mercoledì 26 dicembre 2018

Aiuto, mi scivolano i quadrati!



   Uno dei concetti ammessi come presupposti filosofici nella definizione di una proposizione geometrica nel sistema di #Euclide è la definizione di "forma rigida" delle figure, cioè la convinzione che le forme, tutte le forme geometriche siano non deformabili e che i movimenti che possono realizzarsi sul piano siano o semplici rotazioni o in specifiche situazioni traslazioni con le quali verificare l'uguaglianza e l'equivalenza tra le varie figure geometriche. Un precetto che ha dominato per secoli l'analisi geometrica, almeno fino a quando un inatteso e virulento dibattito sul postulato euclideo delle rette parallele ha rimesso in discussione una secolare tradizione scientifica. Da quando il matematico tedesco #Riemann definisce nella sua tesi di abilitazione all'insegnamento i termini intuitivi di quella che sarà indicata come "geometria parabolica", l'idea euclidea dell'indeformabilità del piano e delle figure geometriche cesserà di essere una convinzione assoluta e da questo momento in poi sorge una nuova disciplina sientifica, la topologia, che ha per oggetti forme complesse e sconvolgenti se commisurate all'antico sistema geometrico: il #NastroDiMöbius, la #BottigliaDiKlein e il #Toro rivoluzioneranno l'ottocentesca rappresentazione del mondo e tutte eredi dell'introduzione riemanniana della superficie curva nella proiezione geometrica del mondo.
   Tutto ciò funge da premessa ad un cambiamento teorico che è di per sé rivoluzionario, ma di una rivoluzione seria e non ideologica come il dibattito astronomico di qualche secolo prima, perché impone e costringe il pensiero scientifico a "ripensarsi" rivedendo le proprie antiche convinzioni, abbandonandone talvolta qualcuna e soprattutto sforzandosi di formulare una teoria unitaria - come faceva un tempo la filosofia -, ma indirizzandosi totalmente verso sistemi astratti e controintuitivi. In questo scenario il rinnovato interesse verso le antiche arti liberali e scientifiche è più che altro il segno di una reazione, la paura intellettuale di incamminarsi verso direzioni eccessivamente incomprensibili e troppo aliene dalla vita sensibile e materiale dell'uomo. Così deve intendersi il recupero in senso ricreativo di antichi problemi matematici che alcuni inventori di enigmi e giochi presentano in veste di rompicapi  e di curiosi puzzle alla opinione pubblica ed ad un pubblico più vasto che non quello specialistico degli accademici e degli addetti del settore scientifico. Un esempio è il problema intitolato "Come salvare capra e cavoli" riportato nello storico testo del russo #BorisAKordemsky, Gli enigmi di Mosca (1954), e che è una riproposizione di un antico enigma inventato da #AlcuinoDiYork (730-804), presente nei suoi Propositiones ad acuendos juvenes (tr.: "Problemi per acuire l'ingegno dei giovani") che interroga il lettore/allievo su come un contadino riesca a traghettare la sponda di un fiume evitando che il lupo che trasporta con sé divori la capra, anch'essa compagna di viaggio.
   Nella matematica ricreativa confluiscono molti di questi temi, assumendo una veste meno impegnativa e meno didattica che un qualsiasi manuale scolastico fornisce e tuttavia, oltre ad assumere questa funzione di recupero e diffusione di queste problematiche, diventa essa stessa l'ambito dove trovano posto nuove invenzioni concettuali o bizzarre e sconvolgenti situazioni parossistiche, spesso non facilmente accettabili dalla comprensione comune, come può essere l'invenzione dei #flexagoni o la formulazione dei #frattali. In questo senso deve intendersi il #GiocoDiEscott, noto in ambito anglosassone con il nome di il "Consiglio di Escott", pubblicato nel 1938, che deriva dalla formulazione di un problema geometrico presentato da un anonimo matematico statunitense e che ha trovato soluzione ricorrendo appunto alla matematica ricreativa. L'originario problema di matematica viene riconvertito in un vero e proprio gioco (del resto ne presenta anche le caratteristiche) e la soluzione a cui si giunge risponde in pieno all'interrogativo proposto dal matematico. Per quanto ci riguarda l'interrogarsi sulle figure scorrevoli, che è in fondo il nucleo tematico del problema escottiano, è attualmente possibile perché è da tempo che la cultura scientifica attuale ha abbandonato la convinzione dell'assolutezza del sistema geometrico euclideo, tant'è che la geometria euclidea viene fatta rientrare in un sistema globale di geometrie accanto alla geometria parabolica ed iperbolica, tuttavia è indubbio che problemi come quello proposto da Escott siano in fondo un'elaborazione di problemi che sono e diventano significativi solo dopo la revisione del sistema euclideo, attuata - come ènoto - dal discorso scientifico contemporaneo, dominato dal tema della complessità statistica, della relatività epistemica e dal materialismo particellare.


lunedì 26 novembre 2018

Il tangram contro lo scandalo geometrico del V postulato di Euclide

Immagine tratta dal web dell'Ostamachion, il più antico puzzle di cui si ha notizia


   Studiando le azioni di gioco e le strutture normative che regolano l'andamento di una partita si rivela l'esistenza di alcune strutture matematiche, alcune molto semplici, altre un poco più complesse; in ogni caso, tutte sono riflessi più o meno elaborati di ritrovati scientifici e teorici.
   Così è anche per un antico gioco cinese che ricorre alla dissezione di un quadrato in forme più piccole e al mescolamento di quest'ultime in figure di vario profilo. Il gioco noto in Europa con il nome di tangram si diffonde nel nostro continente intorno alla seconda metà dell'Ottocento ed è un rompicapo molto simile ad un altro antico puzzle, stavolta di origine europea, greca in particolare, che è l'Ostamachion, ricorre appunto al mescolamento di piccoli pezzi in modo da ottenere figure sempre diverse da quella di partenza, in genere un quadrato, anche se in Cina esiste un altro formato che sviluppa la variabilità dei pezzi di un ovale.
   La caratteristica più interessante della vicenda relativa a questo antico gioco è proprio l'epoca della sua diffusione. La composizione delle varie figure si basa sulla stessa idea euclidea di equiestensione delle superfici, cioè pur producendo forme diverse la somma di tutti i pezzi è uguale all'intera estensione del quadrato dissezionato di partenza. Un'idea di equivalenza antica che si basa su una definizione del piano geometrico in cui gli elementi ivi immersi sono misurabili ricorrendo semplicemente ad un righello e ad un compasso: in fondo, le figure componibili nel tangram rispondono a questa caratteristica. Tuttavia, all'epoca in cui questo gioco viene riscoperto in Europa la situazione intellettuale e teorica è totalmente antitetica alla prospettiva euclidea della geometria, iniziavano ad affermarsi nel dibattito teorico le così dette "geometrie non euclidee", le quali strutturano e definiscono il piano geometrico con esiti assolutamente incompatibili al sistema euclideo.
   In tal senso, il successo europeo del tangram e della logica di gioco che rappresenta è in fondo la reazione di contrappasso della cultura europea al tentativo vincente dell'epistemologia scientifica di mutare il paradigma geometrico rappresentato dalla geometria di Euclide, assunta da diversi secoli come modello assoluto del sapere scientifico. Dopo la seconda metà del XIX secolo così non sarà più.


venerdì 16 novembre 2018

Distrattamente ragionando su...Alcuni evergreen della Sinistra italiana

Distrattamente ragionando su...
   Questo è il primo video di un'ipotetica ed ancora da sviluppare in realtà, rubrica dove appago la mia coscienza civica frustrata, assecondando una vecchia passione giovanile come è stato l'interesse verso la dialettica politica. Il video è uno spunto di riflessione o di commento tratto da interventi pubblici, discorsi o dichiarazioni da nuovi, vecchi o addirittura "antichi" leader politici. E' un modo del tutto personalissimo per interagire con un sistema di opinioni o di idee senza costringermi ad un'attivismo in senso stretto. Insomma, una specie di "salotto" politico che forse fa il verso ad iniziative simili ben più titolate, ma che ha la sola utilità di dare contezza della mia opinione e valutazione su singole tesi politiche o su un qualsivoglia concetto o tema affine.

Alcuni evergreen della sinistra italiana
   Lo spunto e l'oggetto di riflessione e meditazione, un pò da "scuola politica", sono alcuni minuti di un discorso tenuto dal segretario del Partito Comunista Palmiro Togliatti nel 1960 durante la prima edizione e puntata della Tribuna politica, un programma giornalistico ideato dalla RAI dove si concedeva ai politici italiani uno spazio di propaganda e di presentazione e confronto dei temi politici sia della campagna elettorale sia più in generale della politica: lascio il link da dove è tratto.
   Il discorso viene tenuto dal leader comunista in occasione delle politiche del novembre del 1960 e per quanto mi riguarda è un buon esempio dei "ritornelli" tipici dell'oratoria della sinistra italiana; in questi minuti di conferenza il segretario del Partito Comunista introduce alcuni dei temi tipici della strategia della sinistra in Italia, temi che nel corso delle vicende politiche ed intellettuali di questo Paese torneranno con una certa frequenza e costantemente non abbandonando l'immaginario politico degli elettori di sinistra. I temi qui individuati sono:
1. anzitutto, l'importanza della partecipazione del Partito Comunista al sistema comunicativo collettivo: è un fatto per nulla irrilevante, perché segna la legittimità politica o la "cittadinanza civica e politica" del proprio partito dentro l'apparato repubblicano. Se pensiamo al clima di sospetto che grava sul P.C. nel dopoguerra, è ovviamente un fatto di grande importanza;
2. l'inscrizione del Partito Comunista dentro l'asse parlamentare della Repubblica Italiana: la riconversione dell'azione rivoluzionaria in opposizione politica-riformistica, che configura di fatto la "via social-democratica" del P.C., è un aspetto molto caro alla dirigenza politica dell'epoca, perché mira ad attestare una patente istituzionale all'azione del partito e soprattutto mira ad allontanare dalle proprie intenzioni ogni sospetto di colpi di stato;
3. la vocazione e rappresentanza dell'opposizione in Italia espressa dal P.C.: questo è uno dei ritornelli più ricorrenti nella dialettica della sinistra italiana, un pò perché i risultati elettorali ne danno contezza, un pò perché sembra definire una natura insita nell'elettore di sinistra;
4. la difesa delle istituzioni democratico-repubblicane e con esse la tradizione resistenziale da cui derivano: questo è un altro tema costante nel paesaggio culturale e dottrinario della sinistra italiana e che determinerà anche uno dei motivi più qualificanti ed identitari dell'essere di sinistra, addirittura più dell'approccio internazionalistico, distinto dall'attitudine globalista. La Carta Costituzionale diventa il prodotto più chiaro dell'autenticità dell'azione politica del P.C., sia perché vi è la partecipazione del partito alla sua scrittura, sia perché il dettato costituzionale sembra risolvere la stessa Repubblica Italiana con una coloritura "socialistica" che il P.C. ha contribuito a conferire;
5. il tema del lavoro e la stretta correlazione ottocentesca del lavoro con la dignità individuale del cittadino: questo è uno dei mantra assoluti nella definizione di un programma politico, di cui però non si avvede l'assoluta retriva natura conservatrice, perché è in virtù di quest'assioma che la politica economica della sinistra italiana si orienterà sempre e comunque in direzione di un dirigismo economico e statalista, con l'intervento pubblico dello Stato nelle varie dinamiche economiche della nazione. Qualcosa che non ha a che fare con la così detta "economia mista". Considerazione sulla scelta del modello economico di Keneys.
6. la definizione del Partito della Democrazia Cristiana come partito di regime ed autoritario: la vicenda relativa al processo di Milano degli anni Novanta, noto come "Mani pulite", è in una certa misura la prova processuale della validità del modello togliattiano di costruire il proprio nemico esterno ed il proprio avversario, tuttavia se qui le critiche togliattiane hanno una funzione dialettica, la vicenda processuale di Mani pulite fisserà indelebilmente quest'immagine e definirà il suindicato regime di corruttele e di malaffare incarnato dal partito della Democrazia Cristiana, anche se poi le condanne effettive saranno poche e non relative ad esponenti di alto profilo;
7. infine, la titolarità dell'esistenza del P.C. nell'ambito delle strutture della Repubblica Italiana in quanto il partito è la "via" più giusta ed autentica dentro ed in direzione di una socialdemocrazia: qui, viene suggerita una posizione che diventerà strategia politica vera e propria con la segreteria di Enrico Berlinguer, il che mi sembra evidente.
   Ora, alcuni di questi temi sono caduti in disuso, come a.e. l'uscita dalla clandestinità, tanto che Togliatti sottolinea con enorme soddisfazione la sua partecipazione ad un programma radiotelevisivo, da cui il P.C. era escluso da cinque anni: la RAI inizierà la proprie trasmissioni solo nel 1955 e prima di allora, i proclami e le dichiarazioni ufficiali avvenivano tramite comunicati radio e non televisivi. Tutti gli altri rimarranno degli autentici "evergreen" nell'oratoria della sinistra italiana, con una cadenza ossessivamente stagionale e così pervicace tanto da ritrovarceli ancora adesso in molte dichiarazioni pubbliche dei politici attuali e con una trasversalità oggettivamente imbarazzante.
   Scegliere anche uno solo di questi temi significa riaprire un vecchio libro di storia, con i suoi paradigmi interpretativi più o meno superati, con le sue immagini leggermente appannate, tuttavia questo libro è solo impolverato, ma non inattuale. E' sorprendente come nonostante l'evidente distanza temporale, sottolineata in fondo dal programma in bianconero, il tempo sembra essersi fermato, anzi no, sembra dilatato oggigiorno, proprio per quella scelta di temi proposta da Togliatti e che sembrano aver superato i limiti temporali del contesto storico ed il dibattito politico che li hanno prodotti. Qualcuno penserà che sia una forma di nostalgia, io in realtà penso che sia una forma di scavo palingenetico di una tipologia di elettore, in specifico l'elettore italiano di sinistra.
   E' chiaramente indubbio che molti elettori di sinistra abbiano il piacere ed il gusto di ascoltare questi ritornelli e non solo perché drammaticamente attuali o compatibili con la vigente situazione economico-sociale odierna, ma perché vige l'illusione nell'uomo di sinistra di essere un progressista, un innovatore, un uomo del futuro votato verso la novità, qualcuno forse l'ha notato la sottile operazione dialettica effettuata da Togliatti di rappresentare il proprio partito non come una forza conservatrice, ma come una forza di opposizione democratico-repubblicana orientata unicamente a contrastare la reazione espressa dal sistema formulato dal Partito della Democrazia Cristiana, partito di governo certo, ma partito dell'oppressione, di un regime in cui le libertà costituzionali, fondamentali nella caratterizzazione delle strutture repubblicane, sono messe sistematicamente a rischio e disattese, tra queste - decisivo per un partito operaista come il P.C. - il diritto del lavoro. Si può discutere quanto si vuole sull'insensibilità togliattiana e dei comunisti in generale, di non assegnare e delegare unicamente al legame lavoro-benessere, produzione-dignità e altre forme aberranti che hanno trovato la crudele ironia nazista, il fondamento materiale e morale dell'essere cittadino, tuttavia le dichiarazioni togliattiane descrivono un'impostazione dottrinaria, temi politici e prospettive di soluzioni che non abbandoneranno tanto facilmente la dialettica politica italiana, a diversi livelli, compresi quelli istituzionali.
   Una linea di continuità che tradisce la vera natura progressista del P.C. e che descrive la retriva cifra conservatrice sia della sinistra italiana (in genere), sia dello stesso dibattito politico italiano. Ora, credo di ripetermi, ma la difesa della Carta Costituzionale, che non è il Vangelo per fortuna, che ha ragioni storicamente determinate nel discorso togliattiano è un vero e proprio evergreen, così pervasivo che recentemente ha avuto una sua riproposizione nel dibattito politico italiano e ha conosciuto una trasversalità sospetta e chiarificatrice dell'eccessiva compromissorietà partitica delle forze politiche coinvolte: in tempi recenti il Partito Democratico, stoltamente definito il PdR, cioè il Partito di Renzi (dal nome del segretario dell'epoca!), ha incarnato in occasione del referendum una spinta anticonservatrice, ma la sovranità popolare cavalcata da un fronte trasversale (FI, FdI, Lega Nord, M5S, Liberi e Uguali e varie altre forze minori) ha chiaramente votato per la conservazione, cioè il mantenimento della Costituzione così com'è. Certo, ciò che ai tempi di Togliatti appariva la conservazione, oggi è invece il "progresso" e viceversa, ma può applicarsi al discorso togliattiano lo stesso criterio demistificatore utilizzato dal segretario comunista, cioè che ciò che lui indicava come reazione in realtà, fosse la via più semplice e più normale per l'affermazione di alcune libertà democratiche riconosciute proprio dal mandato costituzionale e che in alternativa, la sua politica di opposizione fosse un'azione inibitrice di possibili sviluppi: se non modifichi a.e., l'idea che il benessere di una nazione sia solo il P.I.L., cioè la ricchezza prodotta, mi pare del tutto evidente che qualsiasi proposito di innovazione o di progressismo si inscriva a parti rovesciate sulla stessa logica del potere costituito, in pratica P.C. e Democrazia Cristiana a parti rovesciate sono entrambe ascrivibili a forze di conservazione ed è solo un gioco di ruolo indicare l'una partito dell'oppressione e l'altro partito della libertà.

domenica 11 novembre 2018

Le ragioni filosofiche dello scetticismo pascaliano sulla filosofia cartesiana

(immagine tratta dal web)

   La ricerca epistemologica della verità si è da sempre imposta il metodo analitico, cioè il discettare da un certo contenuto proprietà e qualità ritenute decisive per la determinazione essenziale del suddetto e questo nella tradizionale convinzione che questo lungo procedere avesse una conclusione e che quest'ultima fosse in modo irrefutabile la verità, nella sua assolutezza. Il problema della definizione della pienezza di questa verità ricavata dialetticamente tramite la dicotomizzazione dei concetti ha richiesto, a sua volta, una fondazione metafisica, un principio generalissimo che affermava e spiegava le varie conclusioni epistemologiche. Ecco che allora, l'epistemologia scivola inevitabilmente verso la metafisica e così facendo finisce per esserne dipendente e subordinato. Un modello formulato già da Aristotele, ma che perdurerà con estremo successo nel pensiero filosofico europeo, nonostante le epoche filosofiche (es. il Medioevo con la sua teologia) e nonostante le svolte filosofiche (es. l'epoca moderna con la reimpostazione empiristica dei temi scientifici).
   In questo quadro storiografico la filosofia del francese Reneé Descartes, noto con il nome latinizzato di Cartesio, occupa un momento fondamentale, usurpato, per così dire, solo dalla filosofia del tedesco Immanuel Kant, perché definirà per circa un secolo un'imponente influenza nei dibattiti scientifici europei, almeno fino alla comparsa dell'opera di Isaac Newton che rivoluzionerà drasticamente il pensiero scientifico europeo e mondiale.
   La dimensione filosofica che interessa in questo scritto è il contributo filosofico-matematico aportato dal filosofo francese alla scienza europea, un contributo totalmente antitetico alle attuali esigenze fondazionali della filosofia più recente e dove il tema dello statuto dei fondamenti viene formulato secondo alcuni criteri tradizionali che non quelli dell'identità tetica dell'Io. In tal senso, l'intuizione decisiva di Cartesio è stata quella di congiungere il metodo analitico, che da Platone in poi ha avuto una natura dialettica, con le scienze astratte, cioè con la matematica e la geometria, realizzando in effetti quello che la storiografia indica con la "aritmetizzazione della geometria", che come è noto verrà rovesciata in tempi recenti dalla "geometrizzazione dell'algebra". Ciò significa che per Cartesio la verità filosofica può affiorare anzitutto tramite una disamina metodologica operata con le scienze astratte, le quali eliminano dal computo del problema ogni forma di contraddizione e di dubbio, quindi di errore, che rende difficile se non impossibile l'individuazione della suddetta verità, che per il filosofo è unica ed è razionale: nel linguaggio attuale è intellettiva.
   L'uso delle scienze astratte svolge una funzione di setaccio con la quale eliminare le menzogne e le falsità, il che è una riattualizzazione del tradizionale procedimento analitico del pensiero antico, tuttavia rispetto a questo modello di riferimento la filosofia cartesiana prevede di far progredire parallellamente sia il sapere epistemologico sia la conoscenza metafisica, nel senso che acquisendo la certezza epistemologica che i vari contenuti dell'analisi siano chiaramente determinati, da questa sicurezza affiora in modo spontaneo ed immediato la loro intrinseca validità filosofica. Il meccanismo formulato da Cartesio nel suo famoso Discorso sul metodo e precisato nei suoi aspetti nelle Meditazioni filosofiche (da segnalare in particolare la prima) prevede che l'analisi astratta funga da apparato metodico con lasciar trapelare le conoscenze scientifiche come evidenze assolute. La conoscenza scientifica è infatti, quel prodotto derivato dal progredire da contenuti falsi o contraddittori verso contenuti assolutamente certi ed indubitabili, per quest'ultima ragione il metodo cartesiano  viene detto anche del "dubbio metodico", perché qualche secolo prima di Karl Popper si ammette la messa in discussione di singole verità per mostrarne sia la validità sia la loro indubitabilità: ovviamente, la falsificazione popperiana riguarda un intero paradigma teorico e tende ad essere un atto d'imperio intellettuale del tutto indifferente alla tradizione storica di riferimento della teoria, ma a parte queste differenze le similarità sono molto marcate.
   La verità così raggiunta diventa un valore filosofico assoluto ed un'intuizione astratta incontestabile. Il problema di questa prospettiva è semmai, che il filosofo francese crede fermamente che l'affinamento in direzione dell'astrattismo concettuale possa fornire tutti gli elementi possibili che corrobori e renda valida la stessa intuizione e l'evidenza intellettiva che la determina. Infatti, il dubbio e la contraddizione svaniscono improvvisamente nel momento in cui si afferma risolutamente l'evidenza di una conoscenza, il problema è che - come ricorda Blaise Pascal - ciò che può essere intuitivamente immediato ad un soggetto, non lo è per un altro: non a tutti a.e., è una verità intuitiva la stessa natura dei numeri matematici! Allora, l'idea cartesiana che l'affinamento metodologico apportato dallo studio di matematica e geometria possa irrobustire l'intuizione e che questa possa produrre contenuti scientifici ed indubitabili è uno dei limiti della filosofia cartesiana, perché rinuncia per definizione a dare valore al "senso comune" e alle varie "verità comuni" e così facendo non pensa di formulare un meccanismo che preveda appunto la possibilità di gestire quelle verità intuite e basate sul "senso comune". In ogni caso, la cernita metodologica cartesiana è tesa a trovare tutte quelle verità assolute, la cui validità è oggettiva ed indiscutibile e che risultino chiaramente evidenti alla ragione. Tra queste verità inserisce anche l'esistenza individuale, fissata dalla nota - e spesso travisata - formula del cogito, ergo sum.
   In questo caso, Cartesio non apporta nessuna innovazione rispetto alle convinzioni del pensiero antico, perché come da Parmenide in poi, cioè dal razionalismo greco in poi, la validità epistemologica e scientifica (cioè metafisica!) è data dall'affermazione dello stato di esistenza di un contenuto, per cui il soggetto avvertendo chiaramente di esistere, questa sua verità fondamentale diventa il tramite indiretto con il quale dare sostegno e validità all'attività intellettuale, del cogitare appunto. Tuttavia, occorre ricordare che cogitare in Cartesio significa essenzialmente produrre delle intuizioni, cioè delle rappresentazioni: forme tramite cui fissare indelebilmente ed in maniera estetica una modalità relazionale, cioè un'interazione dell'Io (sum) con la realtà esteriore di cui può avere solo sensazioni, cioè rappresentazioni. In questo modello filosofico diventerà estremamente problematico il ruolo e la funzione del corpo, perché se l'intuizione è una verità, l'unica verità in possesso da parte del soggetto è l'intuizione del proprio corpo, cioè l'Io sente di appartenere ad un corpo, ad una realtà materiale che è la sua vita biologica.
   Da quanto si è detto, appare evidente che in Cartesio il dubbio intuito dal divenire della realtà sensibile viene risolto tramite una gerarchia di altre intuizioni, ritenute più attendibili, perché fondate sul criterio della evidenza. Ora, lo strumento che disserta su queste contraddizioni e che può valutare l'attendibilità di un dato anziché di un altro è per il filosofo francese la ragione individuale, per cui la razionalità definita da Cartesio non è più l'antica ontologia greca, dove il carattere "razionale" è correlato con la stabilità estetica delle forme concettuali, ma è una gnoseologia fondata sulla arbitrarietà cognitiva dell'Io, cioè è il soggetto il giudice che decreta inappellabilmente il giudizio scientifico. Seguire la realtà sensibile, mutevole e contraddittoria per definizione, significa appellarsi ad un sistema di conoscenze che non ha più la possibilità di usufruire della tradizionale logica concettuale in cui le essenze sono forme statiche, immobili - tanto per parafrasare il realismo platonico - e questa stabilità è un prodotto assertivo dell'astrazione, un arbitrio di ragione e pur tuttavia, l'unica verità filosofica fondante è l'esistenza dell'Io.
   Il divorzio sancito dalla filosofia cartesiana tra la realtà sensibile (esistente) e la conoscenza scientifica (che è un sistema organizzato di intuizioni) privilegia l'arbitrio intuitivo del soggetto, che verrà messo in crisi dallo empirismo newtoniano a fine Seicento e dalla svolta materialistica, ad opera appunto del newtonianesimo e poi dalla cultura illuministica, della cultura europea, almeno fino all'epoca romantica con l'Idealismo tedesco.
   Rispetto a questo quadro concettuale Blaise Pascal oppone ciò che chiama ragioni del cuore. Il modo in cui Pascal ribalta interamente la cornice cartesiana è facilmente intuibile. Infatti, la contrapposizione del tema del cuore alla ragione riformula l'equivalente contrapposizione tra la dimensione razionale, interamente allocata nella ragione, e quella dimensione affettiva e sentimentale che è un territorio del tutto estraneo alla ragione: nel linguaggio attuale la posizione pascaliana ha chiaramente tratti irrazionalistici, tuttavia l'opposizione che viene formulata da Pascal rivela un'aporia insita nelle premesse cartesiane, cioè se l'unica verità indiscutibile è l'intuizione del sum, vien da sè che questa verità non è un prodotto di ragione, ma l'esito immediato di uno stato cosciente dell'essere, una determinazione legata in qualche modo alla funzionalità del corpo. Infatti se il sum fosse una verità sottoposta e sottoponibile alla disamina analitica della ragione dovrebbe derivare come un esito metodico del dubbio metodico, ma come viene descritto da Cartesio sembra essere una verità prima. Ciò non vuol dire che in Pascal vi sia una svalutazione dell'attività intellettuale, tutt'altro, ma significa volere rimarcare che la dissociazione in direzione dell'astrattismo confonde piani distinti della natura umana. Nei Pensieri la premessa filosofica pascaliana è la convinzione che l'esistenza umana si muova nell'intervallo di due estremi, tra miseria e grandezza, e l'attività intellettuale è sicuramente motivo della grandezza umana, tuttavia il rischio che si corre seguendo il cartesianesimo è quello di assimilare le finalità e le esigenze delle attività astratte, ciò che definisce con "spirito geometrico", alle finalità ed esigenza insite nell'esistenza stessa dell'uomo, che indica con "esprit de finesse" e che nulla hanno a che vedere con le presupposizioni teoriche delle scienze astratte. La difficoltà cartesiana della disincarnazione dell'Io è del tutto ignota in Pascal, dove non c'è l'assolutizzazione dell'Io e dove l'esperienza configura un'unità con l'intuizione.
   In riferimento al tema della scommessa, Pascal più e forse meglio di Cartesio cerca di trovare una soluzione più convincente all'antico dissidio creato dal divenire della realtà sensibile nella formulazione dei concetti e delle definizioni scientifiche, intuendo - come del resto il teologo cattolico Nicola Cusano - non solo la natura complessa (o complessità relativistica: quella stessa additata dal papa cattolico Giovanni Paolo II in occasione della riabilitazione di Galileo Galilei nel 1991), ma anche l'esigenza di iniziare ad elaborare un modello di conoscenza scientifica meno assertivo e meno assolutistico, fondato appunto su un'idea meno "realistica" della conoscenza oggettiva. A tal riguardo, proprio il concetto della probabilità, derivato dall'analisi della distribuzione delle quote e delle possibilità da parte di un giocatore di effettuare scelte vincenti nei giochi d'azzardo, introduce nella costruzione sia dell'immagine oggettiva della realtà, sia nei contenuti indiscussi del discorso scientifico l'idea "relativistica" dell'incertezza e della probabilità statistica, temi che vengono ad imporsi nella cultura scientifica europea con la fisica quantistica e la "regionalizzazione" ("periferizzazione") della teoria classica della Meccanica.

lunedì 29 ottobre 2018

Il concetto di supereroe e il concetto di male nella narrazione del fumetto americano contemporaneo


(Foto dal web)

Se proviamo a leggere il fumetto contemporaneo - come fanno in molti oggigiorno - tramite un'estetica ed una ermeneutica che lo identifica come una forma storica ed autorappresentativa della società umana, allora appare evidente la diretta correlazione tra il mondo fittizio del fumetto ed il mondo concreto dell'esistenza umana. Pertanto, gli uomini e le donne dei fumetti, compreso tutto il loro mondo affettivo e le situazioni più o meno realistiche, non sono altro che il riflesso più o meno fedele di quella stessa società che l'ha prodotti e quindi, un alter ego tramite cui osservare se stessi in situazioni ed in condizioni materiali verosimili. Gli eroi del fumetto dunque, sono una forma non solo dell'immaginario creativo umano, ma anche una forma di possibilità verosimile che l'uomo oppone concretamente come proprio modello identitario, come esempio da seguire. Un'estensione della fantasia nel mondo profano, una sovrapposizione, in certi momenti quasi "protesica", che mette in relazione mondi ed universi, nel senso di oggetti, di fatti, di sistemi culturali e via dicendo, ma anche i valori assoluti delle verità fondamentali che accompagnano il progresso della umanità e della sua civiltà, tra questi valori l'idea edificante che sia non solo possibile, ma anche un dovere la produzione di azioni giuste ed orientate verso il Bene. In tal senso, l'azione supereroistica diventa un modello di riferimento che porta con sè la convinzione che il Male per quanto virulento possa apparire non è del tutto irriducibile e che può essere debellato. Una lotta manichea che può condursi in vari modi, ma su cui esiste un'unica certezza il prevalere del Bene sul Male e la speranza soteriologica che tutto si risolva in qualche modo verso il meglio.
Insomma, per quanto scandalosa sia la presenza del Male nel mondo, come si stupiva Sant'Agostino, un fatto è certo, cioè che è il Bene a descrivere un ordine necessario nel mondo e che ogni evento descritto dentro questo universo o questa umana realtà non può che indirizzarsi verso il progresso. Una fiducia che il pensiero teologico ha sempre difeso e ha sempre riproposto in ogni dove ed in ogni tempo, e a questa stessa cornice filosofica una parte della narrazione fumettistica contemporanea ha guardato essa stessa, molto spontaneamente e senza alcuna specifica riflessione filosofica e tuttavia, lo sguardo fumettistico rivela una trasformazione dell'arcaico concetto del Bene e l'introduzione di una variante a tratti inquietante, quella di una reale irriducibilità del Male e della sua estrema mutevolezza tanto da confondersi troppo facilmente con alcuni elementi morali che compongono gli attuali sistemi di valori. Una "confusione" che non deriva da una ignoranza, tanto per parafrasare il santo teologo cattolico menzionato, e neanche una malvagia intenzionalità umana, ma un prodotto - forse anch'esso storico - della costruzione attuale delle stesse prospettive valoriali, che costringono il soggetto (qualsiasi!) a muoversi dentro una cornice relativa; ecco allora il dramma, la conversione del Male assoluto in un male relativo e a secondo come viene osservato (in situazione, isolato, in gruppo, storicizzato, ...) il male è "situazionabile", cioè deriva da contesti dove non appare più così negativo, o addirittura viene a risolversi in bene!
Impostata così, anche la narrazione fumettistica si trova a dover fare i conti con questa natura aporetica del male, ma anziché essere effetto di una riflessione filosofico-morale giunge a questo punto tramite una trasformazione costante e continua dello schema narrativo con cui si producono e si elaborano le avventure fumettistiche: ovviamente, il discorso è interamente focalizzato su una parte della produzione fumettistica, quella supereroistica e non include opere fumettistiche sui generis ritenuti da molti addirittura "letterarie", per cui l'idea di una schema codificato non solo è molto presente in questo genere di produzioni di fumetti, ma è una delle strutture portanti della stessa narrazione fumettistica.
Se si osserva il ruolo e la funzione del male nel fumetto tramite lo schema narrativo si evince perfettamente che al modificarsi di questo si trasforma il concetto stesso di male e la sua stessa percezione, il che a sua volta influisce in modo determinante la figura del supereroe medesimo. Si consideri, tanto per iniziare, l'idea che caratterizza le produzioni del fumetto contemporaneo classico. Qui, lo schema narrativo è molto semplice e a tratti ripropone la dicotomia manichea di scontro tra Bene e Male, premurandosi ovviamente, di caratterizzare in modo indubbio le qualità positive ed edificanti dell'eroe del racconto, ma anche le doti spregevoli ed orripilanti del villain che compare di volta in volta nelle avventure fumettistiche. Come si può intuire in questo schema classico non può sussistere alcuna ambiguità o peggio coabitazione tra Bene e Male e ciò in ragione di una precedente ed arcaica formulazione drammatica di questo rapporto che ha la sua fonte nelle tragedie eschilee, a.e.: il male subisce (e deve subirlo!) la legge del contrappasso, poiché quest'ultima come un inesorabile destino incombe fatalmente sulle esistenze di ognuno, per cui la via morale verso il Bene è la direzione inscritta nell'ordine necessario dell'Universo, da cui non è possibile sottrarsi. Dentro questo schema, il gesto eroico nel fumetto contemporaneo è pienamente inserito e diventa l'intervento necessario e necessitante che riafferma sia l'equilibrio cosmico delle cose, sia la loro posizione morale, insomma il supereroe contemporaneo viene a delinearsi come l'antica figura del deus ex machina, cioè del risolutore divino. In tal senso, la comparsa di un personaggio come Superman (1933) nel fumetto classico è la rielaborazione di un vero e proprio archetipo: in questo caso, tra l'altro, le somiglianze ad un modello ancestrale (mitologico) (*) sono così marcate che i tratti caratterizzanti dello schema narrativo descrivono l'Uomo d'Acciaio come una sorta di ibrido incarnato tra Mosè e Gesù Cristo.
In ogni caso, quest'idea di supereroe "alla Superman" esibisce caratteristiche che lo rendono perfettamente collocabile dentro questo schema gnostico, diversamente, la scarsa aderenza delle proprie caratteristiche allo schema narrativo impone una mutazione, pena l'inquadramento a fatica, se non addirittura l'estraneità, del proprio ruolo dal contesto narrativo creatogli intorno. Per molto tempo la struttura del fumetto supereroistico non ha subito grandi cambiamenti, se non quelli fisiologici relativi alle mutevoli creature supereroistiche che veniva ad aggiungersi allo schema già ampiamente codificato. Tuttavia, in seno a questo schema inizia ad incunearsi un'inedita innovazione che distruggerà l'arcaico ed ancestrale rapporto manicheo Bene-Male, quest'innovazione è introdotta dal personaggio di Batman (1939), l'altro grande eroe del fumetto classico dell'epoca d'oro della fumettistica americana (l'intera produzione della DC Comics). Rispetto allo schema qui presentato, il gesto eroico prodotto dall'Uomo Pipistrello non è guidato da un forte senso civico, come può ravvisarsi nel grande giustiziere alieno che è Superman, ma da un'ossessivo spirito di vendetta. La lotta contro il crimine è un atto di giuramento che Bruce Wayne ha formulato a se stesso per vendicare la morte dei propri genitori. In una certa misura, è vero, questo può ascriversi alla menzionata legge del contrappasso, tanto che troveremo quest'eroe a comporre la Justice's Leguae, ma ad analisi più attenta delle sue caratteristiche si rivela come rispetto all'archetipo rappresentato da Superman Batman descrive un modello che male si adatta allo schema narrativo della netta contrapposizione di Bene e Male. Batman anzitutto, non è un extraterrestre, non ha capacità sovrannaturali, ma esibisce uno straordinario talento per la lotta e per la scienza ed è equipaggiato con strumenti avveneristici, che lo mettono in condizione di combattere e di prevalere sul crimine: non è un dio in Terra come può esserlo Superman! Inoltre, rispetto al senso di giustizia, ciò che motiva quest'eroe non è l'adesione disinteressata al valore della giustizia, il formarsi in lui di una coscienza civica, ma l'ostinata volontà di avere soddisfazione personale dell'ingiustizia patita, tanto che agisce clandestinamente e per molto tempo la sua figura sarà associata dalle stesse istituzioni cittadine a quella di un qualsiasi altro criminale. In più, Batman ha un rapporto ambiguo con il mondo del crimine, perché più lo frequenta e lo combatte, più sente di appartenervi in qualche modo. Un aspetto quest'ultimo che mette in crisi la netta distinzione tra Bene e Male, perché ammette la possibilità che la variazione tra i due mondi sia solo un "fatto ottico", un diverso tipo di coloritura delle proprie azioni - non è casuale che The Joker sia la sua nemesi inquietante, oltre che il villain più controverso incontrato dal Cavaliere Oscuro.
La comparsa di Batman introduce, seppur implicitamente, una situazione inedita e distruttiva di osmotica relazione tra Bene e Male, ma quest'effetto disgregativo innescato dal personaggio non rivela tutte le sue conseguenze, perché l'Uomo Pipistrello opera in un contesto narrativo che fatica ad accoglierlo integralmente - infatti, la svolta editoriale del personaggio avverrà qualche decennio dopo assestandosi su quella cifra esistenzialistica che non lo abbandonerà più -, si dovrà attendere il rivolgimento operato dagli eroi della Marvel e soprattutto con uno di essi, Spiderman (1962). L'aporia narrativa lasciata comunque, irrisolta anche dallo stesso Batman consiste appunto, sulla qualità della motivazione che si trova a fondamento del gesto eroico. In Batman lo spirito di vendetta può ancora congiungersi con l'idea dello americano medio di trovare nella giustizia, se non nella stessa pena capitale, soddisfazione al male perpetrato, ma inizia ad affacciarsi un'altra caratteristica che lo stesso Uomo Pipistrello non è riuscito a gestire, vale a dire come stabilire il confine tra ciò che è giusto fare da ciò che non lo è: beninteso, non si sta parlando di stabilire cosa sia legale e cosa sia illegale, perché Batman non può produrre un simile ragionamento in quanto lui stesso opera in maniera del tutto arbitraria e quindi, al limite della legalità, almeno quando è sicuro di avere sotto controllo la situazione. Il problema che innesca la figura di Batman non ha più una natura morale, vale a dire che la lotta contro il male ed il crimine non può ricondursi a nessun imperativo morale assoluto, tanto che l'imperativo che guida l'azione dell'Uomo Pipistrello non è il dovere assoluto del Bene, ma è la vendetta. C'è arbitrarietà nell'azione eroica, c'è arbitrarietà nella definizione di cosa sia il male: cosa rende rende Batman diverso dai criminali che persegue, visto che la differenza di entrambi non si fonda più sul senso ancestrale di un ordine giusto?
La risposta la fornisce il noto personaggio inventato da Stan Lee e la risposta non è confortante, perché la differenza indicata da Spiderman non è la presenza di una coscienza civica del Bene e neanche una coscienza del Male, ma è molto semplicemente il prodotto di un atto di responsabilità assunto primariamente a livello individuale e poi, eventualmente anche a livello collettivo. Essere responsabili non significa avere perfettamente chiaro di quale sia il proprio dovere o quale sia il Bene collettivo che ha valore universale, ma significa prendere atto di essere in grado e capaci di assolvere un'azione come se fosse un dovere, anche se poi in fondo in fondo non lo è. Il mantra che campeggia sulle avventure dell'Uomo Ragno è posto in chiaro fin dal primo albo, "grandi poteri determinano grandi responsabilità", il che vuol dire che Peter Parker è a causa dei poteri che possiede incastrato da una morale di servizio altrui e da una logica disinteressata che vive con insofferenza. Ed infatti, la lotta contro il Male ed il crimine da parte dell'Uomo Ragno non è orientata alla affermazione della giustizia o del Bene, ma per soffocare il tremendo rimorso di coscienza che lui stesso si è autoprodotto: combatte il male perché così può acquietare quegli scrupoli morali che non riesce più a soffocare e che non lo lasciano tranquillo. Se poi, si aggiunge che da questa lotta al crimine trae anche opportunisticamente un vantaggio, cioè quello di poter realizzare fotografie dei crimini che sventa e di poterle vendere in esclusiva al tirannico direttore del giornale per cui lavora, allora è evidente che il problema morale è ampiamente superato in una morale eclettica e relativa. Qui, la responsabilità che incombe nell'azione di Spiderman non è un concetto astratto, ma è il senso di pentimento con il quale il personaggio cerca di trovare assoluzione per l'inedia e l'apatia dimostrata nei riguardi dei temi morali: la morte dell'amato zio è il motivo di questo fortissimo senso di colpa ed è questo sentimento che spinge l'eroe a cercare una giustizia, ma anche in questo caso questa ricerca ha una natura "interessata". Come si vede siamo molto lontani dall'idea iniziale di un'ancestrale senso della giustizia e di Bene.
Riassumendo, i punti fin qui evidenziati dimostrano:

  1. la classica contrapposizione Bene-Male inizia a sfumarsi e comincia a delinearsi un'indiscriminata osmosi che spariglia opinioni, posizioni e obiettivi. Ciò vuol dire che inizia a sgretolarsi sul piano pedagogico l'idea di riferirsi all'eroe come un modello morale, un esempio da imitare.
  2. Decaduta qualsiasi forma di semantica e di assiomatica, anche la natura del supereroe deve decidersi di modificarsi e di trasformarsi, ma questo processo mette fine all'idea tradizionale di giustiziere, che verrà con molta fatica riproposta dalla narrativa fumettistica e con alterne fortune.
  3. Distrutta la correlazione del Bene con l'ordine necessario del mondo, si delinea il problema narrativo di individuare una diversa origine del male, quest'ultimo non più come forma trasgressiva e sovversiva dell'ordine cosmico, ma come prodotto diretto dell'azione eroistica: in una realtà caotica in cui l'ordine è un fatto morale e non più una necessità strutturale del mondo, e con il peso della responsabilizzazione delle proprie azioni, allora è evidente che il gesto eroico non ha solo effetti positivi, ma produce a sua volta effetti negativi e l'eroe da risolutore degli eventi umani diventa un'ulteriore motivo apocalittico.

L'assenza di una netta identificazione del supereroe alla natura e agli scopi del Bene è una precondizione del suo totale snaturamento ed il suo inesorabile scivolamento verso la dimensione negativa dell'antieroe. Ora, se non era esclusa la conversione dei villain in eroi positivi, è pur vero anche che era implicita l'esclusione di una conversione dell'eroe verso orizzonti malvagi, tranne solo in particolari condizioni transitorie, il che è ovvio in un contesto narrativo in cui qualsiasi deroga di ambiguità oscillatoria tra i due termini assoluti della morale e della verità è negata. Pertanto, è solo quando la modificazione della natura e del significato del ruolo e della funzione dell'eroe che questa deroga non solo è concessa, ma a sua volta necessaria per dare credibilità all'azione del supereroe. Ci si accorge di questa mutazione se si osservano i cambiamenti di ruoli che recenti produzioni - orientate verso i giovanissimi per lo più - hanno dato alle tradizionali figure negative della letteratura gotica (su tutti la figura del vampiro). 
La conseguenza più importante non è solo il chiaro disorientamento dello stesso supereroe nella gestione della propria azione eroica, che come si è visto non ha o a perso un orizzonte morale di riferimento, ma è soprattutto l'incapacità di controllare gli effetti negativi prodotti dal suo gesto eroico. Adesso, dopo questa mutazione, la possibilità che il male possa derivare dal medesimo gesto eroico non è un effetto impensabile, ma è una possibilità realmente concreta, anzi in alcuni casi questa dimensione diventa il leitmotiv di tutte le avventure del supereroe, esempio Deadpool (1991) della Marvel. Tuttavia, interviene un'ulteriore variante a questa possibilità - eroe positivo, ma briccone - che è quella di possedere una natura intrinsecamente legata al male ed esibendo caratteristiche che in altre situazioni venivano ricondotte al villain di turno. In questi casi, l'eroe non è più il modello positivo edificante, ma è l'elevazione dell'antieroe a protagonista assoluto di una serie di vicende narrative: come si intuisce torna una qualità già definita da Batman, cioè di un eroe mischiato con il male da cui in qualche modo deriva, se non addirittura un vero e proprio rinnegato. Nel caso di Batman il travestimento è un modo per confermare questa dimensione di ambiguità, ma in alcuni personaggi recenti questa stessa funzione non è più assolta dal mascheramento e si presentano così come sono. In questo filone narrativo si inserisce il personaggio marveliano di Daimon Hellstrom (1973), un personaggio che ha avuto una gestazione che lo ha portato fuori dal gruppo dei Difensori per assumere chiarissime caratteristiche "esistenzialistiche": la lotta contro il male si intreccia con la ricerca della verità e con la lotta egemonica, spesso incerta e spesso con l'eroe perdente, che Hellstorm intraprende contro Satana, di cui è un'incarnazione, di cui è figlio. In questo caso, il crimine non è più materiale violenza e bestialità umana, ma ha un'ascendenza metafisica nell'oltremondo ed in alcune storie di Hellstorm addirittura come effetto di una partita a scacchi tra Dio e Satana; l'umanità in questo caso è in mezzo a questo scontro divino e la funzione di Hellstorm è semplicemente quello di poter intervenire a difesa dell'umanità in riferimento ai "valori" che guidano la sua azione: non c'è più dunque, alcuna giustificazione religiosa e metafisica a sostegno della buona azione compiuta dall'eroe, ma solo un relativistico "buon senso" e sensibilità individuale.
Si evince perfettamente che il supereroe non più incastrato da una morale del dovere assoluta che è da riferimento a lui come ad ogni altro (il lettore delle sue avventure in particolare) può abbandonarsi a scegliere di volta in volta se compiere un'azione giusta o se rimanere ignominiosamente disinteressato, ma stavolta se decide per l'inazione non subisce più il ricatto morale del rimorso come in Spiderman, perché ha compreso che il male non è evitabile neanche quando l'intenzione è buona o diretta unicamente verso il bene. Ciò determina un'altra conseguenza sullo scenario dell'azione supereroistica che assume insospettabilmente, ma quasi necessariamente uno scenario orrorifico dove il male, nel senso di crimine, s'intreccia opinatamente con l'orrore metafisico descrivendosi come prodotto non solo da menti malvagie, ma anche da spiriti dello oltretomba resuscitati, da demoni, da zombie, addirittura da esseri fantastici del folklore come i lupi mannari o gli uomini-donne lupo e le streghe. A tal riguardo, l'orrore, il macabro, l'inquietudine, la paura ancestrale e via dicendo sono caratteri che rendono versatile il paesaggio in cui si muove l'eroe e le finalità o gli scopi della sua azione supereroistica, ma indicano ancor di più quanto sia inquinata e contaminata l'antica idea di Bene e quanto ambigua sia la scelta eroica di ciò che è giusto poiché un fatto di sfumature, unicamente dipendente dalla sensibilità culturale dell'eroe.


sabato 27 ottobre 2018

O il post o la vita: il peso della libertà in rapporto al numero dei followers posseduti.

Che la mia giovinezza sia passata me ne accorgo non tanto dalle rughe sul mio viso, che ancora per fortuna non esibisco, ma dal continuo riformulare precedenti opinioni e modificare, addirittura aborrire vecchie convinzioni. Tra queste vi è anche la mia attuale visione della libertà, infatti comincio a chiedermi - ormai da molto tempo - quanto ci sia ancora di vero e di valido nell'ontologia limitata della libertà. All'epoca di quando facevo il liceo era di moda - in verità, lo credevo solo io - un inconsueto connubio, un'amalgama tra l'idea benjaminiana per cui la libertà per definirsi tale doveva riconoscere a se stessa un limite ed un confine invalicabile, soprattutto perché oltre quel limite iniziava la libertà altrui, e il valore collettivo e morale di kennediana memoria dell'azione individuale. Insomma, uno scenario in cui la libertà individuale e collettiva era regolamentata, anche moralmente e per di più responsabilizzata, pensando appunto che il proprio dovere non fosse solo quello di vedersi riconosciuti "cittadini" di una nazione, ma soggetto attivo di questo riconoscimento: una sorta di liberalizzazione di impegni possibili, ma necessari per una benefica convivenza e per il benessere di tutti, indistintamente.
Se quest'ideali possono sembrare oggi attuali - e forse qualcuno lo crederà, soprattutto tra alcuni nostalgici -, è pur vero che riferirsi saldamente a questo tipo di cornice è molto arduo, non perché non abbia una sua intrinseca validità - se per questo anche un convinto terrorista è un uomo in buona fede, almeno sul piano dell'ideale -, ma perché come si possa dissertare di "responsabilizzazione" individuale quando oggi più di ieri è prevalsa la prospettiva collettiva - o si appartiene ad un gruppo sociale oppure si è esclusi nel bene e nel male dai più consueti automatismi sociali - e soprattutto quando non esiste più come obiettivo sociale appunto la libertà: è un autoreferenzialismo che le strutture sociali e comunitarie di oggi sono poco disposte a pagare. Inoltre, a rendere la problematica di non facile soluzione interviene la tecnologia, perché sono proprio gli strumenti che si usano quotidianamente a creare e a configurare l'orizzonte ed i margini reali di questa stessa libertà. Ora, se l'uso di un qualsiasi mezzo tecnico influisce indifferentemente su scelte e stili di vita, allora interrogarsi su come si articola, meglio su come si dispiegano materialmente forme di libertà deve considerarsi anziché un sano esercizio di democrazia o di filosofia morale una consuetudine preconcetta: proprio quella che manca nei quotidiani dibattiti.
Fatta questa premessa, molto generica, molto orientativa, tanto per fissare un quadro di riferimento tematico, si consideri concretamente un esempio, a.e. la raccolta di "like" o di followers virtuali. Sono note le posizioni di chi vede in questo tipo di fenomeni qualcosa di cui diffidare e da considerare negativo, tuttavia, se ci si sforza di abbandonare posizioni oltranziste e conservatrici, il meccanismo qui menzionato è in fondo la "borsa valori" del futuro, il metro di giudizio del proprio valore professionale e del proprio reddito e benessere. Oggi, vi sono moltissime persone, alcune noti personaggi del jet-set nazionale ed internazionale che dimostrano appunto questa situazione; certo, ciò è chiaramente incomprensibile da chi non ha legato la propria fortuna professionale al consenso virtuale di iscritti a canali video o a profili, tuttavia volenti o nolenti queste stessi devono ammettere che pur essendo loro personalmente estranei da questo circuito in una certa misura ne subiscono una qualche influenza, ovviamente sotto forma di pubblicità sgradita e superflua, di programmazione comunicativa indesiderata e di fruizione di modelli educativi assolutamente opinabili. Eppure, non si può disconoscere che tutti questi effetti indesiderati siano in fondo, prodotti dal medesimo sistema comunicativo che è comune sia agli uni che agli altri. Meccanismi sociali entro cui viene a configurarsi appunto, l'astratta idea di libertà autoreferenziale verso cui troppo spesso la retorica pubblica rivolge il suo interesse.
Torniamo per un attimo all'idea di libertà menzionata all'inizio. In una situazione come quella appena descritta bisognerebbe chiedersi se sia proprio vero che la libertà individuale finisce dove inizia quella altrui, visto che quel limite astrattamente indicato - e lasciato volutamente indeterminato, tanto da non riuscire a quantificarsi concretamente -, è a ben guardare il margine su cui insiste uno spazio sociale condiviso e partecipato, uno spazio che ha già nella norma dello stato il perimetro limitante e che è più o meno esplicitamente accettato sia da chi ha una coscienza civica sia da chi non ce l'ha, ma non per questo può considerarsi un criminale o un delinquente. Se poi, pensiamo pure che questo dominio sociale oggi si è identificato con lo stesso sistema comunicativo, tanto che la libertà del cittadino è stata monopolizzata dall'informazione che è divenuta "libertà di parola", ergo di stampa come se solo gli operatori dei giornali fossero gli unici a possedere una coscienza critica e quindi, un diritto di opinione che un semplice cittadino esercita (sic!) esclusivamente nei salotti di intrattenimento televisivi - c'ha visto lungo Barbara D'Urso, complimenti! -, allora mi sembra altrettanto evidente che il racconto dominante, che è il pensiero sociale collettivo - in altre epoche qualcuno avrebbe parlato di pensiero unico -, è la struttura narrativa che configura autenticamente la libertà di tutti, compresa anche quella di chi subisce in quanto "pensiero subalterno" rispetto allo storytelling dominante o egemone.
La possibilità di produrre dissenso di qualsiasi tipo o semplicemente un'opinione diversa oggi passa per l'individuazione dell'origine stessa del racconto egemone - così ad un certo momento della mia vita iniziai a pensare -, ma questa stessa possibilità forse non è poi così risolutiva, cioè può non bastare, perché la struttura narrativa è in grado di produrre una serie di effetti collaterali ingestibili e non necessariamente correlabili al grado di responsabilizzazione che una comunità esibisce più o meno consapevolmente. Ed è quello che accade sovente nelle piattaforme social (es. Twitter), il che non vuol dire che ci sia mala fede o un comportamento doloso da parte dei fondatori di suddette piattaforme, ma che la struttura narrativa su cui fondano la loro attività interconnessa produce questi effetti, in quanto sfuggono dal controllo di chi inizia ed imposta un certo tipo di narrazione virtuale: il fatto che sfuggano non significa che sia un problema di competenza come molti credono, ma è un problema interno o intrinseco alla stessa struttura narrativa, in pratica al linguaggio ed al sistema comunicativo utilizzato. Un esempio, è proprio la vicenda dell'attrice pornografica August Ames, travolta da un'ondate di proteste poiché si era rifiutata di realizzare una scena di sesso con un attore di cui diffidava in merito alle sue condizioni di salute. Il comportamento tenuto dall'attrice (spiegando ed argomentando le proprie ragioni) era l'unico che poteva tenere, perché l'obiettivo era formulare una contro-narrazione imposta dalle critiche e dalle proteste, una narrazione opposta che è stata molto ragionevole, rivelando temi anche filosoficamente importanti come quello dell'autodeterminazione di un'attrice pornografica, ma il cui messaggio (vero e credibile) sembra non essere passato, tanto che molti correlano ciò con la decisione dell'attrice di suicidarsi.
L'unico dato certo, che è poi quello che si è voluto mettere in rilievo, è che l'intreccio tra narrazione e vita, che molti cultori trova tra i letterati visto che ha caratterizzato una precisa stagione della cultura europea, oggi viene formulato secondo i modi qui parzialmente descritti ed indicati e che se c'è qualcosa di inquietante esso è effetto dell'incapacità del nostro sistema attuale a più  livelli di produrre degli argini spontanei, il che vuol dire pure che se c'è una carenza non è solo un problema di "criminalizzazione" di un'intera società, ma forse l'effetto parossistico di una convergenza di piani (comunicazione e società) che rende difficile l'operare analiticamente; ciò non vuol dire essere "masochisti", ma ammettere che esistono alcuni piani che hanno una soluzione molto difficile, oppure molto semplicemente che non ammettono soluzione.


giovedì 25 ottobre 2018

Prolegomeni sulla possibilità: tra Heidegger ed il Triangolo di Tartaglia.

La riproposizione heideggeriana della categoria della possibilità nei termini di una categoria esistenziale è una trasformazione dell'antico concetto greco del dynaton (tò) o di endekoménon (tò) che presso la filosofia aristotelica aveva un'impostazione ed una formulazione prettamente epistemologica, tanto che Aristotele (IV secolo a.C.) legava la possibilità sia alla struttura logica del pensiero, e quindi anche al principio di non contraddizione, in quanto categoria logica o modale, sia al fondamento metafisico dell'analisi dicotomica. Da Aristotele in poi infatti, la categoria della possibilità sarà variamente presente ed assumerà via via caratteri differenti. La formulazione heideggeriana è una delle ultime tappe di questa storia, che formula questo nei seguenti termini
<< L'Esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere. L'Esserci ha già sempre in qualche modo deciso in quale maniera sia sempre mio. (...) L'Essere è sempre la sua possibilità ed esso non "l'ha" semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice-presenza. Appunto perché l'Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere o "scegliersi", conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo "apparentemente". Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell'autenticità, cioè dell'appropriazione di sè. (...) Questi due caratteri dell'Esserci, il primato dell'exsistentia sull'essentia e l'esser-sempre-mio, bastano a far vedere che un'analitica di questo ente si trova innanzi a un campo fenomenico del tutto particolare.>> (Martin Heidegger, Essere e tempo, §9, 1976, XVI ed., p.65)
La possibilità quindi, diventa il tratto caratterizzante dell'essere, ma anche il momento da cui partire per la definizione di una filosofia autonoma dai condizionamenti di tipo epistemologico, dove a prevalere sarà la dimensione della necessità condizionata, che è tipica del sapere scientifico, delle forme astratte del conoscere. Il ripensamento, che non è altro che la Destruktion dell'essere classico, dell'intera ontologia filosofica, realizzato con il superamento della fenomenologia (husserliana), non ha potuto evitare di dover porre una questione metodologica e gli assunti, pur muovendosi nell'ambito di una visione non più epistemologica, anzi addirittura antiepistemologica - la critica dell'essere tradizionale generale, universale ed astratto cos'è se non altro questo? -, non possono negare come la stessa rivelazione intuitiva sia un prodotto essa stessa di una costruzione dell'orizzonte tramite cui può compiersi l'analisi esistenziale dell'essere: certo, l'intento di Martin Heidegger (1889-1976) è di trovare oltre quest'analisi quella dimensione metafisica che fonda tutto e che semplicemente allusa e non pienamente rappresentabile a causa delle restrizioni imposte dal linguaggio all'apertura dell'essere nel mondo, il suo fiorire ed esteriorizzarsi fenomenicamente. Di qui, il legame stretto tramite l'ontologia del linguaggio tra la verità preservata nelle forme figurative (poesia) e la Verstehen ermeneutica che si dispiega esistenzialisticamente nella parola del Dasein, dell'uomo che ha intuizione di sè (cosciente) in quanto si trova nel mondo (finitudine) e di vivere in una trama di relazioni partecipative con altri Dasein simili a lui che comprende e che lo aiutano a non cedere alla solitudine ed alla morte, che ne hanno "cura".
Appare evidente che l'operazione heideggeriana - qui presa a modello di un'impostazione abbastanza tipica nella metafisica novecentesca - ha implicitamente accettato il presupposto aristotelico per cui la possibilità è sì una caratteristica ascrivibile alle qualità dell'essere, ma non è quella determinante, perché correlata al divenire della realtà sensibile e soprattutto irrappresentabile (vedasi l'idea aristotelica di infinito!) pena l'ammissione della contraddizione nella struttura profonda dell'essere, il che ovviamente non è tollerato né da Aristotele, né da gran parte del razionalismo antico e posteriore.
Certo, la proposta che si sta facendo presente sì la possibilità, ma non nei termini filosofici qui succintamente indicati. Ci si sta muovendo sul piano matematico e la possibilità assume l'aspetto della probabilità, un concetto dal valore semantico e filosofico addirittura antitetico a quello della possibilità esistenzialistica, che diventerà in varie forme un fattore indeterminabile e quasi emancipativo sul piano morale, perché opposto all'idea di sistema, di apparato, di istituzione culturale (nel senso più retrivo e conservatore) come dimostrerà la Nietzsche renaissance degli anni Settanta del secolo scorso. Dal punto di vista matematico, si può assegnare alla possibilità un valore, un numero, è possibile quantizzare il rischio correlato ad essa, si può rappresentare, seppur in via ipotetica e statistica - ciò significa relativismo e complessità, concetti aborriti da metafisici e teologici -, il margine entro cui questa stessa possibilità è ragionevolmente una certezza convincente e razionale.
Non si vuole proporre una dissertazione sui fondamenti filosofici, temi che occupano un dibattito culturale avvincenti per alcuni, ma parecchio complicato da esporre qui, per cui i si limita a rimanere su quel piano "fenomenico" ricusato dall'esistenzialismo e dalla metafisica del secolo scorso e collocando ogni considerazione sul piano di una teoria dei giochi, sia perché si rende accessibile i temi trattati, sia perché la stessa riflessione probabilistica nasce da un'apparente insignificante discussione sulle quote o sulle possibilità di vincere una partita a dadi. I primi ad interrogarsi su questi temi furono il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) ed il grande matematico portoghese Pierre de Fermat (1607-1665).
Qui si vuole proporre solo una differente modalità di ragionare filosoficamente, un piccolo accenno che può essere uno stimolo a curiosare, forse ad appassionarsi.
La natura imponderabile degli eventi ha sempre conferito alla conoscenza filosofica un limite spesso insuperabile, tra questi l'idea dell'indeterminabilità degli eventi (Destino o Fato) e quindi, il profilarsi di un'irrimediabile rinuncia nel provare ad anticipare, a prevedere l'accadimento, trasformare per così dire l'accaduto in avvenimento, cogliere l'evento nella sua dimensione in fieri. Questa urgenza previsionale diventa fondamentale se applicata nella determinazione delle possibilità che vengono a delinearsi durante un turno di gioco o nella composizione di una decisione che produca poi la mossa da effettuare. Una previsione che non ha alcun valore di certezza assoluta, ma che circoscrive i margini e l'ambito ipotetico entro cui poter massimizzare la mossa che si vuole compiere o la puntata della scommessa. Ecco allora, delinearsi il concetto di probabilità, che si definisce come il rapporto numerico tra i casi favorevoli - quelli che portano alla vincita - ed i casi possibili - l'insieme degli eventi e delle situazioni che possono accadere durante un turno di gioco -. Il valore numerico che definisce questa possibilità oscilla tra 1 (uno) e 0 (zero). Se il rapporto è uguale ad uno, allora la vincita è realizzata; se invece è uguale a zero, allora la vincita non è per nulla realizzabile o realizzata.
Tuttavia, poiché ci si muove entro questo intervallo numerico, molto piccolo come si può intuire, il valore della probabilità si determina all'interno di questo intervallo, cioè tra uno e zero, quantificando quei casi che si approssimano ad uno e quelli che si approssimano a zero. La direzione verso cui si sposta la probabilità stabilisce la situazione di gioco, vale a dire se è vincente oppure perdente. Poiché i numeri in gioco appartengono all'ordine dei decimali, è evidente che la probabilità così descritta reca in sè un grado più o meno elevato di incertezza: è su questo grado che si effettua la stima per le scommesse al botteghino o presso i centri scommessa - si tenga presente che una scommessa presso un centro che le raccoglie formula la possibilità con un meccanismo molto diverso, qui ci si sta limitando a dare un'idea generale ed un'opinione di concetto -. Per questa ragione l'analisi dei casi probabili finisce per essere un semplice conteggio dei casi favorevoli e di quelli possibili. I casi possibili possono essere determinati dal calcolo combinatorio e ciò è normale che sia così, perché i casi possibili possono descriversi come vere e proprie combinazioni e in riferimento alla situazione di gioco è possibile selezionare tra tutti questi casi quelli che permettono ad un giocatore di vincere. Tecnicamente queste combinazioni sono in genere numeri molto grandi, per cui il loro conteggio può effettuarsi scomponendo o estraendo da questi numeri una sequenza costante, che finisce per identificare la combinazione come il numero multiplo della sequenza trovata. Nello specifico ci si rivolge ai coefficienti binominiali, perché si sono dimostrati validi strumenti con cui semplificare problemi molto complicati come sono appunto quelli relativi la costruzione di una combinazione numerica.
Credo che sia facilmente intuibile che la possibilità descritta dalla matematica sia tutt'altro concetto rispetto alla verità "imponderata" dell'Esserci heideggeriano, in quanto riguarda la "qualità" dell'esistenza e non la "quantità" relativa all'accadere, all'ipotesi che qualcosa possa essere (esistere) senza che non sia ancora essere, senza che non sia né "mio", né "presente".



martedì 26 giugno 2018

Studi di fisica



Definire cosa sia lo studio della fisica non è un compito semplice, perché nel corso della storia della civiltà umana ha assunto diversi significati, spesso correlati alle tecniche di analisi epistemologiche che venivano via via elaborate. Ad una prima approssimazione è lo studio degli eventi naturali, ma è appunto un'approssimazione, tra l'altro generica, perché ci si dovrebbe chiedere “quali” eventi naturali. A secondo degli oggetti d'interesse, lo studio della fisica appare uno studio dei corpi celesti e dello spazio astrale – e per molti secoli la sua storia si è intrecciata inestricabilmente con l'osservazione astronomica -, può apparire lo studio delle forme meccaniche, cioè degli esseri in moto, ma può apparire anche lo studio delle forme viventi, cioè di una vera e propria zoologia. Più semplicemente, forse più realisticamente lo studio della fisica è una descrizione analitica delle condizioni empiriche per cui osserviamo o per cui abbiamo un certo tipo di esperienze degli oggetti della realtà sensibile e dei fenomeni naturali.
In tal senso, questa definizione apparentemente generica e poco esaustiva della curiosità che l'interrogativo di prima pone, è in realtà la forma intuitiva più adeguata con la quale iniziare a spiegare cosa sia la fisica, a cosa serva, quale siano gli scopi che ci si prefigge con il suo studio, soprattutto nell'era attuale dominata dal concetto di metodo sperimentale. Lo sperimentalismo, termine con il quale indichiamo più che altro un tipo di mentalità, descrive un approccio ontologico che non è comparabile all'antica filosofia occidentale, sia nei riguardi della filosofia pensiero greca, spesso ritenuta il modello per eccellenza dell'attuale razionalismo scientifico (valutazione parzialmente vera), sia rispetto alla meccanica della teologia cattolica, in cui dominano verità predeterminate che hanno valore totalizzante ed assoluto sulla configurazione del sapere medesimo. Nel caso della scienza attuale questa definizione del sapere è il prodotto sintetico e derivato di una sedimentazione procedurale, il risultato di un continuo passaggio attraverso precisi step operativi. Un passaggio che muove dall'osservazione e dall'esperienza del fenomeno naturale fino ad arrivare alla formulazione di leggi fisiche, che ne spieghino il comportamento empirico e gli effetti: tutto questo oggi si muove attorno alle formulazioni matematiche, che sono diventate il modo più coerente attraverso cui rappresentare le diverse teorie fisiche con cui si spiegano gli eventi dell'Universo.
Tradizionalmente lo studio della fisica viene differenziato nel seguente modo:

  • Meccanica: lo studio del movimento e degli oggetti in moto.
  • Acustica: lo studio dei fenomeni sonori.
  • Termologia: lo studio dei fenomeni termici.
  • Ottica: lo studio della luce e dei vari effetti che derivano dalla propagazione della luce nello spazio.
  • Elettromagnetismo: lo studio dei fenomeni elettrici e di quelli magnetici.
  • Fisica atomica e subatomica: lo studio dell'atomo e del suo nucleo, ma anche lo studio di tutte le particelle discrete che costituiscono la struttura fondamentale della materia dell'Universo.

La divisione in questa parti – ritrovabile in Ugo Amaldi, Il mondo della fisica, 1991 Zanichelli Editore S.p.A., Bologna – ha solo un valore didattico, in quanto nella descrizione di un fenomeno naturale intercorrono contemporaneamente diversi ambiti della fisica teorica. Inoltre, il fatto che si divida l'aspetto teorico dalla pratica non significa che nelle sue appliazioni la fisica utilizzi princîpi differenti. Per quanto è possibile, nell'esporre questi miei studi proverò a tenere in considerazione questa stretta correlazione.


Sull'Eros e sulla sua «deriva» pornografica: alcune note



La dimensione erotica dell'essere ha costituito un momento importante, addirittura decisiva, nella riflessione filosofica. Essa ha rappresentato in molti la rappresentazione di una forza cosmica con la quale l'uomo arcaico si spiegava gli accadimenti naturali o la molteplicazione degli esseri viventi.
Nel corso dei millenni ha avuto diversi significati, dall'essere semplicemente la personificazione di una divinità originaria da cui derivano gli esseri viventi (cfr. Esiodo) alla definizione causale del movimento in Platone, quest'ultimo appunto considerato dal filosofo ateniese come un effetto di un'attrazione erotica tra gli esseri viventi. La prima formulazione razionale di una filosofia fondata sul desiderio, prima cioè che comparissero alcuni trattati teologici medievali in cui la vita del cosmo è intrinsecamente avvinta da un nostalgico desiderio verso il Creatore. A partire dall'epoca medievale infatti, l'antico significato di eros affievolisce la sua natura sensualistica e diviene un'astratta "contemplazione" amorosa su cui può definirsi una struttura provvidenzialistica retta dalla Misericordia: eros assume il significato di agape, la natura di un amore basato non sulla pacificazione dei sensi, ma nell'esaltazione entusiastica (simile nella dinamica al fanatismo) accesa dalla fede religiosa. Una prospettiva che dominerà la cultura europea per tutto il Medioevo e che ritroviamo nella poesia stilnovistica, nella descrizione del Paradiso in Dante Alighieri (cfr. Divina Commedia) o nella celebrazione petrarchesca, quest'ultima tra l'altro in forma autonoma dal contesto religioso ed incentrata sui temi della bellezza e della sensualità profana.
Il ritorno al paganesimo dell'epoca umanistico-rinascimentale si combina ambiguamente con il sentimento religioso, a causa del neoplatonismo imposto dall'ambiente fiorentino attraverso le visioni di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella. L'amore torna ad avere una natura panteistica, ma che convive con un paesaggio concettuale informato interamente dalla scelta culturale della trascendenza di forze ed entità assunte in modo personale. Dell'antica visione arcaica rimane solo la suggestiva natura cosmica dell'amore, una forza che ha il potere di pervadere totalmente la natura agendo secondo una forma di razionalità "magica": una presenza che si esprime enigmaticamente. Ciò influenza la prospettiva fisica che vede la partecipazione dell'amore nella costituzione delle forze della natura. Quest'ultime s'identificheranno con il principio creatore, in ragione di una condivisione ineffabile di un'intima affinità.
Dobbiamo attendere tuttavia, l'epoca moderna per assistere ad una reazione a questa concezione. Non c'è più il generico e letterario ritorno al paganesimo del Quattrocento e Cinquecento, ma un più deciso ritorno in senso “conservatore” e tradizionalista all'aristotelismo, che paradossalmente crea i presupposti per una visione più progredita dell'amore. Si ritorna infatti, all'idea edonistica ed utilitaristica aristotelica in base alla quale lo amore è una pura ricerca del piacere, fondata sul razionalismo di una criteriologia etica utilitaristica. Solo negli ambienti ebraici ed in quelli più liberali questo razionalismo utilitaristico si evolve in una metafisica vera e propria dell'amore, in cui l'eros descrive il punto di congiunzione tra le due dimensioni opposte dell'esistenza, il finito e l'infinito. Spinoza in tal senso, riformula la tematica erotica nell'ambito di un recupero dell'etica stoica, in cui la ricerca etica è incentrata sulla virtù intesa come una razionalistica liberazione dalle passioni. Un intellettualismo etico quello spinoziano – che ritroveremo in parte nell'etica kantiana - che mira a definire i principi universali ed unitari sia della condotta individuale sia di quella sociale. Il bene comune diventerà lo scopo dell'azione etica. Tuttavia, non sfuggirà alla formulazione spinoziana il carattere seduttivo della morte.
Finora, il legame tra la dimensione erotica e la morte non era stato esplicitamente teorizzato. La fuga della etica spinoziana verso un sistema intellettualistico era motivata dall'evitare le disastrose chimere a cui l'uomo poteva giungere seguendo una passionalità eccessiva e sfrenata. Il godimento erotico inizierà a manifestare la cifra pericolosa della fatalità mortale. Un tema che la poesia illuministica rivelerà chiaramente in Giacomo Leopardi, ma soprattutto nella cultura letteraria tedesca sia in epoca romantica che in seguito, almeno fino alla opera di Thomas Mann. L'attrazione fatale della morte che scaturisce dall'amore è il controaltare all'idealistica rappresentazione della vitalità spontanea, ma ingenua della vita. La morte svela l'intima natura dell'esistenza più vicina alla dimensione della volontà, anziché della ragione. Sarà la filosofia di Arthur Schopenhauer che trarrà da questo complessivo ribaltamento dell'intellettualismo etico tutte le conseguenze drammatiche di un irriducibile ed inconsolabile pessimismo. La spiegazione schopenhaueriana definirà con Volontà non più una funzione ed espressione dell'Io soggettivo, ma la dimensione incommensurabile di un'azione che accomuna tutti gli esseri viventi nel loro vivere naturale: la tensione erotica assume il carattere di una lotta biologica tra le specie, l'atto di affermazione del proprio patrimonio genetico, il momento esclusivo con cui si garantisce la sopravvivenza della propria genia.
Quest'abbandono della prospettiva spiritualistica sancirà il momento di svolta in senso biologico dell'eros e di tutto ciò che è correlato alla dimensione erotica, compreso l'immaginario erotico. A riguardo, la filosofia di Schopenhauer rappresenta il punto di congiunzione tra la dimensione mefistotelica della cultura romantica e la nuova formulazione del rapporto eros-Thanatos in chiave nevrotica da parte della psicanalisi freudiana. Una correlazione che restituisce alla dimensione erotica dell'essere nuovamente una centralità nell riflessione dello essere umano, soprattutto dopo la svolta sociologica ed antropologica della filosofia novecentesca, ma che ha creato anche i presupposti teorici di un materialismo metafisico (cfr. Georges Bataille) su cui si è appoggiato il pessimismo inquieto del nichilismo contemporaneo, che ha sfruttato la costruzione narrativa freudiana non per descrivere ed eventualmente risolvere le paranoie collegate alla sessualità, ma ne ha fatto uno strumento di lotta ideologica alla dominazione “borghese” da parte del potere delle fantasie erotiche pubbliche o private di un cittadino o di una nazione.
In tal senso, la chiave biologica di una certa rappresentazione dell'eros contemporaneo (cfr. Pornografia) ha tutte le caratteristiche di quel contrasto ideologico e culturale suscitato dalla liberazione dei costumi e dei rapporti tra i generi che l'erotismo tradizionale non può più esibire. Tuttavia, questa carica demistificatrice insito nella dimensione erotica appare fondamentale ed emancipatrice, soprattutto dopo il Post-modernismo e la fine della tradizionale narrazione storicistica. Il ritorno ad un lessico organicistico della sessualità auspicato da alcuni come una nuova forma di materialismo con funzionalità critiche, appare limitante e con una capacità d'azione goffa ed appesantita, perché crede di ricostruire una «grammatica» erotica muovendo dai fondamenti biologici della sessualità, dimenticando che ad oggi questa autorappresentazione della propria sessualità viene realizzata dall'individuo a partire da un'ontologia che si definisce se stessa ed i propri contenuti, compresi i “bisogni” erotici individuali (cfr. Le forme trasgressive di sessualità: masochismo, sadismo, bondage et similia), proprio sulla modalità narrativa di formazione dell'immaginario medesimo. Una dimensione narrativa che lo attuale realtà della pornografia mondiale ha ampiamente assimilato, più e meglio del cinema erotico, pur se in una gestione mercificata dell'eros: se non c'è un'intenzionalità della pornografia ad evitare la mercificazione del prodotto erotico, una pretesa opinabile perché in altri ambiti la mercificazione è un fenomeno che si può ormai considerare trasversale e diffuso, tuttavia a differenza della più “addomesticata” rappresentazione del cinema erotico la pornografia riesce a dissacrare proprio quei simulacri prodotti dall'immaginario erotico, pur sfruttandone spudoratamente e spesso ingenuamente i feticci autorappresentativi del desiderio.
Angelo Romeo (Agrigento, 21 aprile 1976)
(Porto Empedocle, 20 giugno 2018)



Qualche parola sul cinema che mi è piaciuto



Scrivere una critica cinematografica è impegnativo, soprattutto per chi come me non lo fa di mestiere e si limita ad essere un semplice spettatore più o meno informato. Tuttavia, nel tempo i film che ho assistito, non molti, ma per quanto pochi credo qualitativamente rilevanti, hanno contribuito in parte o in toto a definire il mio paesaggio concettuale, a formare il mio spirito individuale, la mia sensibilità su alcuni temi e la più assoluta indifferenza.
Fare una retrospettiva completa di quel che ho visto nell'arco di questi anni mi è praticamente impossibile, anche perché dovrei andare ritrovare alcuni di questi film e ad oggi non sono più in grado di stabilire quali siano stati e sinceramente la lista che prevedo di comporre è più che altro una mappa concettuale, che vuole trovare spunto dalla visione del film citato o considerato. In una certa maniera, vorrei riprodurre una lista che per finalità e per il tipo di argomentazione che presenta ricorda le classiche rassegne cinematografiche da oratorio o da festival estivi. Per cui le ambizioni di questa serie di scritti sono di basso profilo. Scritti che non hanno la presunzione di aggiungere chissà quali nuove chiavi interpretative, ma solo quello di aggiungere il mio giudizio o la mia personale valutazione al film in questione. Insomma, una specie di esercizio di critica, nulla più.
L'ordine è molto casuale e spesso determinato dall'occasionalità e dall'estemporaneità dello scritto.



La letteratura che piace a me



Le mie letture preferite durante gli anni del liceo erano su tutte i classici della nostra letteratura nazionale e i racconti dell'orrore, quella letteratura che genericamente è stata definita «gothic stories». Ora, nonostante la incipiente senilità, oltre che un rassegnante rimbecillimento – naturale per chi ha ormai prestazioni da “usato a prezzi stracciati” - ed un affievolirsi di un'antica passione, sempre in bilico con il sopraggiungerne di altre più pressanti, tuttosommato non ho perso l'interesse che coltivavo un tempo, anche se adesso mi approccio alla lettura di un'opera solo se mi piace e soprattutto se la «capisco». Il tempo delle letture obbligate di quelle che si facevano per lo più per rendere conto a qualcuno (professori in primis), quelle della formazione di un sapere professionistico o quelle dei cenacoli letterari è ormai tramontato, anche perché le compio solo per il gusto di farle, per il piacere di specchiarmi su questo bagaglio di informazioni meno stolto di quanto potessi esserlo qualche attimo prima, per cui tanto in tanto mi accade di riscoprirne molte di queste “letture”. Una riscoperta che è anche la mia excusatio, ma con la quale colmo le eventuali lacune giovanili che nel tempo si sono formate, preso come ero nel rintracciare nelle “disordinate” letture un filo comune, un tema che si stagliasse in modo assoluto, come verità rivelata e guida dello spirito umano.
Oggi, non ho guide spirituali, né ne cerco (anche se di tanto in tanto ammetto un indicibile bisogno) e ciò che leggo e ciò che scrivo ha la natura dello sperimentatore, dell'esploratore anziché del ricercatore, di un uomo senza scopi particolari tranne quelli ovviamente intrinseci all'esistenza stessa e che si avventura laddove un tempo sognava o sperava di avventurarsi, ma che per una ragione o per un'altra ha procrastinato il viaggio e l'avventura medesima. A ripensarmi, alcuni ricordi mi riportano ad un ometto apparentemente vitale, ma soprattutto voglioso – a tratti anche svogliato - di conoscere – ergo leggere – storie, interventi ed opinioni non necessariamente allineate al pensiero diffuso, da cui sono state prodotte varie – ma non moltissime alla fine – bizzarie, rubricabili forse come un'indisciplinata – lo ero abbastanza, come lo sono adesso tuttavia - vivacità intellettuale.
Ecco qualche scheda o commento di ciò che mi è piaciuto in passato o che mi piace adesso.

Ps.: la lista non è né completa, né esaustiva, né già formulata, ma è un working in progress in linea con la ricerca/riscoperta a cui alludevo, per cui si consideri tutto ciò uno “spazio”, un segmento più o meno esteso in cui concentrare una tipologia di contenuti, quelli che ritengo validi e degni di farsi conoscere.


  • Poesia
  1. X Agosto di Giovanni Pascoli

  • Prosa

martedì 5 giugno 2018

Su Complessità e Possibilità (prolegomeni)



L'immagine iconica dell'intero XX secolo nell'ambito scientifico è certamente l'«atomo planetario» di Rutherford-Bohr, tuttavia per quanto potentemente impressa nel nostro immaginario culturale la scoperta della costituzione particellare della materia è ben poca cosa allo sconvolgimento che il tema della «complessità» ha prodotto nei nostri sistemi filosofici. La conferma della natura corpuscolare della materia e con essa dell'intera realtà sensibile non è così “terremotante” quanto invece la fine del determinismo metafisico-teologico. Un vero colpo al pensiero tradizionale della stessa scienza, che in un atto di presunzione illuministica ha creduto fermamente di poter avere e produrre un controllo (“magia”) sulla natura sol perché avendone scoperto le leggi poteva formulare paradigmi che ne prevedessero il comportamento, risolvendo l'oscurità e l'ignoto solo in una banale “ignoranza” e stoltezza.
Insomma, fino a quando la tecnica rivelava il suo potere coercitivo e definitorio su una dimensione della realtà e fino a quando la misurazione dei fenomeni naturali era possibile – proprio nel gergo empiristico della Rivoluzione scientifica impostasi con il newtonianesimo di comprovazione e raffronto –, allora la crisi intellettuale e culturale della filosofia tradizionale (metafisica) verso la fine del XIX secolo era paragonabile ad un semplice “raffreddore”, all'incuranza di un indolente malato che si mostrava riottoso ad assumere lo sciroppo o la pillola prescritta. Ecco, la scoperta dell'esistenza dell'atomo non era la rivoluzione preconizzata fin dal Seicento nelle cerchie delle menti più vivide dell'Europa, ma il placebo con il quale “drogare” i sintomi di una malattia ritenuta tuttosommato lieve. Per molto tempo non ci si accorse di questo significato e si pensò – meglio si credette! - che la svolta della nostra attuale fase di civiltà fosse determinata da questo gruppetto di particelle che si muovevano al pari dei pianeti del cielo astrale e su queste premesse si era convinti di una sorta di «continuità» concettuale tra i nuovi fenomeni della fisica sperimentale ed i sistemi classici della civiltà umana, europea in particolare. Tutto questo fino alla comparsa di un altro significato di «possibilità».
La categoria del possibile è quella meno ricordata, perché la stessa manualistica storiografica insiste su quella che fin dall'epoca antica è stata considerata la categoria più fondamentale di tutte, quella dell'essere, per cui tutto il sistema di conoscenze e di esperienze codificate ruotava e si fondava su di essa. Così almeno fino al Settecento, quando con la filosofia kantiana la filosofia metafisica inizia ad elaborare un sistema di sapere che tenga conto degli sviluppi possibili dell'essere ricollocato nuovamente dentro il piano dei fenomeni. Tuttavia, il kantismo non potè emanciparsi totalmente dal determinismo, anzi a partire della Critica della ragion pura la filosofia inizia a dare a questo determinismo un nuovo e più stringente significato – soprattutto tramite la narrazione unificante della memoria -, tanto che il poter-essere di una realtà viene a correlarsi con il suo individualismo logico, per cui l'antico assolutismo parmenideo si ritrova recuperato dal rinverdire del sillogismo aristotelico creando le premesse per le quali ciò che ha un'esistenza ed un'identità logica è una realtà che appartiene alla possibilità. Viceversa, ciò che è escluso da questa collocazione è ricacciato nella dimensione dell'impossibile e quindi del nulla assoluto. Un esito che si scontrerà con i paradossi di una logica sillogistica, ma che rivela inequivocabilmente il genuflettersi delle sue procedure agli automatismi equivoci e a volte perversi della dialettica (cfr. Lewis Carroll).
L'altro significato del possibile verrà a definirsi non senza fatica al di fuori dal contesto della filosofia tradizionale e laddove campeggiava un pregiudizio disciplinare, in parte giustificato, in parte immotivato. Questo significato si delinea nei termini di «probabilità» e riscontrabile attraverso tecniche statistiche e valutazioni comparative. Un modo di procedere epistemologico già frequentato dal pensiero europeo, basti considerare il sistema aristotelico della proporzione logica, tuttavia ciò che è nuovo non è solo la strumentazione – ovviamente -, ma soprattutto la sua stessa estensione al piano ontologico della realtà, dalla quale fino a questo momento era stata inibita. L'essere parmenideo si snatura ed inizia a guardarsi non più come un cerchio immutabile, ma una forma mutevole, cioè non più la figura rigida euclidea, come rivelerà i nascenti studi topologici e perciò stesso “relativa”, “probabile” sia sul piano metodologico, sia sul piano ontologico. Un fatto assolutamente sconvolgente, tanto da non essere stato ancora pienamente assimilato da una parte della nostra cultura europea – cattolica in particolare .
Il complicarsi della nostra prospettiva e della visione dei fondamenti della realtà è il tratto decisivo del più recente discorso scientifico – un tema che era già comparso nella filosofia medievale con Nicola Cusano -, tuttavia permane per secoli che questa complessità non fosse altro che l'estrinsecazione multiforme e varia di una realtà che è in sé profondamente unitaria, che persista l'antica concezione greca dell'armonia universale e quindi che gli stessi eventi accadono secondo un equilibrio ed un ordine determinabili e fissabili immutabilmente. È l'assiomatica della fisica classica, che costruisce l'immagine del mondo e dell'Universo ancora attraverso il supporto della metafisica e della sua meccanica causale. In tal senso, l'inconciliabilità che i filosofi metafisici (neokantiani) rivelano con le nuove formulazioni scientifiche indica perfettamente come sul piano teorico il paesaggio concettuale è mutato e con esso anche l'idea che la varietà degli eventi non è dipesa dal mutamento del principio unico, ma sia effetto di una pluralità principiale (politeismo), oppure – ancor meglio - la “deformazione” prospettica degli stessi sistemi di misurazione e di controllo. È l'idea che si imporrà con la Teoria della relatività di Albert Einstein e ciò si traduce sul piano culturale nell'affermazione che complicazione equivale complessità e quindi intrinseca indeterminatezza dei fondamenti reali. Aberrante, dal punto di vista del pensiero che per secoli si è autorappresentato limitato e in costante contrapposizione con la realtà assoluta del divino, l'unica a cui poteva demandarsi tutte quelle qualità e capacità “negative” che trasgrediscono il potere assertivo, specificante e deterministico della mente umana.
La nuova immagine della materia è sconvolgente, perché la possibilità non è più una categoria finalistica – nella metafisica del Dasein di Martin Heidegger finirà per assumere i caratteri di un progetto precario certo, ma con cui l'esistenza incerta del Dasein ha ancora modo di ragionare sulla vita in termini finalistici, lasciando manifestare nella vita dell'uomo l'antico tema del Destino -, ma il territorio in cui prevale l'incertezza, l'indeterminatezza e la assenza di scopo. La misura dunque, dell'aristotelica “potenzialità” degli enti – nella Metafisica già estromessa dalla rappresentazione causalistica del razionalismo metafisico – non può che prodursi in uno scenario fatto di ipotesi e di congetture, con il rischio permanente dell'errore e dell'ingannevolezza creata appunto dai nostri stessi sistemi di conoscenza – l'illusione cartesiana tramonterà definitivamente, così come lo stratagemma storicistico empirista sull'esistenza di “criteri” di garanzia come Dio o la Storia -, uno scenario cioè in cui la valutazione e l'eventuale giudizio che possono prodursi è soltanto di tipo statistico.