Scrive
Joseph Ratzinger in La
verità cattolica,
piccolo saggio comparso nel 2000 nel numero di febbraio di Micromega,
nel numero in cui si è affrontato il rapporto tra religione e
sapere, «nel Cristianesimo, la razionalità è diventata religione e
non più il suo avversario» (cit., p. 46). L'affermazione
dell'allora cardinale cattolico, oggi papa emerito Benedetto XVI,
fissa in un preciso momento della storia culturale dell'occidente
europeo, che è quello in cui la teologia cattolica smette di essere
apologia della fede e diventa essa stesso la disciplina attraverso
cui l'uomo possa formulare un sapere compiuto e soprattutto valido,
in evidente competizione con l'intera tradizione pagana. In
realtà, i motivi che animano la teologia cattolica sono quelli di
presentare l'intero movimento cristiano come autentico prosecutore di
una certa cultura pagana ed il suo innegabile compimento. E così
viene a formularsi un paradigma storiografico in cui l'età tardo
antica finisce per essere lo scenario, più o meno comprimario,
dell'affermazione culturale del Cristianesimo. Un modello che si
ripete quasi costantemente nella storia europea, tanto che influisce
su alcuni significati o su certe autorappresentazioni dell'essere
europeo, che possono attribuirsi all'idea di “radicalità” della
stessa Europa nella koiné
cattolica altomedievale.
Oggi,
se raffrontato all'enorme distanza storica rispetto all'epoca
medievale, all'età tardo antica e soprattutto alle nuove sfide
schiuse dallo sviluppo tecnologico, un'affermazione come quella di
Benedetto XVI sembra quasi irreale e tuttavia, può dirsi
filosoficamente ancora valida, soprattutto per il mondo cattolico,
dopo l'ammenda intellettuale espressa e poi compiuta in Terra Santa
da papa Giovanni Paolo II, nel suo discorso del 30 ottobre 1992, in
merito alla condanna inflitta nel Seicento al matematico e
scienziato-inventore Galilei Galileo (22 giugno 1633): la sentenza in
realtà, prima ancora della condanna di abiura, questa sarà
automaticamente successiva come conseguenza degli esiti processuali,
non fece altro che sancire la sconfitta culturale di Galileo, tanto
che il documento dichiara il lavoro dello scienziato «gravemente
sospettato di eresia», di lì l'inscrizione nell'Indice dei libri
proibiti delle sue opere è conseguente e con essa la stessa
umiliante vanificazione del lavoro presentato. Gran polverone
mediatico l'intervento del papa polacco, ma che realizzò una
delicata operazione politico-culturale, di cui ancora oggi la Chiesa
può usufruire degli indubbi vantaggi che possono derivarsi:
l'intento non è la mera riabilitazione di Galileo da parte della
Chiesa, che per chi scrive è indifferente visto che a partire da
quella vicenda le scelte culturali e le vie intraprese sia dalla
Chiesa sia dal mondo intellettuale e scientifico non potevano che
essere le più distanti ed opposte, ma era quella di offrire
nuovamente al magistero papale la possibilità di poter intervenire
con autorevolezza e dignità nei dibattiti scientifici, quegli stessi
dibattiti da cui la Chiesa cattolica si era liberamente autoesclusa;
a tal riguardo, è mia personale opinione che questo successo
politico di Giovanni Paolo II sia a lungo andare un tragico
boomerang, di cui già in parte vediamo i disastri (vedasi cosa
succede ogni volta si offronti un tema etico come la vicenda della
legge 40 o dell'attuale biotestamento), perché lascia intendere che
sia stato consumato un errore storico e che l'aver riconosciuto la
colpa o la responsabilità del torto rimetta la Chiesa e il mondo
cattolico sulla medesima carreggiata di tutti, sorvolando sul fatto
che la vicenda galileiana non è stato un episodio, ma una vicenda che
ha semmai confermato precise scelte culturali, di cui forse la Chiesa
contemporanea rifiuta di portare avanti.
L'occasione
che mi offre motivo di riflessione è il numero di gennaio 2018 di
“Luoghi dell'infinito”, interamente dedicato ai numeri.
Ovviamente, il discorso sui numeri non è disgiunto da quello più
generale della scienza, tuttavia la stessa presentazione fattane
dalla rivista cattolica ci mette in relazione con un concetto di
numero che ben si accorda con la lunga tradizione della Numerologia,
che è patrimonio condiviso da ebraismo e cattolicesimo e in una
visione ecumenica con molti altri sistemi religiosi. Il taglio
storiografico che la rivista ha scelto non riesce interamente ad
eludere il fatto che il sistema dei numeri di cui fa oggetto non è
lo stesso sistema che caratterizza l'attuale teoria dei numeri.
Anzitutto, sulla natura degli oggetti matematici, che
indifferentemente oscilla tra forme della quantità e determinazioni
simboliche, uno statuto chiaramente fissato dall'esordio dello
scritto di Franco Cardini. Scrive il noto storico fiorentino,
«L'enumerare,
il contare, il mettere in ordine e codificare tale ordine sono tra le
attività più antiche e meglio documentate di tutta la storia del
genere umano. Il sistema dei segni si traduce in linguaggio simbolico
l'ordine numerico e la relativa sequenza figura, si può dire in
tutte le culture, alla base del rapporto fra conoscenza qualitativa e
ordinamento quantitativo del mondo».
(Franco
Cardini, La
matematica del divino
in Luoghi dell'infinito, anno XXII, n.224, gennaio 2018, Milano)
Ora,
se è consueto accettare storiograficamente quest'idea di
intermediazione del numero tra due differenti ordini dello essere,
cioè la dimensione quantitativa (rapporto) attestata dall'empiria
dei sensi e la configurazione in intervalli spaziali della qualità,
ciò non vuol dire che nella teoria attuale dei numeri la natura
degli oggetti matematici sia definita ancora in questi termini. In
effetti, ciò che conta in questa prospettiva è la possibilità di
definire con il numero una realtà simbolica. Al riguardo, lo storico
fiorentino è molto chiaro, nella tradizione numerologica dei sistemi
religiosi e culturali considerati il numero assume questa natura e
finisce per intrecciare il proprio significato con il dominio
semantico della tradizione culturale entro cui viene a collocarsi, il
che spiega come mai il numero-simbolo diventa esso stesso veicolo,
spesso in una interrelazione ideale e di significato, del patrimonio
culturale, religioso e immaginifico della letteratura che lo
utilizza.
Ciò
accade ed appare inevitabile, proprio sul piano delle categorie
assolute usate dalla storiografia, perché il numero è inteso non
come una realtà autonoma, ma come una parte pienamente inscritta
entro un sistema linguistico, mostrando ad un tempo un preciso legame
di dipendenza nel costante riferimento del medesimo bacino di
significati, ma anche una certa “libertà” determinatagli dai
procedimenti astrattivi a cui è sottoposto. Quest'ambigua
dimensionalità del numero è il motivo per cui di volta in volta il
giudizio sulla funzione e sul ruolo del numero è anch'esso ondivago,
a volte positivo, a volte negativo, dipende dal sistema culturale di
riferimento, ma ciò indica soprattutto come il dibattito
numerologico si attesti sterilmente su una riduzione metafisica del
numero, proprio attraverso l'intervento della forma simbolica in
genere. Da qui, l'associazione che “metafisica” e “scienza del
numero” siano in fondo attività simili tra loro che insistono
entrambe sul medesimo essere e quindi, sono diverse
“specializzazioni”, per così dire delle capacità intellettive
dell'uomo. Ciò appare lecito in molti popoli arcaici, in cui non è
sussistita alcuna differenziazione tra il sistema alfabetico e il
sistema aritmetico dei numeri, per cui il ricorso a forme di
notazione simili può considerarsi un'allusione all'interdipendenza
dei due sistemi e quindi dei due ordini di realtà. Tuttavia,
affermare questo è volutamente troppo semplicistico, anche se è
storicamente certo che alcuni popoli non avevano uno specifico
sistema notazionale e quindi, alcune lettere dell'alfabeto vengono a
descrivere di volta in volta le unità, le decine, le centinaia, le
migliaia e via dicendo.
In
ogni caso, la prospettiva simbolica autorizza una sovrapposizione
linguistica tra il numero come forma sensibile e la immagine
complessa derivata dal simbolo, trascurando o mettendo in disparte la
natura funzionale della sua operatività. Un'antica visione che non
trova più riscontro nella teoria attuale, in cui i numeri sono
considerati essenzialmente degli enti del pensiero e non più degli
esseri determinati, reali e concreti come nel pensiero pitagorico.
Nella matematica greca infatti, il sistema dei numeri è a sua volta
la configurazione reale e concreta dell'Universo, in quanto non solo
le proprietà che i numeri esibiscono sono considerate proprietà
individualizzanti l'essere numerico, ma sono anche le forme precise
di una configurazione spaziale, come mostra il Repubblica
di Platone. È proprio l'antico filosofo greco a fissare in questa
funzione di intermediazione tra l'astrazione e lo stato fondazionale
della realtà stessa la natura del numero, con il tema delle
Idee-Numero: Platone parlerà di Uno
e di Diade
indeterminata
come i principi ideal-aritmetico della realtà, facendo leva appunto
sull'ambiguità intrinseca in alcune caratteristiche del numero uno e
due. Ora, se ciò poteva sconvolgere la teoria matematica greca,
tanto che Aristotele nella Metafisica
disserta polemicamente sulle scoperte (cfr. frazionamento) e sugli
esiti dell'aritmetizzazione (il principio filosofico per cui “Tutto
è numero” e che verrà ironicamente presupposto dai sofisti
ateniesi), la soluzione platonica tuttavia, cerca di padroneggiare
un'ambiguità teorica derivata da una scadente comprensione delle
strutture aritmetiche, limitate alle quattro elementari operazioni
algebriche e che rimandavano allo aspetto finanziario e commerciale
dell'algebra. Ciò è sufficiente per considerare lo studio della
matematica utile, ma non “fondamentale” per la conoscenza
metafisica della realtà.
Un
atteggiamento quest'ultimo che si è perdurato nel corso della storia
europea e che resisterà almeno fino agli albori dell'era
contemporanea. Nel frattempo, ci sarà il cambio della notazione
numerica con l'introduzione dei numeri arabi, a cui si aggiunge
l'introduzione decisiva del numero zero, una riforma del calcolo
algebrico nel Duecento e uno studio delle successioni, che
preannuncia la teoria delle serie infinite, l'invenzione della
struttura algoritmica e un differente sistema di rappresentazione
geometrica che contribuisce nello studio delle coniche e via dicendo.
Insomma, mentre la filosofia si chiude gelosamente nei suoi privilegi
disciplinari, considerando la matematica solo un valido supporto alla
conoscenza (un esempio in tal senso è la filosofia di Niccolò
Cusano), la base teorica della matematica inizia ad estendersi fino
alla crisi recente intorno alla metà del XIX secolo.
È
a questo punto che si delinea un'imprevista situazione teorica, ben
espressa dal discorso di Giovanni Paolo II, quando mette come propria
premessa argomentativa l'improvvisa scoperta della complessità del
mondo. Rispetto al passato e in una certa misura, rispetto allo
stesso sapere teologico il mondo e l'Universo è stato percepito come
una macchina meno semplice di quel che si potesse supporre, ma in
altre epoche culturali ciò non creava difficoltà epistemologiche,
perché la scienza riusciva bene o male a formulare modelli
comprensibili che spiegavano con sufficiente chiarezza le dinamiche
dei fenomeni naturali. Una spiegazione che tendeva a volte alla
semplificazione, a volte alla complessità, ma in ogni caso con un
sistema di proposizioni che stavano in discreto accordo con le
apparenze naturali. Una situazione già presente alla epoca di
Galileo e che si è mantenuta fino al XIX secolo, quando
improvvisamente lo sviluppo teorico della scienza si muove, così
sembra, su territori concettuali talmente astratti che non hanno una
diretta correlazione con il paesaggio fisico. Pertanto, la
complessità del mondo rimane un dato inoppugnabile, in quanto il
sapere che riesce a padroneggiarlo è un sapere specializzato, da cui
la conoscenza ordinaria è esclusa. Quindi, non è il mondo che si è
reso più complesso, ma l'immagine scientifica che ne possediamo.
In
tal senso, l'immagine numerologica dei simboli è quasi una forma
compensatoria che ci rassicura (falsamente) sulla presa effettiva del
mondo da parte dell'uomo. Ed in fondo, appare essere questo il
crinale entro cui si muove il numero di “Luoghi dell'infinito” di
gennaio, rassicurando quasi il lettore sul fatto che un sapere
assoluto è ancora possibile e che è quello dettato dal sentimento
religioso.
In
tal senso, il taglio storiografico aiuta certamente, ma non risolve
le profonde divergenze determinate da scelte culturali compiute
nell'arco di questi secoli, in piena autonomia e secondo un quadro
teologico di riferimento precedente a.e., alla stessa vicenda
galileiana, ecco che allora, il ricongiungimento della cultura
cattolica con il percorso storico della scienza non crea a sua volta
le condizioni di una dialettica epistemologica autenticamente
produttiva. Anzi.
Torniamo
infatti, sulle dinamiche storiche che fanno da premessa al citato
discorso di papa Giovanni Paolo II. La cultura scientifica europea
inizia a delinearsi in riferimento agli sviluppi tecnici-teorici del
XIX secolo. Durante questo periodo, il confronto del mondo cattolico
con la cultura scientifica è impostato sull'autoesclusione dei
cattolici, in parte come effetto storico della controriforma
tridentina, in parte per la dura reazione antimodernista di papa Pio
IX; e questo scenario non si delinea certamente a causa della vicenda
galileiana, già assimilata nei termini definiti proprio dalla Chiesa
cattolica, cioè di una scomunica e di un'imposta abiura. Prima dei
recenti sviluppi tecnologico-scientifici non si poneva una questione
galileiana, nonostante fosse accettato sul piano culturale il
paradigma eliocentrico, e il rapporto con la scienza può continuare
ad intendersi secondo le direzioni tradizionali. Ciò viene a
complicarsi e a mutarsi con gli studi della fisica sperimentale su
ambiti diversi da quello astronomico, ma che finirà per influenzare
la stessa visione astronomica. Il tema che sconvolge l'armonico
procedere simbiotico di scienza-fede non è l'immagine del cosmo (del
resto non lo era stato neanche ai tempi della vicenda galileiana), ma
la definizione e formulazione di un sapere che diventava de facto
incerto e relativo. La fisica sperimentale riformula i tradizionali
concetti dell'epistemologia e con essa abbatte una serie di stabili
convinzioni che hanno dominato il paesaggio filosofico europeo da
millenni. In questo scenario “rivoluzionario” si colloca la
teoria della relatività di Albert Einstein che sancisce in
definitiva la relatività delle conoscenze scientifiche. In tal
senso, la complessità a cui si fa riferimento nel discorso di
Giovanni Paolo II e implicitamente negli intervento della rivista è
in buona parte quest'incertezza epistemologica che in altre epoche
storiche non era così drammatica.
Per
capirci, nel suo scritto, Silvano Tagliagambe fa riferimento alla
crisi e allo sviluppo della logica simbolica. Questo è un uon
esempio di ciò che sta accadendo nella seconda metà del XIX secolo,
ma anche ciò che non è accettabile sul piano di una disamina
culturale. Tagliagambe ricorda che all'alba della fisica quantistica
il sistema della logica entra in crisi e che questa crisi della logia
viene risolta tramite una riconfigurazione del compito e della natura
della logica ricorrendo alla semantica e ai domini lessicali: la
precisione logica e la stessa certezza dei contenuti logici vengono
assegnate al potere della lingua di autodeterminare queste verità,
per cui dalla selva di lessemi che vengono composti negli asserti
semplici può derivarsi la verità in senso assoluto sul mondo e
sull'essere, che rimangono l'oggetto precipuo della filosofia. Di
qui, la necessità teorica di analizzare e distinguere le varie
qualità che possono definirsi dal sistema logico. Ciò prima che si
imponesse nello scenario culturale la soluzione di una logica
formale, in cui le relazioni sintattiche tra gli elementi e i fatti
di un ragionamento sono solo rapporti autoreferenziali. L'approccio
semantico ricongiunge il mondo al sistema dei segni e quindi, alla
capacità riconfigurativa della logica linguistica. Ora, questa
formulazione mira a salvare la logica da un amaro destino, quella di
essere una disciplina assolutamente inservibile, di certo
autoreferenziale, perché la struttura di un ragionamento deve
dimostrare di essere in grado di produrre, cioè di anticipare
(previsione) le verità contenute nello argomento. È quanto ci è
stato proposto da millenni dalla logica aristotelica, la quale
tramite la struttura del sillogismo ha offerto al pensiero umano una
composizione linguistica di contenuti, in cui le verità esposte
nella proposizione finale del sillogismo fossero già in nuce
nelle premesse del sillogismo: ciò significa che Aristotele
ammetteva che la logica fosse una disciplina inapace di produrre
«verità». Ecco allora, che la crisi ottocentesca della logica va
di pari passo con la crisi del modello aristotelico, che in varie
forme si è mantenuto fino al Novecento filosofico.
Se
poteva ammettersi che individuate delle verità fondative e che una
volta fissate in proposizioni elementari la struttura logica, anche
nella vetusta forma sillogistica, poteva garantirsi la capacità
previsionale della scienza e quindi la possibilità di formulare
nuove verità, seppur in una veste di mere tautologie, l'estensione e
l'applicazione del simbolismo algebrico nella formulazione degli
argomenti logici rivela l'illusorietà di questo assunto. A tal
riguardo, il romanzo fantastico di Lewis Carroll, Alice nel Paese
delle Meraviglie, rivela inequivocabilmente che quest'impotenza
della logica è strutturale al modello epistemologico accettato da
millenni della logica: ciò che sconvolge il lettore non è
l'irrazionalità dei bizzarri ragionamenti e degli allucinati
significati a cui si fa riferimento nel racconto, perché sul piano
formale essi hanno una loro ragionevolezza (un tempo si avrebbe detto
verosimiglianza), ma il dover accettare (o essere costretti a farlo
proprio perché “logico”) alcune conclusioni chiaramente
controintuitive che la cultura europea dell'epoca non era ancora in
grado di accettare. Ciò detto, l'esito più rilevante è che la
tradizionale e rassicurante visione per cui il buon ragionare sia
anche il modo in cui l'essere si mostri veritieramente (una
conclusione che la metafisica del Dasein di Martin Heidegger ha
con forza affermato) non è che un arbitrio epistemologico, una
«violenza» alla rivelazione dell'essere.
In
questo senario, la matematica sembra essere un approdo
tranquillizzante, perché se la osserviamo dal punto di vista della
tradizione numerologica i numeri non sono solo delle mere astrazioni
del pensiero, ma forme simboliche a cui ci si può rivolgere
intuitivamente facendovi confluire quel sistema di significati,
sedimentati nella tradizione religiosa e che possono rivelarsi
storiograficamente: un concetto, questo dei numeri come pure forme
simboliche compatibili con la numerologia, ribadita dall'editoriale
del cardinale Gianfranco Ravasi, il quale non manca di citare la
pessima opinione che Platone aveva nei confronti della matematica,
considerata dall'antico filosofo arte della misura, del peso e del
contare. Tuttavia, proprio l'editoriale del cardinale svela il
sottotesto dello speciale dedicato ai numeri della rivista cattolica.
La visione dei numeri come nature simboliche, del tutto assente
nell'attuale modello scientifico, rivela da un lato una nutrita
letteratura storica e filosofica, ma dall'altro lato anche che
diversamente non possono considerarsi, perché sono tali in funzione
del lavoro esegetico delle Sacre Scritture. Riecheggia
nell'argomentazione del cardinale l'assunto ben definito dal discorso
di Giovanni Paolo II all'Accademia Pontificia delle Scienze, per il
quale il lavoro della scienza rimane ora e sempre un «lavoro
di interpretazione», sia in accordo con la prospettiva medievale per
cui la Verità ha sede nell'analisi teologica della Bibbia, sia in
accordo in fondo con la nuova prospettiva scientifica espressa
proprio da Galileo. L'assunto per cui la matematica è lo strumento
più adeguato per “interpretare” il Libro della natura, concetto
espresso con qualche resistenza intellettuale dalla cultura
rinascimentale e quasi implicitamente rievocato dalla nuova posizione
della cultura scientifica cattolica, rinsalda questo antico sogno
esegetico, che consegna non alla scienza tutta, ma ad una sua parte e
alla teologia il privilegio e la competenza del sapere.
In
realtà, è un'illusione, che rischia di tramutarsi in farsa, almeno
per la cultura cattolica, perché da un lato i cattolici per poter
intervenire sulle nuove sfide che la tecnologia ha posto (cfr. Hans
Jonas), ha dovuto accettare dopo alcuni secoli una situazione
culturale che ha negato a suo tempo (la condanna di Galileo non è un
inopinabile errore della Chiesa, ma è stata una scelta culturale
precisa, che non ha retto nel corso del tempo), mentre dall'altro
lato la scelta di percorrere oggi la stessa direzione della scienza
comporta implicitamente non tanto accettare un ordine determinato
dallo sviluppo tecnico, ma soprattutto rivedere i fondamenti stessi
del proprio credo in ragione di alcune conseguenze teoriche non
ancora espresse se non vagamente: la scoperta sperimentale
dell'esistenza del bosone di Higgs ribattezzata dai media
dell'epoca come «La particella di Dio» (dando il titolo alla
memoria di Higgs) rivela le storture a cui la mossa politica di
Giovanni Paolo II ha dato inizio, perché può ingenerarsi (e molti
ci credono anche) la convinzione che l'esistenza di Dio sia anch'essa
provabile sperimentalmente, infatti se scienza e fede sono due ambiti
distinti che insistono sullo stesso campo di realtà, è solo
un'assenza di prove sperimentali certe che attestino o smentiscano
l'affermazione «Dio c'è»; di più, se muovendo da una posizione
agnostica come quella tenuta da Einstein o come quella di Isaac
Newton per il quale Dio esisteva realmente, nessuno può impedirci,
sulla base dell'attuale paradigma scientifico, di considerare Dio
come la grandezza E nella formula E=mc^2, il che (sto ipotizzando, anche se non
troppo...) vuol dire considerare Dio come l'intera energia
dell'Universo (in un certo momento la stessa teologia cattolica
l'aveva affermato), ma fare questo significa sovvertire il modello
per cui i rapporti tra Dio e il Creato sono su una relazione di
trascendenza e iniziare a pensare Dio come una realtà immanente allo
stesso modo dei neoplatonici. La trascendenza, come la Trinità dello
Spirito Santo sono scelte culturali che hanno segnato nel bene e nel
male la storia del Cristianesimo e della Chiesa cattolica, ecco il
ricongiungimento scienza e fede, sancito dalla revisione cattolica
della vicenda galileiana a.e., apre questo scenario che non può che
aggravarsi con la decisione di percorrere la via dell'ecumenismo:
comincio a chiedermi se non sia in atto un processo irreversibile di
mutamento del cattolicesimo...