pur presentando informazioni e dati che possono comporre nella descrizione e rappresentazione di qualcosa, in questo caso della Terra. Il gruppo di informazioni e dati che compongono questa immagine non costituiscono un sistema di proprietà su cui poter determinare la connotazione di un significato, fondamentale nella formulazione di una analisi semiotica dello oggetto in questione. Pertanto, il piccolo giocattolo a forma di mappamondo di per sé è qualcosa di affine o di vicino a ciò che indicativamente pensiamo essere una «mappa», ma questa verosimiglianza non è sufficiente da intendere questa immagine la configurazione semantica di un significato. E tuttavia, ciò stupisce visto che si muove dalla presunzione che la immagine del mappamondo è la effettiva rappresentazione del mondo, del pianeta Terra. Il tema della sovrapponibilità cui faceva menzione la argomentazione di Eco ripropone il tema della simmetria geometrica, della equivalenza delle superfici piane che però, non possono proporsi per la immagine del mappamondo, perché la superficie del mappamondo non è una superficie piana, bensì è una curva. Le mappe attuali sono uno strumento descrittivo formidabile, ma del tutto incompatibile con tutti i casi citati da Eco nello scritto Astronomie Immaginarie, perché è assente in molte di quelle ricostruzioni il tema di come riprodurre su una superficie piana una realtà materiale che invece è più compatibile con una superficie curva. La stessa geometria euclidea trattava le superfici curve, dissertando di teoremi applicati ad una classe di oggetti molto speciali che sono i cerchi, ma lo approccio euclideo prevede la presunzione che tutti gli oggetti geometrici, compresi cerchi e circonferenze, abbiano un profilo costante e quindi, la loro analisi risulti compatibile con il criterio della proporzione, cioè siano incentrate su precise, conformi e ripetibili relazioni di equivalenza. La Terra non è un oggetto che ha una superficie dallo andamento costante e non è neanche una circonferenza perfetta. Tuttavia, quando il matematico alessandrino Eratostene determinò (con una approssimazione vicina al vero) il raggio della Terra compose un ragionamento geometrico di tipo euclideo.

Per avere una idea intuitiva dei problemi che intercorrono riguardo alla composizione della immagine di un mappamondo si consideri la seguente esperienza. Si prenda un palloncino su cui si disegna con un pennarello un triangolo e un segmento abbastanza lungo: il palloncino sgonfio ripropone a diverse condizioni una superficie piana tanto che se il triangolo disegnato è un triangolo equilatero, è possibile poter calcolare su quello oggetto il valore della diagonale mediante lo uso del noto teorema di Pitagora, quello per cui i2 = C2 + c2. Ma se si gonfia il palloncino, si avrà la stessa situazione? È il matematico tedesco Bernhard Riemann (1826-1866) a fornire la risposta a ciò, una risposta che è negativa: in una superficie curva non esiste più una geometria piana, cioè una geometria di tipo euclideo. Nel caso della esperienza indicata la linea retta disegnata sul palloncino si estende di una lunghezza maggiore di quella fissata dal disegno a palloncino sgonfio, in quanto la linea retta è diventata una linea curva, in seguito detta geodetica. Ciò accade perché il palloncino gonfio non è un oggetto euclideo come può essere un quadrato, per il quale la somma degli angoli interni è uguale a 360°, ma è un oggetto ellittico, per il quale la somma degli angoli interni è invece maggiore di 360°. Questo comincia a comprendersi con le geometrie non euclidee e tramite la definizione fornita dalla teoria della relatività del fisico tedesco Albert Einstein (1879-1955) che spiega come possa accettarsi la uguaglianza tra superficie piana e superficie curva.

Per capire il concetto einsteiniano si immagini una esperienza ideale, ma non troppo. Si supponga di osservare il movimento di due formiche appaiate su una superficie piana, ci si aspetterà che compiano un moto dal punto di inizio A al punto in cui termina la osservazione della esperienza, mettiamo al punto B. Durante il moto le due formiche procedono in modo parallelo e quindi manterranno la stessa distanza per tutto il tempo del movimento. Ora, si immagini le stesse due formiche, appaiate parallelamente, osservate a compiere lo stesso tragitto, ma su una superficie curva e non più piana. La osservazione riporta due esiti molto curiosi:

·         nel caso di una superficie curva e concava (dimensione ellittica), le due formiche procederanno in direzione del punto B e tenderanno ad avvicinarsi sempre più, fino addirittura ad incontrarsi;

·         nel caso di una superficie curva convessa (dimensione iperbolica), le due formiche procederanno verso B e tenderanno ad allontanarsi la una dalla altra.

  Ciò che stupisce da questo esperimento è la incapacità degli strumenti umani nel registrare questa situazione: si deve fissare il principio assoluto di una misurazione di tipo euclideo per osservare tale situazione e quindi, sottrarsi per così dire dal “giogo” della dimensione di appartenenza.

Ora, questo tipo di esperienza è alla base della formulazione della concezione relativistica della piega dello spazio formulata da Einstein facendo riferimento alle curve geodetiche di Riemann. Per comodità di esposizione, si può continuare a pensare allo spazio come una “normale” superficie piana (come vuole la geometria euclidea), ma dover ammettere la esistenza di forze notevoli che riescono a piegare questa superficie a tal punto da curvarla. Tali forze sono le forze di gravitazione dei pianeti e delle stelle. Esse producono per così dire una specie di avvallamento intorno allo oggetto gravitazionale tale da trasformare lo spazio attorno a sé come uno spazio curvo e non rettilineo. Tale curvatura non influisce solo sulla struttura dello spazio, ma anche nella struttura del tempo, il quale risulta dilatato oltre la misura ordinaria. È la nota tesi della curvatura spazio-temporale della teoria della relatività: su di essa si basa il famoso argomento dei gemelli e di tanti altri argomenti tesi a spiegare le varie contraddizioni legate alla dimensione del tempo e della velocità.

A questo punto si hanno alcune nozioni sufficienti per capire quanto segue. Riprendiamo il giocattolo del mappamondo da cui si è partiti allo inizio. Se la immagine del mappamondo è la trasposizione fedele della realtà del pianeta, basterebbe prendere riga e compasso e determinare le distanze da una località alla altra. Ma nel piccolo mappamondo non mi è possibile, perché è una superficie sferica e forse prendendo un mappamondo di dimensioni più grandi potrei in una certa misura utilizzare riga e compasso come se stessi misurando su una superficie piana. Per agevolarmi il lavoro, ricorro ad una carta geografica o ad una pagina di un atlante e usando riga e compasso inizio a determinare la distanza delle località che mi interessa. Il fatto di operare su carta mi illude sul fatto che la distanza che sto determinando è una grandezza non ipotetica, ma “reale”, cioè deve tenere in considerazione che non è rintracciabile così bellamente sulla mera superficie del foglio, ma che già il foglio in questione ha trasfigurato perfettamente ciò che la misurazione euclidea non riuscirebbe a calcolare. Per capire, se si prende uno stradario della propria città e si disegna su di esso un punto con la matita corrispondente alla propria abitazione, e a partire da questo punto disegnare il tragitto dalla propria casa verso il teatro della propria città, dove si sta tenendo la rappresentazione che ci interessa assistere, se la superficie del tragitto fosse piano per determinare la distanza che intercorre dalla propria casa dal teatro, basterebbe il noto teorema di Pitagora, infatti il valore della ipotenusa corrisponderebbe alla distanza da percorrere per giungere a destinazione; ma non è così, perché la superficie è curva e lo uso del teorema di Pitagora costringe a considerare i valori in termini assoluti. Questa è la geometria di Minkovski, dal nome del matematico tedesco Hermann Minkovski (1864-1909), che rilevò questa anomalia della applicazione della geometria euclidea.

La mappa dunque, come strumento cartografico rivela un fatto non facilmente accettabile e cioè che ogni misurazione geometrica che si compie sul pianeta non può essere euclidea, ma si muove nello ordine di una geometria ellittica, in quanto la superficie della Terra ha una struttura curva e la sua estensione è talmente grande rispetto alle dimensione di un singolo essere umano che è possibile continuare a formulare con successo misure e calcoli in termini euclidei, pur vivendo su una superficie curva. Ma tale consapevolezza, non osservabile dai sensi direttamente, esplicita un aspetto rimasta sottotraccia nel discorso di Eco sulla natura semiotica della mappa. La stessa formulazione di una mappa non è esente dalla attivazione di quei meccanismi che compongono la stessa immagine e visione del mondo, a tal riguardo la mappa può considerarsi un oggetto semiotico e tuttavia non lo è. Eppure, le valutazioni sul piano matematico che prevedono la possibilità di considerare il mondo un oggetto che può essere impacchettato da una superficie piana come è la carta geografica – e che Eco ha escluso! – attiva una serie di considerazioni che possono spiegarsi soltanto collocando queste considerazioni entro una complessiva e generale formulazione di tipo enciclopedico, vale a dire una formulazione che non escluda, ma raccolga insieme tutte le informazioni relative al tema in questione – pressappoco quel che fece lo stesso Einstein non escludendo a priori anche le formulazioni apparentemente meno condivisibili. Pertanto, pur non essendo un “vero” oggetto semiotico la definizione della mappa come strumento matematico di descrizione costringe la stessa matematica ad attivare valutazioni molto simili a quelle che un semiologo attiverebbe per un oggetto semiotico qualsiasi, il che rivela che in termini generali la composizione di un significato scientifico deriva da più registri e più fonti di analisi.

Porto Empedocle, 24/11/2021

martedì 5 ottobre 2021

Un Eco di ritorno - #4. La biblioteca de "Il nome della rosa"

Esistono molti luoghi considerati enigmatici, misteriosi e addirittura magici; luoghi in cui domina il mistero, ma anche il pericolo, e forse anche la morte. Sono luoghi che esibiscono evidenti tratti di esotismo, spesso carichi di stereotipi, di clichés e di insipienza e quindi, generatori di per sé delle più bizzarre fantasie, se non di mostri veri e propri. La letteratura, soprattutto quella di genere come i racconti gialli o i racconti horror, fanno ricorso a questi luoghi sia per contestualizzare le storie che raccontano sia per creare nel lettore quella attesa che lo coinvolge, lo intriga e lo spaventa. Ebbene, molti di questi luoghi o sono ruderi abbandonati o sono zone urbane notoriamente considerate malfamate o evidentemente degradate – e purtroppo ce ne sono molte nelle città contemporanee -, più difficile che luoghi domestici riescano a suggestionare la fantasia o le paure dei lettori, tranne forse certi edifici di epoca vittoriane, ormai divenute icone di storie piene di thriller o di vicende scioccanti, o strutture particolarmente bizzarre e grottesche come i plastici dei film di Tim Burton. Dicevo, tra questi luoghi annoverare una biblioteca è se non improbabile, almeno più difficile, tranne se la storia lo richiede – e di esempi ce ne sono molti sia al cinema che in letteratura. Una biblioteca nota nella nostra letteratura nazionale è quella descritta da Umberto Eco nel suo primo romanzo, Il nome della rosa.

La storia del romanzo è molto nota e come si sa al centro delle vicende raccontate c’è un misterioso libro proibito, che si rivelerà essere il perduto secondo libro della Poetica di Aristotele, libro di cui si ha solo alcuni riferimenti e citazione dai commentatori del passato. Il romanzo di Eco ipotizza non solo che tale libro sia realmente esistito, ma che l’unica copia circolante in Europa fosse presente nel catalogo della biblioteca dell’abbazia benedettina in cui viene ambientato il romanzo. La conoscenza di questo libro si rivela mortale, perché in esso viene teorizzata una concezione della comicità, ben prima che il filosofo Henri Bergson ne formulasse un trattato sulla falsariga del trattato aristotelico. A causa delle idee aristoteliche sulla comicità che l’abbazia è funestata da misteriosi incidenti mortali, incidenti rivelatesi poi omicidi con l’intervento di un frate francescano Guglielmo di Baskerville, coadiuvato dal suo novizio, il benedettino Adso, voce narrante della storia. L’abbazia è un fantomatico monastero dell’alta Italia – oggi universalmente indicato dai lettori di Eco con la Sacra di San Michele situata nella valle di Susa – che nell’anno 1327 è sede di un concilio tra gli ordini monastici per decidere su alcune questioni che riguardano la politica universalistica del papato, fortemente avversata dai frati minori dell’ordine francescano, a cui da poco è stata riconosciuta la regola (la seconda, quella del 1322). In questo clima di tensione spirituale e di generale crisi politica che domina in Italia a causa dei contrasti tra il papato e l’imperatore di Germania sul tema delle investiture e del potere regale si assistono a queste morti misteriose, eventi drammatici che vengono spiegati come segni di un’apocalisse sopravveniente. Nello sviluppo narrativo compare come fondo costante della storia la presenza di questa biblioteca inaccessibile, che eccita la curiosità del frate francescano, investito tra l’altro dall’abate del monastero di indagare le cause di questi fatti misteriosi. È convinzione di frate Guglielmo che la ragione che spieghi le morti misteriose nell’abbazia, oltre l’azione malefica del diavolo, sia da ritrovare appunto, in questo luogo inaccessibile, ma anche estremo vanto dell’abbazia, visto che tra le sue mura sono conservati alcuni codici e manoscritti rarissimi, un patrimonio che si perderà in parte nel rogo finale dei locali della biblioteca.

Ora, se questo libro proibito è la causa degli eventi che innescano il racconto del romanzo, in realtà lo elemento protagonista del romanzo è appunto, il luogo della biblioteca, immaginato da Eco con una struttura labirintica e collocata nella sommità del monastero, preceduta dalla sala dello scriptorium, il locale in cui i monaci amanuensi lavorano sulle copie manoscritte dei libri donati in prestito o come dote al monastero: la copiatura aveva la funzione di produrre una copia che sarebbe stata conservata nella biblioteca, oppure consegnata al privato o all’istituzione religiosa che l’avesse richiesto. Quest’attività definisce un sistema di produzione dei contenuti culturali che domina tutta l’epoca medievale e descrive soprattutto un paradigma che vede come centro nevralgico il ruolo, la funzione e lo status sociale del monachesimo europeo. Il racconto del romanzo non è dunque, solo la storia di un’ossessione che a parti inverse accomuna un po’ tutti i protagonisti, ma è soprattutto la storia del declino di un sistema culturale incentrato sulla figura del monaco ed in modo indiretto sulla centralità ideale ed intellettuale che occupa un luogo come la biblioteca.

 Tra le righe del romanzo Eco cerca di trasmettere il senso che l’uomo medievale assegnava a siffatto luogo. Accanto al concetto di auctoritas che caratterizza espressamente alcuni testi fondamentali della civiltà medievale europea – su tutti ovviamente i libri della Bibbia, ma anche alcuni trattati dell’antichità -, esiste un altro tema, anzi un vero e proprio luogo fisico in cui la verità espressa dalle auctoritas trova riparo, ma anche irraggiamento nella vita dell’uomo europeo e nel cristiano in particolare. L’immagine della luce, attributo che la teologia cattolica applica esclusivamente alla verità di fede, diventa anche un’attribuzione della biblioteca, in quanto è questo luogo lo strumento con il tale luce può prodursi nella mente dell’uomo e diffondersi su tutta la sua realtà. La biblioteca è il luogo fisico della luce, il luogo attraverso cui l’umanità po’ seguire quella direzione indicata da quei giganti che sono gli autori ed i filosofi antichi, quelli di cui l’uomo medievale sente di essere il continuatore. L’uomo medievale di Jacques Le Goff ricorda come per il Medioevo non esiste alcuna rottura con il passato, nonostante l’età antica sia dominata da quella cultura pagana ed anticristiana che il noto Concilio di Nicea ha definitivamente cancellato, e l’epoca moderna espressa dal Medioevo sta in rapporto di relazione costante con quel passato: i testi di riferimento continuano ad essere i testi pagani, soprattutto per filosofia, scienza, oratoria, linguistica e esegesi, ma tale invadenza pagana è mitigata dal modello educativo formulato da Sant’Agostino, un modello in cui la cultura classica non è rigettata, ma “depredata” di ciò che può tornare utile all’apologia cristiana e più in generale alla teologia cristiana. In questo paesaggio fondamentale è il ruolo che occupa la biblioteca, luogo della difesa della memoria di questa infanzia dell’umanità che altrimenti cesserebbe di aiutare l’umanità nel suo percorso di crescita verso la fede e verso la comprensione delle cose. È proprio per realizzare questo scopo che si costruiscono biblioteche, ma è tramite questa edificazione che interviene la azione del monaco, l’unica figura che può affermare una statura intellettuale, cioè la statura di «litterates», di conoscitore delle lingue antiche e quindi, lettore dei testi antichi.  

Ciò detto, la biblioteca pur essendo un luogo molto diffuso in epoca medievale non è invenzione degli uomini del Medioevo e neanche dei monaci cristiani, non sia hanno notizie certe sull’esistenza di strutture che possono essere assimilate ad una biblioteca prima dei regni ellenistici; si può ipotizzare, perché alcune notizie sembrano suggerirlo, che già in epoca babilonese fossero presenti strutture di queste tipo, almeno come luogo di deposito delle tessere o degli editti del re, ma è solo in epoca più tarda che viene a costituirsi il significato di biblioteca nel modo in cui si è abituati a considerarla. Tale significato viene definito in Egitto, durante il regno di Tolomeo II Filadelfo con la fondazione e costruzione del Museum di Alessandria, cioè della biblioteca reale: siamo nel III secolo a.C. Il Museum non è una biblioteca in senso stretto, almeno non nel significato che diamo a questo termine, ma è stato un centro culturale, tra l’altro uno dei più importanti di epoca ellenistica, distrutto definitivamente nella tarda antichità: probabilmente il Museum è stato distrutto e ricostruito più volte come alcune notizie sembrano suggerirci. In ogni caso, il luogo – di cui rimane solo una piccola stanza con degli scaffali – è legato all’attività del tempio del dio Serapide di Alessandria, del quale poteva trovarsi un affresco su una delle pareti dell’edificio.

Uno degli scopi principali della biblioteca è appunto, l’accumulo dei volumen, cioè dei rotoli di papiro su cui erano stati manoscritti i libri che confluivano ad Alessandria – alcuni di questi manoscritti venivano per un breve periodo requisiti dalle autorità per venire copiati – e tale attività era presieduta da un prostates, cioè da un sovraintendente direttamente nominato dal re: il primo bibliotecario di Alessandria a riguardo, fu Zenodoto di Efeso, che era anche un filologo. Esistono varie stime sulla quantità di rotoli che il Museum di Alessandria riuscì a raccogliere, pur non indicando un numero preciso basti dire che la mole è veramente considerevole per l’epoca. Ora, non si hanno notizie precise su come sia nata l’idea di costruire una biblioteca ad Alessandria, quel che è certo fu un’iniziativa interamente ascrivibile alla dinastia dei Tolomei, che vi dedicò impegno ed interesse. Il nucleo originario dell’idea probabilmente risale alla costituzione dei regni ellenistici all’epoca dello stessa Alessandro Magno. Tolomeo I Sotere, diadoco di Egitto, fa edificare un tempio dedicato alle Muse, da qui il nome di Museum, a cui collega un edificio annesso (la futura biblioteca) la cui attività è anzitutto di raccogliere manoscritti, per poi divenire un’attività di ricerca culturale vera e propria: in ogni caso, ciò accade con il primo direttore della biblioteca. Sempre sotto Tolomeo I inizia la catalogazione delle opere della biblioteca, compito svolto da un altro direttore della biblioteca, Callimaco di Cirene, autore di un’opera ispirata probabilmente al registro della biblioteca. È sotto il regno di Tolomeo III che l’attività di ricerca della biblioteca risulta più evidente; all’epoca infatti, ad Alessandria esistevano due biblioteche, la prima, la più grande e all’interno del palazzo reale, aveva la funzione di luogo di consultazione degli studiosi del Museum, mentre la seconda era più piccola e sorgeva all’esterno del palazzo, in concomitanza del tempio di Serapide, da qui appunto, il nome di Serapideo di Alessandria. Anche in questo caso, l’attività della biblioteca è correlata all’impulso dato dai vari direttori che ne presiedono la gestione, per cui a metà del III secolo a.C. l’interesse della biblioteca si rivolge sempre più verso l’ambito scientifico sotto la direzione del geografo Eratostene, mentre gli interessi di linguistica e filologia si collocano sotto le direzioni di Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia.

La fine della dinastia dei Tolomei d’Egitto ha determinato la fine della stessa biblioteca di Alessandria. Varie testimonianze letterarie suggeriscono che a fatica l’istituto sopravvisse qualche secolo dopo la fine dei Tolomei, ma è evidente che la biblioteca non aveva più lo splendore degli anni precedenti. Quel che è certo è che la biblioteca venne distrutta più volte e l’ultimo intervento significativo per il ripristino della grandezza della biblioteca si colloca sotto l’impero romano con un ampliamento dei locali dell’edificio per ordine di Claudio e sotto la sovraintendenza di Strabone. Le guerre intestine dentro l’impero romano e l’occupazione araba dell’Egitto devastarono e distrussero la biblioteca, la quale cesso di esistere nel VII secolo d.C. con gli arabi.

La distruzione della biblioteca non ha però, sancito la morte dell’idea fondante che l’ha caratterizzata, un esempio è la ricostruzione recente del contemporaneo Museum di Alessandria, una struttura che si ispira al mito della biblioteca trasmesso dalla letteratura antica, anche se de facto svolge una funzione molto diversa da quella che probabilmente svolgeva il Museum all’epoca dei Tolomei.

 La biblioteca raccontata da Eco nel suo romanzo non è la stessa biblioteca di Alessandria, anche se il topos ideale che anima l’immagine del romanziere italiano ha molta affinità con l’antica struttura. L’istituto di Eco è sia un luogo fisico, seppur inventato ed in parte idealizzato, sia una vera e propria metafora. Con essa viene proposta una rappresentazione del Basso Medioevo, in particolare la rappresentazione dei mutamenti che proprio il sistema culturale dell’epoca, cioè quello costituito dal monachesimo europeo, sta subendo, a causa del disgregamento della società medievale, ma anche a causa delle nuove esigenze culturali. Nel romanzo vengono ricordate le costruzioni di biblioteche urbane, cioè cittadine, erette tramite il finanziamento dei comuni o di qualche privato, sovente mercanti che trovano in questo investimento culturale un mezzo di affermazione sociale e politica. Questo evento, che diventerà ancor più evidente durante i secoli della civiltà umanistico-rinascimentale con la costruzione di biblioteche private, introduce nel paesaggio europeo un nuovo soggetto che entra in competizione con le strutture precedenti, sovente risultando vincente: per la propria attività i mercanti avevano maggiore disponibilità per l’acquisto di manoscritti, ma anche più occasioni di reperire testi poco diffusi ed importarli; l’esito di questa condotta arricchisce le collezioni private, ma crea le condizioni per una domanda culturale disattesa dal vecchio sistema culturale costruito dal monachesimo e le biblioteche dei monasteri sono tra le prime istituzioni ad avvertire chiaramente i segni del nuovo corso della storia, una direzione da cui non si può deviare.

«siamo nani (…) che stanno sulle spalle di quei giganti [sc.: la saggezza degli antichi] e nella nostra pochezza riusciamo talora a vedere più lontano di loro sull’orizzonte» (p.94).

 

Eppure in altre epoche la costruzione delle biblioteche dei monasteri ha proceduto non solo con la affermazione del monachesimo come strumento indispensabile dell’unificazione religiosa dell’Europa, ma anche della più generale diffusione del Cristianesimo e dei suoi modelli di fede. In questi processi la biblioteca ha svolto un ruolo fondamentale, ha dato cioè al monachesimo europeo un legame con il mondo profano, ma anche il motivo per cui la realtà terrena doveva essere rivalutata ed elevata a gloria eterna di Dio. La fuga dalle vicende terrene che ha giustificato e legittimato la scelta monastica non poteva essere a lungo andare il solo motivo per cui accettare l’esistenza spirituale e sociale del monaco, la costruzione delle biblioteche religiose fornirono a tutta la popolazione dei monaci europei la loro ragion d’essere, il motivo per cui un monaco non solo esiste, ma il suo ruolo è funzionale e decisivo per l’intera società. Il monaco è colui che produce contenuti culturali,è colui che vigila sulla bontà delle conoscenze, le custodisce e le diffonde, ma prima di essere questo e prima di essere una figura sociale di grande prestigio il monaco deve volgere il proprio destino in direzione dell’attività culturale, seppur un’attività essenzialmente contemplativa e specialistica.

La costruzione di biblioteche religiose diventa allora, lo strumento potentissimo dell’affermazione sociale e politica del monachesimo, descrivendo un modello di vita che entrerà nell’immaginario europeo e vi rimarrà per molti secoli, anche dopo la fine del Medioevo: prendere i voti monastici diventerà una scelta di carriera prestigiosa e privilegiata, soprattutto se la militanza è tra gli ordini più importanti. Ma ciò è creato e viene raggiunto attraverso la conservazione dei libri, religiosi in primis e poi quelli pagani, e quindi tramite le biblioteche appunto.

Prima si è detto della biblioteca della città egizia di Alessandria e questa rappresenta il primo modello di biblioteca di cui si ha solide notizie, tanto che essa è entrata a far parte dell’immaginario collettivo anche ai nostri giorni, ma la biblioteca religiosa che è al centro del romanzo di Eco non è un modello derivato, neanche indirettamente, dall’antica istituzione egizia. Il modello di biblioteca a cui fa riferimento il romanziere è quello elaborato durante l’Alto Medioevo dalla comunità cristiana. Anzitutto, queste biblioteche vengono costruite con uno scopo preciso, quello di conservare i testi sacri e non di accumulare gli oggetti dello scibile umano, che sono appunto i libri. L’affermazione del Cristianesimo quindi, costituisce il motivo determinante per la costruzione di biblioteche religiose. A ciò si accompagnano anche alcune convergenze storico-politiche che hanno permesso la diffusione di queste istituzioni. L’editto dell’imperatore Teodosio II favorì e non poco la costruzione di biblioteche religiose, infatti il documento imperiale prevedeva la chiusura dei templi pagani e con essa la distruzione delle biblioteche pagane. L’editto colpiva l’edilizia e la cultura pagana, ma non quella cristiana, per cui è evidente che nel costruire le chiese cristiane o qualsiasi altro edificio religioso le biblioteche non potevano essere corpi disgiunti dalla costruzione e vennero costruite all’interno del manufatto. Questa prima e significativa differenza dagli edifici pagani, permise la costituzione di locali interni alle chiese adibiti solo alla conservazione dei testi sacri e di quelli religiosi necessari all’ufficio religioso. Tale schema caratterizza la costruzione di tutte le biblioteche di quest’epoca, sia ad Oriente che ad Occidente. In particolare, è proprio ad Oriente che inizia l’elaborazione del modello di biblioteca a cui in seguito il monachesimo europeo ricorre per le proprie costruzioni. Il modello più importante è la biblioteca della città di Gerusalemme, creata presso la Chiesa del Santo Sepolcro da un presbitero e studioso libanese di nome Panfilo, il quale organizzò questo luogo non solo come semplice luogo di conservazione, ma anche come luogo di studio dei manoscritti tramite la costituzione di uno scriptorium, cioè di una sala adibita alla copiatura dei manoscritti che fungeva pure da luogo di confronto culturale (III secolo): è l’idea alessandrina di centro culturale ampiamente rielaborata e riproposta entro un sistema di interessi molto differente da quello tenuto dal Museum. L’attività di Panfilo, ricordata da molti commentatori di epoca antica, rappresenta un argine rilevante alla distruzione delle molte collezioni di libri presenti nelle regioni orientali dell’impero romano operata dagli arabi: il califfo Omar ibn al-Khattab (m.644) impose il criterio della compatibilità con il messaggio coranico; in base a tale principio se i manoscritti delle collezioni scoperte riportavano verità condivise o condivisibili con quelle di fede potevano essere conservati, altrimenti dovevano essere abbandonati o addirittura distrutti.

Diversa invece la situazione nell’Occidente latino, che vantava poche collezioni di libri. La più importante è quella della città di Roma, ma questa collezione era in realtà l’archivio della Chiesa Cattolica, la cui costituzione tra l’altro risale solo intorno al IV secolo e non vantava una grande varietà, visto che venivano raccolti manoscritti di materia teologica. Altro tenore è la collezione libresca di Spagna, composta dal vescovo Isidoro di Siviglia nel VII secolo, ma esclusa alla consultazione: sembra che venisse non raccomandata la consultazione da parte degli stessi monaci, ritenuti dal vescovo inadatti alla consultazione, probabilmente per la natura degli argomenti non propriamente religiosi. In ogni caso, la presenza di queste collezioni, pur essendo un elemento importante per la costituzione di una biblioteca, non hanno determinato la creazione automatica di queste istituzioni. La correlazione tra collezione di libri e l’istituzione di una biblioteca inizia a definirsi con la trasformazione delle funzioni del monaco o dei gruppi cenobitici che venivano a comporsi. È un abate egiziano, ex militare convertito, di nome Pacomio ad introdurre nella propria comunità cenobitica la pratica della consultazione dei testi, pratica che prevedeva l’obbligo ai novizi di saper leggere. Quest’obbligo – quasi una regola – determinerà la creazione di un locale specifico dentro il monastero in cui venivano depositati libri e manoscritti vari e dove si esercitava la lettura. Tale modello verrà replicato in tutto l’Oriente bizantino ed i nuovi monasteri edificati prevedono lo spazio di una biblioteca.

Il modello di Pacomio trova in Occidente la sua formulazione nell’ordine di San Benedetto da Norcia, il quale recupera le regole cenobitiche del modello orientale, compreso l’obbligatorietà della lettura, ma ad esse aggiunge una variazione che sarà decisiva per il successo della formula benedettina. La lettura dei libri non è un’attività occasionale o contingente, ma diventa un’attività prevista ed imposta dagli obblighi di voto. Infatti, alcune ore della giornata di un monaco sono espressamente dedicate alla consultazione e alla lettura di testi, in genere dalla quarta alla sesta ora (orientativamente dalle 9 del mattino, subito dopo la colazione, fino a poco prima del pranzo, cioè a mezzogiorno circa, detta appunto sesta). A ciò si aggiunge un altro obbligo, quello di leggere un libro imposto e concesso dalla biblioteca del monastero e che impegna il monaco nel periodo compreso tra la Quaresima (febbraio-marzo) ed il mese di ottobre. Il periodo successivo a questo intervallo di sei mesi, cioè da ottobre fino alla Quaresima successiva, la scelta del libro da leggere era libera e non vincolata. L’aspetto più interessante di questo modello riguarda la produzione dei contenuti, cioè dei manoscritti che compongono la biblioteca del monastero. Infatti, non disponendo di risorse legate all’acquisto di libri, la regola benedettina prevede l’attività intellettuale e manuale della copiatura dei manoscritti, ottenuti in prestito da altre comunità monastiche o da privati come donazioni. La copiatura dei manoscritti richiede una specializzazione che con il tempo venne assegnata ad una categoria di monaci scribi, noti come amanuensi, che si occupavano di tutte le fasi di progettazione e composizione del codice manoscritto. A riguardo, rilevante è un’opera scritta da un altro monaco convertito, Cassiodoro, che scrisse un manuale intitolato Istituzioni che forniva le tecniche e gli accorgimenti di progettazione e compilazione di un manoscritto. L’approccio di Cassiodoro è derivato in buona sostanza dalla pratica burocratica dell’amministrazione romana, per cui nei monasteri da lui fondati la copiatura pur rivolta in prevalenza alle opere teologiche non prevedeva alcun pregiudizio verso manoscritti che non fossero di argomento religioso. In seguito sorgeranno monasteri che presenteranno questa impostazione. Il più importante è il monastero a Bobbio, vicino a Pavia, fondato da Colombano che raccolse attorno a sé il consenso di molti letterati (es. Petrarca) e soprattutto donazioni ed investimenti: nonostante la forte presenza di laici la biblioteca rimane a carattere religioso. Tutti gli altri edifici religiosi a partire dal VII secolo in Europa sorgeranno riproponendo questi modelli e soprattutto raccoglieranno donazioni ricorrendo all’istituzione di biblioteche. In questo scenario, la diffusa costruzione di biblioteche diventa l’elemento fondamentale con il quale molto del patrimonio libresco antico riesce a sopravvivere alla distruzione del tempo e dell’uomo.

«monasterium sine libris est sicut civica sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine suppellectili, mensa sine cibus, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor sine follis» (p.44).

È evidente a questo punto che la biblioteca di Eco non è altro che una replica di questa storia lunga e gloriosa dell’istituzione, tuttavia come si è già detto il ricorso a questa replica assume tutt’altro significato. Nel romanzo non c’è un vero e proprio intento celebrativo, anche se indirettamente lo si può ritrovare, ma mira a descrivere una crisi generalizzata propria del Basso Medioevo, crisi che si palesa in uno dei prodotti più fulgidi della civiltà europea durante il Medioevo, appunto la biblioteca. La biblioteca di Eco possiede tutti gli attributi positivi che vengono riconosciuti all’istituzione durante quest’epoca, ma per come l’autore descrive questo luogo ci si rende quasi subito conto che l’immagine che si offre ne è il suo rovesciamento. Quel luogo in cui depositare la verità e le più ampie certezze dello scibile umano diventa il luogo in cui non solo si è insinuato il male ed il peccato, ma anche il luogo in cui quella verità che guida il mondo e la condotta morale dell’essere umano non esiste più, è solo apparenza. La connotazione labirintica infatti, evidenzia il connotato negativo, quello di un luogo in cui non è possibile orientarsi e dove la perdita è mortale, in quanto non c’è modo di trovare elementi che aiutino il malcapitato ad attraversare i suoi cunicoli: Dante Alighieri parlava di selva oscura nella sua Commedia ed Eco, a suo modo, parlando di una biblioteca labirintica descriva lo stesso tipo di selva, luogo oscuro, peccaminoso e mortale.

«la biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha ricevuto il segreto […] Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove riporli, egli solo è responsabile della loro conservazione» (p.45).

Il vecchio ideale monastico incarnato dall’immagine della biblioteca che più volte il romanzo ci ricorda viene costantemente disgregato e rovesciato e siffatto luogo finisce per essere solo lo spazio in cui risiedono i peggiori incubi, le paure mai completamente estinte, le ansie soffocanti mai sopite scaturite dalle domande più tormentanti. E con lo sgretolarsi di quest’immagine, decade anche un’intera civiltà, quella medievale e quella del monachesimo europeo. Si direbbe quasi una metafora accidentale con cui il romanziere finisce per dare vita agli ultimi scorci del millennio medievale: la fine di un’era nel vero senso della parola, anche se non proprio l’apocalisse di cui vaneggiava il personaggio di Ubertino da Casale. In fondo, la convinzione che anima il progetto mortale del Venerabile Jorge è la stessa convinzione che anima e che distruggerà frate Guglielmo di Baskerville, vale a dire l’opinione che una solida conoscenza libresca e la conservazione accurata degli oggetti che compongono questa forma di conoscenza costituiscano i caratteri fondamentali di un potere saldo ed assoluto, quello della ragione e della razionalità. Quella moltitudine fatta di carta e di inchiostro che un luogo come la biblioteca custodisce e preserva è quello strumento di salvezza sia dell’anima umana che dell’intera umanità su cui la cultura medievale ha prestato fiducia, indiscutibilmente. Non balena, neanche sotto forma di dubbio, nella mente dei protagonisti del romanzo l’idea che quella roccaforte non può evitare la deriva del mondo, forse tutt’al più può fornire un flebile – ed incerto! –  appiglio all’eventuale cataclisma o evento catastrofico che potrebbe verificarsi. Jorge e Guglielmo sono i rappresentanti (non gli unici, ma due scelti a caso – di una visione contraddittoria in cui la stessa situazione è vissuta e risolta “relativisticamente” in maniera diversa, ma i presupposti del loro agire e del loro modo di pensare sono gli stessi: Jorge e Guglielmo sono due personaggi costruiti simmetricamente.  

La struttura labirintica della biblioteca è, a suo modo, la configurazione con la quale dare rappresentazione a questo relativismo, anche se siamo ancora lontani dalla consapevolezza che tale complessità congetturale non sia solo un fatto esteriore alla natura del sapere, o soltanto un effetto metodologico degli strumenti di conoscenza (cfr. Nicola Cusano). Il labirinto, immagine che Eco tratta in un suo saggio, descrive una rappresentazione contorta della realtà, disorientante e frustrante, ma nel romanzo questa complessità può ancora essere governata, perché la biblioteca contiene gli strumenti che permettono di farlo – il bibliotecario conosce la disposizione dei libri e sa orientarsi, Guglielmo riesce ad orientarsi nel labirinto delle stanze dell’edificio perché ha appreso dai libri come affrontare questa situazione – ed in quanto, pur essendo misteriosa e fatale, contiene ancora le chiavi della salvezza. Il punto è che questa certezza è un atto di fede che l’uomo medievale ha voluto compiere in favore dei libri, pensando e sperando – come in fondo farà il tradizionalismo ermeneutico contemporaneo – non solo che esiste una continuità di senso nella tradizione e nella storia, ma che esista anche una risposta univoca, certa e si spera affermativa desumibile dai libri. Il dramma nel romanzo è che Jorge scopre con suo sconcerto che può esistere un libro che smentisce la sua presupposta verità storica e sociale, mentre Guglielmo scopre a sue spese che la sua libertà razionalistica, fatta di interpretazione di segni, di abduzioni logiche e via dicendo, non sono quella garanzia sicura con cui trovare e risolvere senza ombra di dubbio le questioni che si possono presentare. In tutto questo la funzione della biblioteca è poca cosa, non è detto che la biblioteca più fornita in cui si possa andare abbia il libro o quel contenuto utile alle nostre esigenze intellettuali, magari per risolvere un quesito che ci sta a cuore. Il labirinto è l’immagine di un sapere accumulato e sedimentato, ma è anche l’immagine di un sapere complesso e vasto, ma forse del tutto inutile agli scopi per cui lo si è accumulato in un luogo come una biblioteca.

Il romanzo anticipa un tema che diventerà decisivo negli anni ’90 del secolo scorso nell’opera teorica di Umberto Eco, preannunciando quello che si rivelerà con la crisi semiologica che sconvolgerà i fondamenti dell’intero discorso scientifico contemporaneo – lo stesso Eco sarà fautore di questo cataclisma culturale! -, ma è solo a partire da questa situazione che ciò che sembrava a prima vista una semplice immagine suggestiva (perché lo è!) di una «biblioteca labirinto» è in realtà, un topos letterario che è riuscito a cogliere la natura intrinseca del sapere semiologico, a cogliere una delle modalità più tipiche di tale sapere e cioè, quello di comporre costruzioni, ma anche immagini e significati che si sedimentano e che si “significano” tramite il loro costante sovrapporsi e confondersi. Forse è questo quello che la mente allenata di Guglielmo di Baskerville ha recepito dalla terribile esperienza vissuta nell’abbazia, una situazione che quel campione di razionalità non è stato in grado di gestire e che l’ha sconvolto profondamente.   

 

Porto Empedocle, 05/10/2021

domenica 26 settembre 2021

La fotografia di Missy Suicide alla base del fenomeno SG

La produzione attuale di immagini è incentrata in buona parte su un complicato intreccio di varie attività, si va dalla produzione fotografica alla creatività pubblicitaria, fino a giungere alle scenografie cinematografiche ed ai soggetti delle serie televisive o dei format televisivi. In ogni caso, un intreccio che trova il suo fulcro nel più ampio sistema della comunicazione odierna, che non solo richiede sempre più immagini – spesso ridondanti ed usurate – che descrivano con efficacia e chiarezza gli eventi che attraversano i meccanismi di tale sistema, ma li produce anche, nel senso che induce ad un’elaborazione di specifiche immagini che circuivano adeguatamente per tutta la filiera, direttamente o indirettamente. Un intreccio inestricabile, disorientante ed auto celebrativo, ma anche inevitabile e che è strettamente correlato alla funzione delle strutture narrative (cfr. storytelling), strutture che sono diventate ormai essenziali in questo vasto mondo della comunicazione (cfr. Semiologia).

In apparenza è impensabile ammettere che possa esistere un’attività formale ed estetica odierna che sia in grado di sottrarsi a questa situazione e non è detto che debba necessariamente divincolarsi da questo stato. Anzi. La stessa attività fotografica odierna fatica ad elaborare soggetti che possano codificare messaggi al di fuori dai diffusi riferimenti categoriale del pensiero sociale attuale; tra questi riferimenti la stessa realtà o la vita senza filtri sono categorie mediatiche e non solo condizioni predefinite e preesistenti dell’atto comunicativo. Inoltre, si è imposta un’idea di fotografia che preferisce evidenziare la sua dipendenza dal realismo estetico, visto che l’unica forma di fotografia-realtà è quella dei reporter di guerra, mentre tutte le altre formule ricadano nella fotografia di costume, pubblicitaria e comunque, non documentaristica. Una concezione che deriva in parte dalla situazione odierna, in parte da alcune direzioni dell’arte contemporanea, in parte dall’esigenza di fissare un limite, forse anche un confine escludente con la realtà virtuale, che proprio tramite il digitale sembra aver debordato sulla materialità dell’esistenza: vita e virtuale si sovrappongono e l’immagine non ha più nessun elemento di materialità che ne possa decretare la sua veridicità realistica o ontologica.

L’evoluzione di una parte della produzione estetica indotta dalle piattaforme social spinge con forza sulla stessa irrilevanza materiale delle immagini, per cui le campagne di denuncia o di progresso sociale, incentrate su una o su un sistema di immagini, debbono ricorrere a codici di immagini, spesso già presenti nel piano sociale e nel pensiero sociale. Un esito di per sé non imputabile dai nuovi mezzi di diffusione virtuale, ma che di certo è ampiamente amplificato e quindi, dietro una mole immensa di produttività estetica non c’è solo una sfrenata creatività, ma anche l’esigenza di replicare e riformulare codici di informazioni necessari per la vita sociale e forse anche per la stessa vita materiale della società e delle nazioni: un riflesso condizionante e decisivo del simbolismo sulla stessa configurazione materiale della società, sui consumi, viene raccontata da Umberto Galimberti (1942) in un suo libro.  

Ciò detto, anche l’attività fotografica non è esclusa da questa situazione, anzi, per le varie attività a cui si è legata nel tempo ne è diventato lo strumento essenziale, ed in alcuni frangenti il cardine stesso come è accaduto negli anni Ottanta del secolo scorso. Oggi, le tecniche fotografiche sono sensibilmente cambiate, in alcuni casi riformulate nell’ottica delle nuove tecnologie digitali, ma costante è rimasto il connubio raggiunto tra iconografia e comunicazione, quest’ultima intesa non solo come campo di diffusione, ma anche come fonte primaria della stessa immagine fotografica. Ciò rende quasi impercettibile la commistione delle tecniche fotografiche ed in molti casi la stessa convertibilità di tali tecniche per ottenere effetti sempre più sorprendenti ed appaganti. Quest’uso combinato di tecniche è reso possibile da un lato dalla formazione dei professionisti attuali, dall’altro lato da una serie di dispositivi fotografici e da esigenze commerciali che chiedono e richiedono questo tipo di soluzioni. Un esempio è l’estensione della tecnica fotografica dello still life per i ritratti, spesso ritratti di nudo ed in bianco e nero, anche se la tecnica è stata pensata per la fotografia a colori e per la produzione pubblicitaria – si basta scorrere i profili social dei fotografi professionisti per accorgersi di questo tipo di soluzioni.

Nulla di grave ben inteso e spesso i risultati sono estremamente accattivanti, ma questa direzione della fotografia non è solo un esito dello sviluppo tecnologico dei dispositivi fotografici, dietro questo fenomeno interviene anche una evoluzione del discorso delle attività formali, discorso da cui la fotografia non è estranea e che come detto, ha contribuito a formulare.

È in questo scenario che si colloca l’opera fotografica di Missy Suicide, al secolo Selene Mooney Castellanos, che ha dato inizio ad un fenomeno sociale ed estetico di portata globale. Quello che per molti – compreso il sottoscritto all’inizio – è solo un fenomeno di costume e forse anche un fenomeno sociale, è in realtà, uno di quei prodotti della cultura pop di inizio millennio. L’aspirazione di formulare una nuova e diversa definizione di bellezza, poi fissata dalla cultura antagonista e dal mainstream mondiale nell’estetica del tatuaggio o degli inked model, deriva in primis da un’intuizione primigenia di elevare il criterio soggettivo di bellezza a valore generale, criterio fissato dal principio che la bellezza risiede negli occhi di colui che guarda e non nel soggetto che si mostra, che in seguito diventerà il canone fondamentale di un programma militante antitetico al circuito ed al sistema della moda: un carattere questo che si è caricato nei forum dedicati a questo modello di bellezza in modo ideologico e ciò ha fatto eludere che a suo modo il sistema della moda stesso proprio in quegli anni ha cercato di riformulare in chiave soggettiva i canoni sociali ed ufficiali; in pratica, tentando di dire quanto verrà affermato dalla svolta degli inked model. Comunque, il fenomeno delle Suicidegirls – nome che deriva dal titolo del sito internet omonimo da cui inizia la diffusione di questo paradigma estetico alternativo – rappresenta un fatto estetico che sconfina dall’ambito del fenomeno di costume o della nuova moda giovanile. L’ideale come detto, è più ambizioso, è la riformulazione del concetto di bellezza – come titola il volume per il quinquennale della fondazione del sito suicidegirls.com «beauty redefined» - ed uno stravolgimento dell’iconografia della moda e del sistema della comunicazione.

Ora, se il successo dell’iniziativa imprenditoriale nel campo del web ha attribuito significati differenti da quelli fissati dall’intuizione originaria e spesso, ha trasformato l’iconografia inked in una forma di contestazione, in genere di rifiuto dell’ordinario sistema estetico, per diventare esso stesso paradigma ed iconografia, le idee che hanno animato l’impegno di Missy Suicide sono poche, semplice ed in buona parte collegate ad una certa situazione della fotografia mondiale.

Il primo dato rilevante è quello che in seguito diventerà il tema di arrivo di un percorso evolutivo della stessa immagine SG, vale a dire quell’idea di definizione di un canone estetico alternativo, se non in netto rottura con i clichés imposti dal sistema della moda e dai trend commerciali. Nel suo primo volume, semplicemente intitolato Suicidegirls (2001), Missy Suicide avverte fin da subito quest’esigenza di definizione di un nuovo canone estetico, vissuto dalla fotografa anzitutto come uno spazio sociale, come dimensione di un incontrarsi e solo in seguito come un’esigenza estetica. Infatti, fin da subito la via intrapresa è quella delle nuove tecnologie internet, cioè l’utilizzo di spazi virtuali come a.e., la rudimentale ed originaria bacheca dove gli iscritti del sito venivano in contatto tra loro, creando una primitiva comunità di persone accomunati da particolari sensibilità, o semplicemente da gusti estetici diretta espressione del proprio mainstream di riferimento. Il tema della libertà di ogni individuo e soprattutto quello della riconoscibilità delle differenze che caratterizzano tali identità sono le premesse fondamentali per una riflessione estetica alternativa, più “sentita” che non teorizzata – quest’ultimo aspetto verrà in seguito. Infatti, è l’ambiente giovanile della fotografa statunitense a dettare i termini di questa riflessione, ammesso che all’epoca ci fosse una solida consapevolezza di ciò.

Missy Suicide è stata una fotografa amatoriale, oggi produttrice ed imprenditrice, che ha vissuto gran parte della propria giovinezza nello stato dell’Oregon, precisamente nella città di Portland. La sua formazione fotografica è essenzialmente autodidattica, composta durante gli anni del college, e spesso associata ai modelli della fotografia delle riviste patinate che colleziona e dei molti magazine per adulti come Playboy e Penthouse, da cui trae il suo ideale iconografico di riferimento, la Pin-Up (Betty Page). L’ambiente sociale (giovanile), culturale e la situazione economica della città di Portland tra gli anni Novanta ed i primi anni Duemila descrive l’attecchire di una cultura pop orientata chiaramente al multiculturalismo. Una vitalità ampiamente avvertita dai giovani e che lascia traccia di sé nelle opinioni della fotografa, nelle scelte anticonvenzionali e non stereotipate che iniziano a realizzare fin dalla giovinezza e soprattutto per quel gusto sulle formule inconsuete e bizzarre che la orientano verso la cultura post-punk e all’internazionalismo etnico della neocultura hippy.

Questi scorci biografici, accennati nell’introduzione del volume fotografico menzionato, indicano con una certa evidenza un’attitudine amatoriale che ricorda certe idee di un’altra fotografa statunitense Diane Arbus (1923-1971), con la quale condivide l’assenza di alcuna pregiudizialità estetica verso i soggetti e di una sorta di anarchia di metodo degli strumenti usati per realizzare le proprie fotografie, ma anche delle scelte su ambientazioni e su situazioni. Dal punto di vista estetico l’attività amatoriale o il non professionismo è l’eredità più evidente della svolta documentaristica che proprio la fotografia degli anni Sessanta, ed in particolare proprio l’opera fotografica della Arbus e di altri, ha impresso nel discorso delle attività estetiche, nell’arte contemporanea di fine Novecento e in specifico nell’attività fotografica. In una certa misura, l’approccio alla fotografia e la stessa idea di fotografia espressa da Missy Suicide non sono molto lontani da questa forma di attività amatoriale che contraddistingue la fotografia a partire dalla seconda metà del secolo scorso: il professionismo della fotografia si confina infatti, nello spazio delle immagini glamour e dei messaggi commerciali, mentre ai fotografi amatoriali compete, per così dire, la ricerca estetica tout-court, l’innovazione, l’inusuale.

È in questi termini che Missy Suicide si approccia all’attività fotografica, evitando cioè di seguire modelli prestabiliti o preconfezionati, ma così facendo orienta il suo apprendistato fotografico verso il libero sfogo della propria curiosità e considera l’attività fotografica più che una ricerca estetica come il “documento” di ciò che in qualche modo si mostra come una stravaganza interessante, meritevole di attenzione. Siamo lontani dall’idea oggi molto in voga di una fotografia dettata da ragioni di composizione estetica, incentrata su una progettualità in cui ogni componente della fotografia è strutturato in un equilibrio formale appagante; qui, ciò che guida la fotografia sono solo le sensazioni, disordinate forse ed indeterminate che coinvolgono la fotografa durante i set fotografici. Non c’è progettazione, non c’è composizione formale, non c’è alcuna preventiva valutazione di come potrebbe apparire la stessa fotografia. Tutto è lasciato alla casualità dell’impressione o della impressionabilità. Ecco allora, delinearsi un’altra caratteristica della fotografia di Missy Suicide.

Il multiforme interesse della fotografa verso tutte quelle forme bizzarre o comunque, verso quelle forme inconsuete, trasgressive e rigettate dall’iconografia ufficiale è motivato non solo da un istinto proprio, ma anche da una precisa scelta iconografica compiuta sulle illustrazioni di Alberto Vargas (1896-1982) – tra l’altro citato dalla stessa fotografa. La fotografia non può essere il mezzo di una codificazione prestabilita, che si limita alla sua diffusione, ma diventa l’atto con cui dare espressioni a combinazioni imprevedibili, almeno nelle intenzioni della fotografa: la fotografia come “improvvisazione”, ma non nell’uso della tecnica. Se l’arte di metà Novecento si è interrogata sulle varie contaminazioni tra le forme, contaminazione necessaria visto che la crisi della figurazione tradizionale, in quanto l’accostamento bizzarro, spesso scandaloso – come ha mostrato il movimento Dada – ha in sé la condizione per il superamento delle aporie estetiche, la fotografia, pur seguendo un percorso affine, ma in fondo, autonomo rispetto all’evoluzione dei temi dell’arte, si è concentrata unicamente nella definizione di alcuni pochi modelli di riferimento ed al perfezionamento di quelle tecniche fotografiche che permettessero la loro realizzazione al meglio. L’incontro tra arte tradizionale e fotografia è vissuto da entrambe le attività come fortuito ed occasionale, anche se la direzione semiologica della pittura europea e mondiale fornirà ad entrambe uno spazio comune di intervento, cioè le figure di un immaginario diffuso e condiviso plasticamente rappresentato da pubblicità e comunicazione. Questa dimensione virtuale tiene insieme sia l’iconografia erotica di Vargas, sia il piano astratto dell’immaginario tout-court, abolendo in fondo, le distinzioni categoriali e costruendo le nuove forme nell’ottica di una continuità formale, quella stessa che ha portato la Pop Art al tema del recupero e del riciclo di materiali inconsueti o addirittura scartati dal mercato dei consumi. È in questa particolare situazione dell’arte novecentesca che si colloca l’idea di fotografia che nel tempo la fotografa di Portland preciserà.

La libertà e soprattutto la convinzione della fotografa di Portland che la bellezza sia una qualità che non riguardi le categorie estetiche codificate dalla società e tuttavia, il gusto che sottende a tale giudizio è in buona parte influenzato dalle convinzioni morali sulla bellezza e sulle opportunità stabilite dal sistema sociale. In tal senso, l’attività fotografica può limitarsi a descrivere questa situazione, ma entro certi limiti anche ad intervenire. L’intuizione fondamentale è quella di sottrarre allo sguardo del fotografo il monopolio del giudizio estetico e ciò viene realizzato tramite gli scatti personali realizzate dalle stesse modelle riportati a corredo del primo volume – siamo ancora in epoca pre-selfies! Ovviamente, è una scelta che segue ancora l’idea di fotografia amatoriale che caratterizza il libro menzionato della fotografa, ma introduce un concetto nuovo di voyeurismo creando una possibilità espressiva che solo nell’epoca attuale dei selfies si può intendere. Anche se sul piano espressivo non si può evitare che una logica di consumo possa influire nella stessa rappresentazione fotografica, il fatto che ora la macchina fotografica passi di mano dal fotografo al modello o al soggetto fotografato crea una situazione di “intimità” inedita, ma anche un edonismo che non cerca la trasgressione ad ogni costo, ma eleva a trasgressione la natura stessa del corpo esibito, della nudità offerta senza altri costrutti e orpelli. La bellezza naturale, seppur alterata dalla presenza delle forme tatuate, impone un clichés che costringe l’osservatore a soffermarsi oltre la immagine stessa, che è in fondo, lo scopo ricercato dalla fotografa. In ogni caso, la nuova direzione offre una immagine che non corrisponde perfettamente alle esigenze dei vari processi della comunicazione, vale a dire all’esigenza di codificare categorie già note e diffuse; non ha l’esigenza di rendersi appetibile ad ogni costo e quindi, non asseconda scopi commerciali; non ha l’esigenza di imporre modelli di riferimento.

Assecondare questa direzione significa dunque, eliminare la presenza del fotografo dal campo della immagine. In tal senso, si ritrova la lezione del fotografo francese Jeanloup Sieff (1933-2000) e precisamente nell’idea di una fotografia che cerca di non violare l’intimità della nudità femminile, tanto che le fotografie sono realizzate in ambienti casalinghi, per lo più salottieri, e con pose in cui la modella è ritratta per lo più di spalle o senza indugiare troppo sulla fisionomia del volto: corpi anonimi certo, ma corpi in libertà, corpi che esprimono sensazioni e sentimenti comuni ad ogni donna o essere femminile. Nell’intuizione di libertà assoluta di Missy Suicide si può ritrovare, facendo le debite differenze, questa lezione, soprattutto nella definizione di uno sguardo voyeur non più di matrice maschile, ritenuto invadente e stereotipato. Il voyeurismo erotico che Missy Suicide viene a codificare non deve intendersi solo nei termini di «soft porn» come ha dichiarato la pornostar americana Angela White (1985), ma come una necessaria «offerta visiva», che non sia solo un simbolo o una superfetazione, semmai deve intendersi una dichiarazione pubblica di un genuino atteggiamento naturale del nudo. Una nudità libera e non sovraccaricata dal peso della composizione formale o dalle esigenze di perfezione dei canoni imposti e proposti dai messaggi pubblicitari: il corpo così come si trova, con le sue imperfezioni. Il nudo in Missy Suicide è anzitutto libertà, ma soprattutto è accettazione di sé.

Questi concetti hanno bisogno di un linguaggio fotografico che riesca a rappresentarli e tale linguaggio è fatto di:

-          Una ritrattistica che riprende l’impostazione della fotografia di posa, sia nell’ambientazione minimale sia nell’uso dei fondali monocromatici. Ciò conferisce alla fotografia un carattere amatoriale e l’idea di un apprendistato non ancora pienamente compiuto. Tuttavia, è una caratteristica non voluta – tanto che verrà a perdersi nei lavori successivi della fotografa -  che però, concettualmente segna un discrimine forte con la fotografia patinata del sistema della moda a cui in parte s’ispira: sembra quasi incompatibile la polemica verso i canoni ufficiali di bellezza proposti dalla moda e mirare poi a Betty Page come icona erotica che in qualche modo ne è feticcio. Quello che in fondo, appare una sorta di contraddizione indica l’aspirazione di elevare a paradigma estetico ciò che non viene riconosciuto come tale; è, in fondo, la riformulazione di una bellezza soggettiva che è percepita sotto forma di gusto estetico e che non può rientrare tra i canoni di giudizio sociali. La moda e la stessa società aspira a riferirsi a modelli estetici assoluti, anche se poi la storicizzazione di questi modelli rivela il loro relativismo storico e generazionale. Nella fotografia di Missy Suicide prevale l’esigenza inversa di quella espressa a.e., dalla fotografia di un Jeff Dunas (1954) e cioè elevare ad immagine pubblica quella bellezza che non è intesa, né percepita come tale: le grandi top model degli anni Ottanta sono il modello di un paradigma di bellezza assoluto ed in quanto tale sono un fatto pubblico, le modelle di Missy Suicide, soprattutto se sono inked model, non descrivono questo paradigma ed in quanto tale non sono riconosciute come un fatto sociale. Almeno fino al clamoroso (e crescente) successo del sito web Suicidegirls.

-          La composizione non è la priorità espressiva delle fotografie di Missy Suicide, anzi il senso di amatoriale che caratterizza il suo primo lavoro rivela un netto rifiuto a questo criterio e la stessa idea espressa dalla fotografia sembra essere il risultato di un’improvvisazione, di quelle intuizioni che conferiscono al costrutto fotografico un mood non replicabile.

-          In tal senso, la fotografia diventa un sistema che trae il proprio codice di lettura interpretativa e di giudizio non più da canoni esterni all’immagine stessa. E quindi, il racconto di sé delle modelle, il loro umore e le loro aspirazioni, che come detto corredano ed accompagnano la fotografia di informazioni di altra natura rispetto all’immagine, intervengono sul giudizio della stessa fotografia da parte dell’osservatore. A tal riguardo, la presenza del tatuaggio non è un fatto estraneo o secondario, ma la fotografa statunitense ha agito come se il tatuaggio non esistesse, come se la fotografia fosse il prodotto di un’attività convenzionale. Ancora adesso non ho ben compreso se ciò sia segno di una “visione naturale” dei corpi tatuati, vale a dire che per il senso comune attuale è indifferente se un corpo sia o non sia tatuato, oppure se ciò sia solo di un’indifferenza non adeguatamente valutata dalla stessa fotografa. Il tatuaggio non è una forma “esclusa” dal sistema della comunicazione, è un oggetto ed una forma che porta con sé regole e significati che deriva dai sistemi culturali che lo hanno elaborato, per cui trovarlo sulla pelle di un modello non è un fatto così ovvio. Il tatuaggio, in base alla forma ed all’estensione, chiede di essere trattato dalla fotografia con una certa accortezza, in quanto può influire negativamente sull’equilibrio complessivo dell’immagine. Nel caso il tatuaggio incide sulla relazione erotica che l’immagine intrattiene con l’osservatore: tale rapporto non è più quello tradizionale della fotografia erotica, la sensualità della nudità maschile o femminile viene quasi soffocata dalla preponderanza feticistica innescata proprio dalla presenza del tatuaggio: in un certo senso, i tatuaggi, soprattutto su alcune zone erogene del corpo umano, possono avere l’effetto di amplificare il carattere feticistico, carattere che appartiene strutturalmente alla dimensione erotica, ma che in questo caso straborda a tal punto da opprimere un eventuale insorgenza di desiderio. Non so se questi effetti siano valutati dalla fotografa statunitense di certo, un osservatore per nulla abituato all’invadenza visiva del tatuaggio potrebbe rimanere sconvolto ed infastidito: certo, tra gli scopi dell’iniziativa di Missy Suicide vi è quello di costringere lo spettatore a superare il mero dato biologico e scrutare, diciamo così, nell’«anima» della modella, ma è indubbio che la fotografia di un corpo tatuato non è un’attività neutra e deve fare i conti con i problemi di composizione estetica e con i codici cromatici alternativi richiamati dal tatuaggio.

In conclusione, se il fenomeno delle SG è correlato in qualche modo con le dinamiche dell’arte del ‘900 tale fenomeno ha una sua primordiale origine su un’idea di fotografia di per sé non innovativa, in quanto recupera un modo di fare fotografia che le stesse riviste della moda degli anni Ottanta avevano abbandonato, con l’adozione negli anni Novanta di altri criteri di valutazione estetica e di composizione. Tuttavia, su una forma di linguaggio fondamentalmente obsoleta trova collocazione una precisa esigenza estetica che proprio all’inizio degli anni Duemila trova modo di imporsi, quella di diffondere stili e moduli espressivi provenienti dal mainstream e dalla cultura urbano-metropolitana. Per una qualche ragione non perfettamente storicizzata questo fenomeno che si afferma come fatto sociale nasce in realtà, come un fatto estetico e precisamente, come una diversa idea di fotografia. L’intuizione e forse anche la sensibilità della fotografa di Portland coglie effettivamente una lacuna estetica, a cui tenta di rimediare, ricorrendo in ogni caso a formulazioni già ampiamente utilizzate, ad un codice estetico riadattato alla nuova idea e ad un gusto per il bizzarro. Se per Missy Suicide la sigla SG è e rimane l’espressione di un’attitudine, di una consapevolezza più o meno determinata di sé, per il resto del mondo è un fatto sociale che conferma una direzione già presente nella creatività della moda, cioè l’idea che ogni individuo è un essere unico e per certi aspetti irripetibile e l’abbigliamento e tutto ciò che è correlato alla moda sono forme espressive di questa unicità. La moda infatti, proprio negli anni Duemila, comprende che non è più lei a dettare le norme del bel vestire o del buon gusto, ma è la personalità dell’uomo o della donna alla moda, è il loro grado di eccentricità, la loro passione e la loro voglia di dare un’immagine pubblica di sé, la loro personalità. In ciò le SG non sono un fenomeno alternativo, contrariamente a quel che pensano i cultori dell’inked, semmai è una diversa formulazione dello stesso concetto estetico già formulato dal sistema della moda, magari forse con una maggiore consapevolezza ideologica e con un’attitudine maggiore verso le contaminazioni e la non convenzionalità.

 

Porto Empedocle, 25/09/2021 (modifiche del 26/09/2021)