venerdì 23 febbraio 2018

Spunti su una riflessione su scienza e fede da Luoghi dell'infinito e qualche considerazione


Scrive Joseph Ratzinger in La verità cattolica, piccolo saggio comparso nel 2000 nel numero di febbraio di Micromega, nel numero in cui si è affrontato il rapporto tra religione e sapere, «nel Cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario» (cit., p. 46). L'affermazione dell'allora cardinale cattolico, oggi papa emerito Benedetto XVI, fissa in un preciso momento della storia culturale dell'occidente europeo, che è quello in cui la teologia cattolica smette di essere apologia della fede e diventa essa stesso la disciplina attraverso cui l'uomo possa formulare un sapere compiuto e soprattutto valido, in evidente competizione con l'intera tradizione pagana. In realtà, i motivi che animano la teologia cattolica sono quelli di presentare l'intero movimento cristiano come autentico prosecutore di una certa cultura pagana ed il suo innegabile compimento. E così viene a formularsi un paradigma storiografico in cui l'età tardo antica finisce per essere lo scenario, più o meno comprimario, dell'affermazione culturale del Cristianesimo. Un modello che si ripete quasi costantemente nella storia europea, tanto che influisce su alcuni significati o su certe autorappresentazioni dell'essere europeo, che possono attribuirsi all'idea di “radicalità” della stessa Europa nella koiné cattolica altomedievale.
Oggi, se raffrontato all'enorme distanza storica rispetto all'epoca medievale, all'età tardo antica e soprattutto alle nuove sfide schiuse dallo sviluppo tecnologico, un'affermazione come quella di Benedetto XVI sembra quasi irreale e tuttavia, può dirsi filosoficamente ancora valida, soprattutto per il mondo cattolico, dopo l'ammenda intellettuale espressa e poi compiuta in Terra Santa da papa Giovanni Paolo II, nel suo discorso del 30 ottobre 1992, in merito alla condanna inflitta nel Seicento al matematico e scienziato-inventore Galilei Galileo (22 giugno 1633): la sentenza in realtà, prima ancora della condanna di abiura, questa sarà automaticamente successiva come conseguenza degli esiti processuali, non fece altro che sancire la sconfitta culturale di Galileo, tanto che il documento dichiara il lavoro dello scienziato «gravemente sospettato di eresia», di lì l'inscrizione nell'Indice dei libri proibiti delle sue opere è conseguente e con essa la stessa umiliante vanificazione del lavoro presentato. Gran polverone mediatico l'intervento del papa polacco, ma che realizzò una delicata operazione politico-culturale, di cui ancora oggi la Chiesa può usufruire degli indubbi vantaggi che possono derivarsi: l'intento non è la mera riabilitazione di Galileo da parte della Chiesa, che per chi scrive è indifferente visto che a partire da quella vicenda le scelte culturali e le vie intraprese sia dalla Chiesa sia dal mondo intellettuale e scientifico non potevano che essere le più distanti ed opposte, ma era quella di offrire nuovamente al magistero papale la possibilità di poter intervenire con autorevolezza e dignità nei dibattiti scientifici, quegli stessi dibattiti da cui la Chiesa cattolica si era liberamente autoesclusa; a tal riguardo, è mia personale opinione che questo successo politico di Giovanni Paolo II sia a lungo andare un tragico boomerang, di cui già in parte vediamo i disastri (vedasi cosa succede ogni volta si offronti un tema etico come la vicenda della legge 40 o dell'attuale biotestamento), perché lascia intendere che sia stato consumato un errore storico e che l'aver riconosciuto la colpa o la responsabilità del torto rimetta la Chiesa e il mondo cattolico sulla medesima carreggiata di tutti, sorvolando sul fatto che la vicenda galileiana non è stato un episodio, ma una vicenda che ha semmai confermato precise scelte culturali, di cui forse la Chiesa contemporanea rifiuta di portare avanti.
L'occasione che mi offre motivo di riflessione è il numero di gennaio 2018 di “Luoghi dell'infinito”, interamente dedicato ai numeri. Ovviamente, il discorso sui numeri non è disgiunto da quello più generale della scienza, tuttavia la stessa presentazione fattane dalla rivista cattolica ci mette in relazione con un concetto di numero che ben si accorda con la lunga tradizione della Numerologia, che è patrimonio condiviso da ebraismo e cattolicesimo e in una visione ecumenica con molti altri sistemi religiosi. Il taglio storiografico che la rivista ha scelto non riesce interamente ad eludere il fatto che il sistema dei numeri di cui fa oggetto non è lo stesso sistema che caratterizza l'attuale teoria dei numeri. Anzitutto, sulla natura degli oggetti matematici, che indifferentemente oscilla tra forme della quantità e determinazioni simboliche, uno statuto chiaramente fissato dall'esordio dello scritto di Franco Cardini. Scrive il noto storico fiorentino,
«L'enumerare, il contare, il mettere in ordine e codificare tale ordine sono tra le attività più antiche e meglio documentate di tutta la storia del genere umano. Il sistema dei segni si traduce in linguaggio simbolico l'ordine numerico e la relativa sequenza figura, si può dire in tutte le culture, alla base del rapporto fra conoscenza qualitativa e ordinamento quantitativo del mondo».
(Franco Cardini, La matematica del divino in Luoghi dell'infinito, anno XXII, n.224, gennaio 2018, Milano)
Ora, se è consueto accettare storiograficamente quest'idea di intermediazione del numero tra due differenti ordini dello essere, cioè la dimensione quantitativa (rapporto) attestata dall'empiria dei sensi e la configurazione in intervalli spaziali della qualità, ciò non vuol dire che nella teoria attuale dei numeri la natura degli oggetti matematici sia definita ancora in questi termini. In effetti, ciò che conta in questa prospettiva è la possibilità di definire con il numero una realtà simbolica. Al riguardo, lo storico fiorentino è molto chiaro, nella tradizione numerologica dei sistemi religiosi e culturali considerati il numero assume questa natura e finisce per intrecciare il proprio significato con il dominio semantico della tradizione culturale entro cui viene a collocarsi, il che spiega come mai il numero-simbolo diventa esso stesso veicolo, spesso in una interrelazione ideale e di significato, del patrimonio culturale, religioso e immaginifico della letteratura che lo utilizza.
Ciò accade ed appare inevitabile, proprio sul piano delle categorie assolute usate dalla storiografia, perché il numero è inteso non come una realtà autonoma, ma come una parte pienamente inscritta entro un sistema linguistico, mostrando ad un tempo un preciso legame di dipendenza nel costante riferimento del medesimo bacino di significati, ma anche una certa “libertà” determinatagli dai procedimenti astrattivi a cui è sottoposto. Quest'ambigua dimensionalità del numero è il motivo per cui di volta in volta il giudizio sulla funzione e sul ruolo del numero è anch'esso ondivago, a volte positivo, a volte negativo, dipende dal sistema culturale di riferimento, ma ciò indica soprattutto come il dibattito numerologico si attesti sterilmente su una riduzione metafisica del numero, proprio attraverso l'intervento della forma simbolica in genere. Da qui, l'associazione che “metafisica” e “scienza del numero” siano in fondo attività simili tra loro che insistono entrambe sul medesimo essere e quindi, sono diverse “specializzazioni”, per così dire delle capacità intellettive dell'uomo. Ciò appare lecito in molti popoli arcaici, in cui non è sussistita alcuna differenziazione tra il sistema alfabetico e il sistema aritmetico dei numeri, per cui il ricorso a forme di notazione simili può considerarsi un'allusione all'interdipendenza dei due sistemi e quindi dei due ordini di realtà. Tuttavia, affermare questo è volutamente troppo semplicistico, anche se è storicamente certo che alcuni popoli non avevano uno specifico sistema notazionale e quindi, alcune lettere dell'alfabeto vengono a descrivere di volta in volta le unità, le decine, le centinaia, le migliaia e via dicendo.
In ogni caso, la prospettiva simbolica autorizza una sovrapposizione linguistica tra il numero come forma sensibile e la immagine complessa derivata dal simbolo, trascurando o mettendo in disparte la natura funzionale della sua operatività. Un'antica visione che non trova più riscontro nella teoria attuale, in cui i numeri sono considerati essenzialmente degli enti del pensiero e non più degli esseri determinati, reali e concreti come nel pensiero pitagorico. Nella matematica greca infatti, il sistema dei numeri è a sua volta la configurazione reale e concreta dell'Universo, in quanto non solo le proprietà che i numeri esibiscono sono considerate proprietà individualizzanti l'essere numerico, ma sono anche le forme precise di una configurazione spaziale, come mostra il Repubblica di Platone. È proprio l'antico filosofo greco a fissare in questa funzione di intermediazione tra l'astrazione e lo stato fondazionale della realtà stessa la natura del numero, con il tema delle Idee-Numero: Platone parlerà di Uno e di Diade indeterminata come i principi ideal-aritmetico della realtà, facendo leva appunto sull'ambiguità intrinseca in alcune caratteristiche del numero uno e due. Ora, se ciò poteva sconvolgere la teoria matematica greca, tanto che Aristotele nella Metafisica disserta polemicamente sulle scoperte (cfr. frazionamento) e sugli esiti dell'aritmetizzazione (il principio filosofico per cui “Tutto è numero” e che verrà ironicamente presupposto dai sofisti ateniesi), la soluzione platonica tuttavia, cerca di padroneggiare un'ambiguità teorica derivata da una scadente comprensione delle strutture aritmetiche, limitate alle quattro elementari operazioni algebriche e che rimandavano allo aspetto finanziario e commerciale dell'algebra. Ciò è sufficiente per considerare lo studio della matematica utile, ma non “fondamentale” per la conoscenza metafisica della realtà.
Un atteggiamento quest'ultimo che si è perdurato nel corso della storia europea e che resisterà almeno fino agli albori dell'era contemporanea. Nel frattempo, ci sarà il cambio della notazione numerica con l'introduzione dei numeri arabi, a cui si aggiunge l'introduzione decisiva del numero zero, una riforma del calcolo algebrico nel Duecento e uno studio delle successioni, che preannuncia la teoria delle serie infinite, l'invenzione della struttura algoritmica e un differente sistema di rappresentazione geometrica che contribuisce nello studio delle coniche e via dicendo. Insomma, mentre la filosofia si chiude gelosamente nei suoi privilegi disciplinari, considerando la matematica solo un valido supporto alla conoscenza (un esempio in tal senso è la filosofia di Niccolò Cusano), la base teorica della matematica inizia ad estendersi fino alla crisi recente intorno alla metà del XIX secolo.
È a questo punto che si delinea un'imprevista situazione teorica, ben espressa dal discorso di Giovanni Paolo II, quando mette come propria premessa argomentativa l'improvvisa scoperta della complessità del mondo. Rispetto al passato e in una certa misura, rispetto allo stesso sapere teologico il mondo e l'Universo è stato percepito come una macchina meno semplice di quel che si potesse supporre, ma in altre epoche culturali ciò non creava difficoltà epistemologiche, perché la scienza riusciva bene o male a formulare modelli comprensibili che spiegavano con sufficiente chiarezza le dinamiche dei fenomeni naturali. Una spiegazione che tendeva a volte alla semplificazione, a volte alla complessità, ma in ogni caso con un sistema di proposizioni che stavano in discreto accordo con le apparenze naturali. Una situazione già presente alla epoca di Galileo e che si è mantenuta fino al XIX secolo, quando improvvisamente lo sviluppo teorico della scienza si muove, così sembra, su territori concettuali talmente astratti che non hanno una diretta correlazione con il paesaggio fisico. Pertanto, la complessità del mondo rimane un dato inoppugnabile, in quanto il sapere che riesce a padroneggiarlo è un sapere specializzato, da cui la conoscenza ordinaria è esclusa. Quindi, non è il mondo che si è reso più complesso, ma l'immagine scientifica che ne possediamo.
In tal senso, l'immagine numerologica dei simboli è quasi una forma compensatoria che ci rassicura (falsamente) sulla presa effettiva del mondo da parte dell'uomo. Ed in fondo, appare essere questo il crinale entro cui si muove il numero di “Luoghi dell'infinito” di gennaio, rassicurando quasi il lettore sul fatto che un sapere assoluto è ancora possibile e che è quello dettato dal sentimento religioso.
In tal senso, il taglio storiografico aiuta certamente, ma non risolve le profonde divergenze determinate da scelte culturali compiute nell'arco di questi secoli, in piena autonomia e secondo un quadro teologico di riferimento precedente a.e., alla stessa vicenda galileiana, ecco che allora, il ricongiungimento della cultura cattolica con il percorso storico della scienza non crea a sua volta le condizioni di una dialettica epistemologica autenticamente produttiva. Anzi.
Torniamo infatti, sulle dinamiche storiche che fanno da premessa al citato discorso di papa Giovanni Paolo II. La cultura scientifica europea inizia a delinearsi in riferimento agli sviluppi tecnici-teorici del XIX secolo. Durante questo periodo, il confronto del mondo cattolico con la cultura scientifica è impostato sull'autoesclusione dei cattolici, in parte come effetto storico della controriforma tridentina, in parte per la dura reazione antimodernista di papa Pio IX; e questo scenario non si delinea certamente a causa della vicenda galileiana, già assimilata nei termini definiti proprio dalla Chiesa cattolica, cioè di una scomunica e di un'imposta abiura. Prima dei recenti sviluppi tecnologico-scientifici non si poneva una questione galileiana, nonostante fosse accettato sul piano culturale il paradigma eliocentrico, e il rapporto con la scienza può continuare ad intendersi secondo le direzioni tradizionali. Ciò viene a complicarsi e a mutarsi con gli studi della fisica sperimentale su ambiti diversi da quello astronomico, ma che finirà per influenzare la stessa visione astronomica. Il tema che sconvolge l'armonico procedere simbiotico di scienza-fede non è l'immagine del cosmo (del resto non lo era stato neanche ai tempi della vicenda galileiana), ma la definizione e formulazione di un sapere che diventava de facto incerto e relativo. La fisica sperimentale riformula i tradizionali concetti dell'epistemologia e con essa abbatte una serie di stabili convinzioni che hanno dominato il paesaggio filosofico europeo da millenni. In questo scenario “rivoluzionario” si colloca la teoria della relatività di Albert Einstein che sancisce in definitiva la relatività delle conoscenze scientifiche. In tal senso, la complessità a cui si fa riferimento nel discorso di Giovanni Paolo II e implicitamente negli intervento della rivista è in buona parte quest'incertezza epistemologica che in altre epoche storiche non era così drammatica.
Per capirci, nel suo scritto, Silvano Tagliagambe fa riferimento alla crisi e allo sviluppo della logica simbolica. Questo è un uon esempio di ciò che sta accadendo nella seconda metà del XIX secolo, ma anche ciò che non è accettabile sul piano di una disamina culturale. Tagliagambe ricorda che all'alba della fisica quantistica il sistema della logica entra in crisi e che questa crisi della logia viene risolta tramite una riconfigurazione del compito e della natura della logica ricorrendo alla semantica e ai domini lessicali: la precisione logica e la stessa certezza dei contenuti logici vengono assegnate al potere della lingua di autodeterminare queste verità, per cui dalla selva di lessemi che vengono composti negli asserti semplici può derivarsi la verità in senso assoluto sul mondo e sull'essere, che rimangono l'oggetto precipuo della filosofia. Di qui, la necessità teorica di analizzare e distinguere le varie qualità che possono definirsi dal sistema logico. Ciò prima che si imponesse nello scenario culturale la soluzione di una logica formale, in cui le relazioni sintattiche tra gli elementi e i fatti di un ragionamento sono solo rapporti autoreferenziali. L'approccio semantico ricongiunge il mondo al sistema dei segni e quindi, alla capacità riconfigurativa della logica linguistica. Ora, questa formulazione mira a salvare la logica da un amaro destino, quella di essere una disciplina assolutamente inservibile, di certo autoreferenziale, perché la struttura di un ragionamento deve dimostrare di essere in grado di produrre, cioè di anticipare (previsione) le verità contenute nello argomento. È quanto ci è stato proposto da millenni dalla logica aristotelica, la quale tramite la struttura del sillogismo ha offerto al pensiero umano una composizione linguistica di contenuti, in cui le verità esposte nella proposizione finale del sillogismo fossero già in nuce nelle premesse del sillogismo: ciò significa che Aristotele ammetteva che la logica fosse una disciplina inapace di produrre «verità». Ecco allora, che la crisi ottocentesca della logica va di pari passo con la crisi del modello aristotelico, che in varie forme si è mantenuto fino al Novecento filosofico.
Se poteva ammettersi che individuate delle verità fondative e che una volta fissate in proposizioni elementari la struttura logica, anche nella vetusta forma sillogistica, poteva garantirsi la capacità previsionale della scienza e quindi la possibilità di formulare nuove verità, seppur in una veste di mere tautologie, l'estensione e l'applicazione del simbolismo algebrico nella formulazione degli argomenti logici rivela l'illusorietà di questo assunto. A tal riguardo, il romanzo fantastico di Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie, rivela inequivocabilmente che quest'impotenza della logica è strutturale al modello epistemologico accettato da millenni della logica: ciò che sconvolge il lettore non è l'irrazionalità dei bizzarri ragionamenti e degli allucinati significati a cui si fa riferimento nel racconto, perché sul piano formale essi hanno una loro ragionevolezza (un tempo si avrebbe detto verosimiglianza), ma il dover accettare (o essere costretti a farlo proprio perché “logico”) alcune conclusioni chiaramente controintuitive che la cultura europea dell'epoca non era ancora in grado di accettare. Ciò detto, l'esito più rilevante è che la tradizionale e rassicurante visione per cui il buon ragionare sia anche il modo in cui l'essere si mostri veritieramente (una conclusione che la metafisica del Dasein di Martin Heidegger ha con forza affermato) non è che un arbitrio epistemologico, una «violenza» alla rivelazione dell'essere.
In questo senario, la matematica sembra essere un approdo tranquillizzante, perché se la osserviamo dal punto di vista della tradizione numerologica i numeri non sono solo delle mere astrazioni del pensiero, ma forme simboliche a cui ci si può rivolgere intuitivamente facendovi confluire quel sistema di significati, sedimentati nella tradizione religiosa e che possono rivelarsi storiograficamente: un concetto, questo dei numeri come pure forme simboliche compatibili con la numerologia, ribadita dall'editoriale del cardinale Gianfranco Ravasi, il quale non manca di citare la pessima opinione che Platone aveva nei confronti della matematica, considerata dall'antico filosofo arte della misura, del peso e del contare. Tuttavia, proprio l'editoriale del cardinale svela il sottotesto dello speciale dedicato ai numeri della rivista cattolica. La visione dei numeri come nature simboliche, del tutto assente nell'attuale modello scientifico, rivela da un lato una nutrita letteratura storica e filosofica, ma dall'altro lato anche che diversamente non possono considerarsi, perché sono tali in funzione del lavoro esegetico delle Sacre Scritture. Riecheggia nell'argomentazione del cardinale l'assunto ben definito dal discorso di Giovanni Paolo II all'Accademia Pontificia delle Scienze, per il quale il lavoro della scienza rimane ora e sempre un «lavoro di interpretazione», sia in accordo con la prospettiva medievale per cui la Verità ha sede nell'analisi teologica della Bibbia, sia in accordo in fondo con la nuova prospettiva scientifica espressa proprio da Galileo. L'assunto per cui la matematica è lo strumento più adeguato per “interpretare” il Libro della natura, concetto espresso con qualche resistenza intellettuale dalla cultura rinascimentale e quasi implicitamente rievocato dalla nuova posizione della cultura scientifica cattolica, rinsalda questo antico sogno esegetico, che consegna non alla scienza tutta, ma ad una sua parte e alla teologia il privilegio e la competenza del sapere.
In realtà, è un'illusione, che rischia di tramutarsi in farsa, almeno per la cultura cattolica, perché da un lato i cattolici per poter intervenire sulle nuove sfide che la tecnologia ha posto (cfr. Hans Jonas), ha dovuto accettare dopo alcuni secoli una situazione culturale che ha negato a suo tempo (la condanna di Galileo non è un inopinabile errore della Chiesa, ma è stata una scelta culturale precisa, che non ha retto nel corso del tempo), mentre dall'altro lato la scelta di percorrere oggi la stessa direzione della scienza comporta implicitamente non tanto accettare un ordine determinato dallo sviluppo tecnico, ma soprattutto rivedere i fondamenti stessi del proprio credo in ragione di alcune conseguenze teoriche non ancora espresse se non vagamente: la scoperta sperimentale dell'esistenza del bosone di Higgs ribattezzata dai media dell'epoca come «La particella di Dio» (dando il titolo alla memoria di Higgs) rivela le storture a cui la mossa politica di Giovanni Paolo II ha dato inizio, perché può ingenerarsi (e molti ci credono anche) la convinzione che l'esistenza di Dio sia anch'essa provabile sperimentalmente, infatti se scienza e fede sono due ambiti distinti che insistono sullo stesso campo di realtà, è solo un'assenza di prove sperimentali certe che attestino o smentiscano l'affermazione «Dio c'è»; di più, se muovendo da una posizione agnostica come quella tenuta da Einstein o come quella di Isaac Newton per il quale Dio esisteva realmente, nessuno può impedirci, sulla base dell'attuale paradigma scientifico, di considerare Dio come la grandezza E nella formula E=mc^2, il che (sto ipotizzando, anche se non troppo...) vuol dire considerare Dio come l'intera energia dell'Universo (in un certo momento la stessa teologia cattolica l'aveva affermato), ma fare questo significa sovvertire il modello per cui i rapporti tra Dio e il Creato sono su una relazione di trascendenza e iniziare a pensare Dio come una realtà immanente allo stesso modo dei neoplatonici. La trascendenza, come la Trinità dello Spirito Santo sono scelte culturali che hanno segnato nel bene e nel male la storia del Cristianesimo e della Chiesa cattolica, ecco il ricongiungimento scienza e fede, sancito dalla revisione cattolica della vicenda galileiana a.e., apre questo scenario che non può che aggravarsi con la decisione di percorrere la via dell'ecumenismo: comincio a chiedermi se non sia in atto un processo irreversibile di mutamento del cattolicesimo...

sabato 10 febbraio 2018

Sensazione: storia di un'interiorità


Il silenzio a volte, delle parole,
quelle stesse a cui affido
l'urlo muto delle mie inquietudini,
mi avvince, mi sovrasta
metafisicamente
quando un male indescrivibile
m'opprime inspiegabilmente
e cerco e scavo senza motivo
nel lessico, tra gli angoli bui
di un'umoralità alterata, afflitta,
desiderosa ardentemente
di esprimere e di rivelare
verità nulle
inconsistenti
vuote tautologie
forse anche squallidi

luoghi comuni di cui sono pregno più di quanto credo.



Taccio.Taccio. E taccio,
ma so già che la parola che
voglio dire è tra
queste trame evocatrici.

                                                                                                                       (10 febbraio 2018)