giovedì 25 novembre 2021

Sul concetto semiotico di «enciclopedia»


O

gnuno di noi possiede un documento personale di riconoscimento, di solito una carta di identità, ebbene se si consulta questo documento si trovano gran parte delle informazioni che riguardano la nostra persona come il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, il comune di residenza con la indicazione della via compreso di numero civico, perfino la professione che allo atto della promulgazione del documento è stata dichiarata allo ufficiale dello ufficio anagrafe. Per quanto riguarda il tema di queste righe è bene soffermarsi su una sezione in specifico di questo documento, sezione indicata con il titolo «Connotati e Contrassegni salienti». In questa sezione si trovano le seguenti voci con i rispettivi valori determinati, nel mio caso la sezione appare come segue:

 

Voce della sezione

 

 

 Contenuto indicato dal documento

 

 

  STATURA

°°°°167

  CAPELLI

°°°°Castani

  OCCHI

°°°°Castani

  SEGNI PARTICOLARI °

°°°°Nessuno

 

Personalmente, avrei qualche preferenza e se mi fosse stato possibile avrei preferito trovare scritto in questa sezione alla voce OCCHI magari lo attributo AZZURRI, ma guardando la fotografia a corredo del documento sarebbe stato impossibile; forse, più fattibile la informazione «BELLISSIMO» alla voce SEGNI PARTICOLARI, ma non mi pare che ci sarebbe stato qualcuno a crederlo e ad affermarlo. In ogni caso, le varie attribuzioni assegnate dal documento compongono una definizione di me stesso, utile ovviamente non per una riflessione esistenziale o metafisica o psicologica del sottoscritto, ma semplicemente per rendermi riconoscibile alla comunità.

Il sistema adottato dalla burocrazia nazionale ricorre alla costruzione di un sistema di proprietà – e quei contenuti presenti nella carta di identità sono da intendersi tali – con il quale operare una definizione della persona a cui sono attribuite. In linguistica e in semiotica questo procedimento descrive un Contenuto Molare [Eco 1996], cioè informazioni che descrivono alcune caratteristiche specifiche di ciò a cui ci si sta riferendo; il Contenuto Molare è già una informazione più pertinente e più aderente al riferito, anche se a ben guardare ci si muove ancora nello ambito di una connotazione molto generica, non proprio individualizzante, in quanto possono esserci persone oltre me che sono alte 167 cm, che hanno capelli e occhi castani e non presentare alcuna specifica caratterizzazione fisica tanto da essere immediatamente riconoscibile. Infatti, fa fede la fotografia che è allegata al documento a dare allo intero documento personale la sua intrinseca validità e rilevanza significativa, perché la immagine fotografica funge da referenza ostensiva, cioè da esemplare che potrebbe essere indicato con il puntamento di un dito se fosse materialmente presente allo interlocutore: ovviamente, questo meccanismo elude il fatto che anche la immagine fotografica è a sua volta un segnale, certo diverso da quello di un cartello stradale, ma molto più affine ai vari cartelloni pubblicitari.

Ecco dunque, delinearsi un tema particolarmente interessante e a suo modo anche attuale, a causa del dibattito molto caotico e scomposto sulla scienza, e cioè gli esiti effettivi della composizione di un significato. Lo esempio che ho proposto può considerarsi un piccolo modello su cui impostare il ragionamento a riguardo. Per molto tempo, il problema della definizione dei contenuti scientifici è un tema strettamente correlato alla attività di denotazione del soggetto. Nella interlocuzione, ma anche nella composizione delle conoscenze scientifiche ci si muove, anzi ci si muoveva pensando e credendo che il significato di un segno linguistico o di una proposizione fosse determinato dalla sua effettiva correlazione con lo oggetto del suo riferimento. Il linguista svizzero Ferdinand De Saussure (1857-1913) nel suo noto Corso di linguistica generale (1916) costruisce il circuito della comunicazione sul modello medievale della struttura semiotica di signum-res e quindi, il significato di un segno linguistico è inteso come la trasposizione linguistica dello oggetto riferito come se fosse materialmente presente: di qui, la idea molto tradizionale per cui il segno linguistico sia quella unità utilizzata “al posto di” ciò di cui si sta parlando. La lingua insomma, è la immagine virtuale e trasposta della realtà materiale e concreta, per cui la fonte di senso sia delle attività linguistiche e semiotiche, sia delle singole unità linguistiche e semiotiche rimane sempre la realtà concreta e materiale, cioè la dimensione extra-linguistica.

Stesso discorso per le definizioni della scienza, soprattutto dopo la svolta naturalistica avutasi con il noto dibattito astronomico del Seicento e dopo lo imporsi del metodo scientifico che privilegia la osservazione diretta della natura è evidente che la realtà osservata e registrata dai sensi è la sede della rilevanza significativa di qualsiasi asserto scientifico. I dibattiti teorici che dal Seicento in avanti sono stati prodotti ammettono indistintamente questo tipo di dominio empiristico nella formulazione del sapere scientifico, dominio che è diventato il precetto per la definizione di un meccanicismo materialistico formulato dallo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1726), ma imposto culturalmente dall’Illuminismo francese con figure come il matematico e astronomo francese Pierre Simon Laplace (1749-1827) e il matematico di origini italiane Joseph-Louis Lagrange (1736-1813). Si fatica molto prima di accorgersi che la formulazione linguistica degli stessi contenuti scientifici contiene in sé alcune falle per così dire inevitabili e non più solo sul piano logico, come rivela in fondo il formalismo meccanicistico del Tractatus logico-philosophicus (1919) di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Infatti, se figure come Giovanni Vailati (1863-1909) espressero l’esigenza e l’urgenza di ragionare con maggiore consapevolezza sui sistemi rotazionali e sulle procedure comunicative del sapere scientifico, tuttavia la soluzione che veniva avanzata rimaneva saldamente ancorata alla attività denotativa e ad una costruzione logico-semantica degli stessi contenuti; grossomodo come se dai trattati di logica di Aristotele non fossero trascorsi i diciotto secoli che ci separano dallo antico e illustre filosofo greco. Eppure, lo stesso Aristotele aveva rilevato una bizzarra anomalia e metteva in guardia tutti coloro che si occupavano di scienza di badare a questa anomalia. La anomalia in questione si rivela in particolare nei capitoli delle Categorie e riguarda il fenomeno della polisemia. Lo antico filosofo muoveva dalla posizione che il significato di qualcosa fosse una determinazione esclusiva, cioè una composizione univoca dei contenuti che riguardassero lo oggetto riferito; in linea di principio, ogni forma di scostamento rispetto a questa univocità introduce una contraddizione nel significato e dunque, un problema in termini di individuazione e comprensione filosofico-scientifica. Tuttavia, lo stesso Aristotele conveniva che in alcuni casi la definizione dl riferito ammettesse questo fenomeno polisemico in maniera “strutturale”, come nel caso appunto, del concetto filosofico di to’ ‘ón, cioè della espressione che descrive il tema filosofico dello «essere».

È noto che il razionalismo logico di Aristotele si è impegnato a costruire un sapere che fosse il meno contraddittorio e ambiguo possibile, tanto che la stessa struttura del sillogismo scientifico forniva criteri e metodi retorici e formali per determinare argomenti che avessero una validità scientifica indubbia e indiscutibile. Ma la battaglia di Aristotele contro le anomalie linguistiche della comunicazione e le contraddizioni sconcertanti della logica si scontrano nelle affermazioni sensate e alquanto inorridite di una piccola bambina di nome Alice: lo stesso Aristotele ne sarebbe stato sorpreso, malamente stupito.

La svolta linguistica del XX secolo non ha modificato ciò che una lunga tradizione letteraria e scientifica ha ampiamente consolidato, vale a dire la affermazione di un forte dominio semantico, dominio su cui si basa la idea di un «pensiero forte», cioè di un sistema culturale e scientifico per nulla incline a negare validità non solo alle proprie procedure e meccanismi, ma anche ad insinuare il dubbio che la via del metalinguaggio sia in fondo, la sconfessione della semplificazione logico-metafisica di Guglielmo di Occam (1288-1347) e che forse, il rasoio della scienza ha necessità di essere limato. In questo paesaggio, il successo della semiotica definisce la affermazione di una attività che ha il ruolo e la funzione di verificare i procedimenti linguistici che agiscono nella stessa composizione dei significati scientifici, il che di per sé è contraddittorio rispetto al fatto che la fonte della conoscenza è solo la realtà sensibile, gli eventi della natura e i fatti empirici. In effetti, la attività semiotica sembra estranea alla attività scientifica, almeno in senso stretto. Ciò ci viene confermato da una distinzione formulata da Umberto Eco nella prefazione citata dalla antologia di Augusto Ponzio (n.1942) [Ponzio 1976: pp.164-67] a I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico [AAVV, Milano 1969] che indica come la attività scientifica sia legata a sistemi non direttamente collegati al sistema della cultura, cioè a quei meccanismi ordinari propri di una società, e ciò a causa del formalismo simbolico dei suoi contenuti: la scienza compone i propri contenuti secondo regole e criteri che non sono quelli della comunicazione ordinaria, ma sono specialistici e autoreferenziali. Pertanto, lo interesse della semiotica al discorso scientifico è limitato soltanto a quel momento in cui la scienza diventa un fatto culturale, cioè quando i suoi contenuti iniziano ad avere una diffusione nella opinione pubblica, altrimenti la teoria scientifica produce segni e significati “alieni” rispetto al pensiero sociale. E tuttavia, il linguista italiano Tullio De Mauro (1932-2017) parlando di «arbitrarietà del segno linguistico» indica

«la nozione, già aristotelica, di immotivazione naturalistica della forma del segno rispetto al suo valore referenziale. (…) non c’è alcuna necessità d’ordine naturale per cui il referente debba essere individuato da un ordine fisico: [la necessità] sorge soltanto all’interno d’un determinato codice, una volta che si sia stabilito di accettarlo rispettandone le convenzioni» [cit. Ponzio 1976: pp.319-20].

È evidente che tale impostazione rivelerà una certa insoddisfazione teorica, perché suggerisce che le attività legate alla scienza siano di altra natura rispetto alle ordinarie attività cognitive dell’individuo. Inoltre, suggerisce una specializzazione dell’intera attività semantica e una griglia ontologica che possiedono un sistema di “autodiagnosi” dei propri contenuti fondamentalmente differenti da quelli ordinari e oggetto di interesse della stessa semiotica. Ma a lungo andare tale approccio si rivelerà non più sostenibile e lo stesso Eco è tra quelli (forse il primo) a denunciarne i limiti. Una posizione trasversale rispetto al panorama culturale europeo che viene a descriversi costantemente lungo una serie di libri del semiologo e soprattutto intorno ad un tema che prenderà sempre più rilievo nelle tesi del semiologo italiano, cioè il tema della enciclopedia.

Avevo tentato di descrivere questo percorso in uno scritto dal titolo Il problema tassonomico delle definizioni scientifiche, che pensavo di mettere qui sul blog, ma l’eccessiva estensione mi ha scoraggiato a farlo; ecco perché ho optato per una esposizione più sintetica e forse soltanto accennata di queste righe, tuttavia c’è da fare alcune precisazioni. Anzitutto, pur essendo costante l’interesse di Eco al tema della enciclopedia, questo interesse però si focalizza esclusivamente sui termini di una distinzione tra enciclopedia e dizionario che con il passare del tempo diventerà sempre più rilevante e decisiva nella composizione del concetto di enciclopedia, che diventerà un tema fulcro della teoria della referenza e della composizione del significato nell’opera saggistica dopo la metà degli anni Novanta del secolo scorso. Inoltre, il concetto di enciclopedia diventa la risposta migliore che si possa formulare per risolvere alcune fondamentali contraddizioni affiorate nella teoria linguistica, soprattutto per quanto riguarda l’attività scientifica della classificazione tassonomica: il criterio semantico non può intervenire con soddisfazione nel dirimere le eventuali ambiguità tassonomiche e le controversie sulla natura e trasmissione dei contenuti della scienza, proprio perché esiste non solo una divergenza lessicale e contenutistica tra la semantica scientifica e la semantica propria e acquisita in modo ordinario da chi non ha specializzazioni scientifiche. A ciò si aggiunge un fatto semiotico sorprendente e che già era emerso in [Eco 1975], cioè che la composizione dei significati non ha sempre un’origine denotativa. Se l’analisi dei lessemi nello spiegare il contenuto di una definizione, dunque di un significato ricorre sovente alla referenza ostensiva, cioè alla pratica di indicare puntando con un dito il referente del segno linguistico (esempio, /Luna/ significa «Luna» e così dicendo si punta un dito verso il satellite naturale della Terra), tale usanza non risolve i problemi di comprensione (e di persuasione) legati alla comunicazione del contenuto scientifico. Affinché la comunicazione scientifica dei propri contenuti sia efficace occorre una effettiva integrazione tra due sistemi semantici non solo eterogenei, ma anche incompatibili tra loro.

Il concetto semiotico di «enciclopedia» diventa lo strumento concettuale con cui poter risolvere queste controversie, ma significa iniziare a pensare la denotazione non più in termini di referenza ostensiva, ma come un sistema complesso e arzigogolato di connotazioni che raccolte insieme contribuiscono non solo a comporre il significato, ma anche a fornire (seppur in via di indirizzo) una qualche spiegazione. Esempio, se il lessema /balena/ viene spiegato dallo zoologo elencando un sistema di proprietà (semantica da dizionario/vocabolario) da cui a sua volta fa derivare la definizione scientifica grossomodo simile a questa uguaglianza:

«MAMMIFERO + ACQUATICO + APPARATO POLMONARE + PRESENTE NEI MARI DEL NORD»,

definizione dove le proprietà ACQUATICO e APPARATO POLMONARE rivelano la famiglia di appartenenza dell’animale, cioè a quella dei cetacei. Ora, ammesso che un qualsiasi interlocutore abbia una idea o un’immagine cognitiva dell’animale, la definizione può rivelare degli inganni e magari far pensare a chi non è zoologo che la «balena», essendo un animale acquatico, sia più simile ad un comune pesce che non al proprio cane o gatto. Ad aiutare nella comprensione della definizione sopra presentata possono intervenire attribuzioni che derivano da un insieme di connotazioni non tutte derivanti dalla esperienza diretta in mare o ad un acquario pubblico, come nel caso della letteratura, che oltre ad essere piena di una variegata e multiforme caratterizzazioni che possono intervenire nella connotazione del riferito di una definizione scientifica, per cui chi ha letto il noto romanzo di Hermann Melvile (1819-1891), Moby Dick (1851), può avere oltre che il Tipo Cognitivo di /balena/, anche una “giusta” definizione del suo significato, ma anche pregiudizi e imprecisioni contribuiscono a formulare significati che si riversano nel pensiero sociale. Ma questa è un’altra storia.

L’introduzione delle connotazioni letterarie rivela una natura composita di una qualsiasi definizione, anche di una definizione scientifica come si è visto e ciò costringe a dover ammettere che la spiegazione di un contenuto specialistico come può essere appunto, una definizione scientifica deve avvalersi di uno strumento che non sempre interviene a dirimere le controversie come il dizionario. A volte, la spiegazione e comprensione di un significato può realizzarsi tramite un precedente contenuto acquisito magari secondo canali di informazione e secondo mezzi di informazione differenti da quelli consueti – o quelli deputati all’acculturazione della società come famiglia e scuola – e ciò nonostante non è detto che il contenuto sia del tutto fuori campo: basti pensare all’opinione di Eco sul valore dei fumetti contemporanei nella composizione dei significati diffusi socialmente. Ma affinché ciò possa realizzarsi occorre una prospettiva generale e complessiva delle caratterizzazioni che sono attribuibili ad un riferito che può determinare una selezione, un aggiornamento e una scelta delle attribuzioni corrette al significato in questione. È l’idea di Enciclopedia Massimale che Eco espone in [Eco 2012] con la quale mette fine ad una storia di controversie tra dizionario e enciclopedia che risale fino ad epoche antiche, ma dà inizio a possibilità di classificazione e a strutture enciclopediche (esempio le reti neurali alla base della Intelligenza Artificiale) dove il concetto semiotico di «enciclopedia» non indica più il concetto epistemologico di mathesis, cioè di sapere universale [Michel Foucault 1966], ma indica un sistema dove intervengono specifiche condizioni che rende questo sapere un materiale di informazioni suddiviso e divisibile in campi locali, facilmente rintracciabili mediante una ricerca in chiave tematica e che descrive tutte le caratterizzazioni relative all’argomento. A riguardo, alla base di questo concetto non c’è più la tradizionale concezione di una universalità dei contenuti, ma la attività di una struttura, costruita intorno ad un criterio regolativo, che configura percorsi tematici, articolati e complessi, con cui comporre definizioni e contenuti di ogni genere, compreso i contenuti della scienza.

A suo modo, il Discorso Preliminare (1751) del filosofo francese Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert (1717-1783) che introduce la nota opera dell’Illuminismo francese, cioè l’Enciclopedia indica due caratteri che anticipano l’idea di criterio regolativo alla base della Enciclopedia Massimale di cui si diceva. Il filosofo francese offre due caratterizzazioni della Enciclopedia, anzitutto quella di essere un «mappamondo» e quella di essere un «labirinto». Sono due caratterizzazioni di estremo interesse e che più di quanto potesse immaginare D’Alembert colgono due attività di grande potenza e proficuità, almeno per come la civiltà umana ha imparato a definire e a comporre le proprie attività scientifiche e culturali. Il concetto semiotico di «enciclopedia» risolve molti problemi di comprensione e di orientamento, tuttavia non è un concetto predeterminato, ma viene a configurarsi nell’articolato  processo di accumulazione di informazioni e di contenuti; in qualche caso, questo concetto è anche alla base di clamorosi fraintendimenti che sono imputabili per lo più al modo in cui viene configurata la struttura a rete della stessa enciclopedia (è il caso della Enciclopedia Ontologica formulata da James Joyce (1882-1941) [Eco 2012]) che può essere causa e motivo di quel fenomeno di ridondanza semantica che diffonde contenuti perverse o configurazioni scellerate di uno o più significati; in questo casi si deve operare aggiornando o riformulando intere sezioni di enciclopedia e forse addirittura dell’intera stessa enciclopedia. Ma ciò significa anche che, senza scomodare civiltà extraterrestri, essendo le stesse definizioni enciclopediche un condensato di connotazioni, alcune fissate tramite convenzioni sociali, la traduzione di esse in una lingua ed in un sistema culturale che non adotta le convenzioni fissate per le definizioni enciclopediche, la traduzione dicevo, appare molto complicata e non sempre coronata da successo: questo è un aspetto non considerato nel puzzle proposto da un libro del matematico Martin Gardner (1914-2010) riguardante la situazione provocatoria di poter ridurre un intero volume della Enciclopedia Britannica in una stringa numerica [Gardner 1978].

Porto Empedocle, 25/11/2021

mercoledì 24 novembre 2021

La mappa come oggetto semiotico. La mappa non è un oggetto semiotico

Nella mia stanza si può osservare la presenza di un piccolo mappamondo che di tanto in tanto sposto da un ripiano ad un altro, e pur non avendo una stabile collocazione, è divenuto un ordinario soprammobile tra i miei mobili. Il mappamondo in questione è un piccolo giocattolo, sicuramente è uno dei giochi che di tanto in tanto lasciavano i miei nipoti quando erano più piccoli, ma è un modello didattico, adatto per bambini e che ritrae tutti i cinque continenti ed è colorato in modo da mettere in evidenza gli stati e le nazioni: la colorazione segue certamente la teoria dei quattro colori. Dunque, è un tipico mappamondo geografico-politico, simile nella tipologia ad una qualsiasi carta geografica o di un atlante geografico che compone il corredo di qualsiasi studente.

Se la utilità didattica è abbastanza evidente, tali supporti descrivono un tema sul piano teorico di per sé interessante, ma anche complesso. Molti di noi ammetteranno che la immagine riportata da giocattoli del genere sia così fedele alla realtà effettiva della Terra, a parte lo stratagemma della colorazione e della eliminazione di alcune informazioni comunque “reali” come i rilievi montuosi o la presenza di laghi o di sistemi fluviali, che a fatica si direbbe il contrario, cioè che quella immagine è una descrizione della realtà del pianeta, ma non è la “vera” immagine della Terra. E tuttavia, si considerano strumenti di questo tipo, i mappamondi appunto, come autentiche proiezioni delle fattezze materiali del pianeta. Ciò rende una mappa geografica e più in generale un mappamondo un alter ego oppure un avatar della Terra.

Per esperienza ognuno di noi sa che la mappa geo-politica è uno dei diversi formati di mappa, che esistono vari tipi ognuno recanti informazioni molto dettagliate che possono mancare negli altri tipi di mappe. Ma poiché queste descrizioni spesso assumono un importante valore ausiliario magari alla ricerca che si sta compiendo, oppure alle analisi geologiche che si stanno svolgendo, pur essendo parziali e in qualche caso limitate rappresentazioni dello ambiente terrestre, nessuno mette in dubbio che tali descrizioni non siano espressioni della vera realtà delle cose e degli eventi naturali (esempio, le mappe nautiche relative alle correnti oceaniche). Ora, la stessa storia delle mappe e delle carte geografiche rivela come tale strumento sia stato mutevole e come, alla bisogna, esistano diverse tipologie di mappe, ognuna con uno scopo descrittivo raggiunto o da raggiungere, si veda il caso delle carte astronomiche. In genere, quando si parla di mappa si pensa quasi immediatamente alle carte geografiche e appunto, alle carte astronomiche, in quanto nella storia dello uomo la esigenza di potersi orientare lungo i viaggi via mare che via terra era importantissima sia per gli spostamenti nomadi, sia per le rotte commerciali, ma esistono altre descrizioni comunemente associate al concetto di «mappa» che forniscono non una descrizione bensì alcune selezionate informazioni.; è il caso degli stradari o degli orari delle partenze o delle fermate di una metropolitane. In questi ultimi casi, la descrizione della realtà empirica non è una trasposizione reale di questa, ma è una trasfigurazione schematica tesa a rappresentare un circuito dove si trovano inserite le varie informazioni che si richiedono da parte di chi consulta questo tipo di mappe.

In [Eco 2011] il semiologo italiano Umberto Eco (1930-2016) fornisce una piccola “storia” della mappa, più che altro descrivendo alcuni tipi di mappe che nel corso della storia umana sono state pensate e proposte con lo scopo non tanto di fornire una storia delle mappe, quanto indagare sullo immaginario che tali oggetti finiscono per rappresentare. In questo scenario, vengono ovviamente privilegiate le mappe astronomiche in quanto in esse si condensano non solo le idee scientifiche sullo Universo, ma anche il modo in cui chi ha elaborato questi oggetti “immaginava” il mondo e la realtà che lo circondava. A riguardo, è sufficiente pensare alla descrizione del mondo nelle carte geografiche greche, a loro volta basate sulla immagine fenicia del mondo che coincideva de facto con il micro cosmo del mar Mediterraneo: a questa si aggiunga anche la convinzione della “piattezza” della Terra derivante da una valutazione “realistica” della immagine riportate dalle antiche mappe. La premessa di questo breve excursus è dunque, il concetto di immaginario e tale concetto ha prodotto nel corso del tempo una serie di immagini della realtà dello Universo e della Terra che forse non aiutavano un granché nella eventualità di un viaggio realmente intrapreso (si veda tutta la vicenda delle esplorazioni geografiche di epoca moderna e del viaggio del navigante genovese Cristoforo Colombo che portò alla scoperta della America), ma che sono alla base di quei viaggi dello immaginario che spesso hanno trovato dilettevole espressione in letteratura, come nel caso della opera letteraria di Emilio Salgari o nei racconti del mare di Jack London e tanti altri: in questo caso, il tema dello immaginario è strettamente legato al tema dello esotico, a sua volta dipendente dalla ampiezza reale della superficie terrestre, cioè quanto realmente grande fosse la idea del mondo, quale fosse la sua frontiera; un tempo tale confine era lo Stretto di Gibilterra o al limite la isola della Groenlandia da un lato e lo Stretto del Bosforo in Turchia dallo altro lato, oppure tornando indietro nel tempo le sponde del fiume indiano del Gange o il corso del Tigri e dell’Eufrate o del Nilo, oggi  è la frontiera dello spazio (ammaraggio sul pianeta Marte, inverno 2021).

Lo immaginario di cui discute Eco in Astronomie Immaginarie dunque, permette di ragionare sullo oggetto «mappa» come un oggetto semiotico, in quanto ciò che gli dà significato non è la sua funzione utilitaristica, ma il modello di rappresentazioni che descrive e che utilizza per configurare la realtà naturale e astronomica. Ma in linea di principio, il concetto di mappa che ricorre abitualmente nella comunicazione di ognuno di noi non è proprio un oggetto semiotico. Lo stesso Eco lo chiarisce in un breve scritto di [Eco 1992], in cui polemizza con una serie di argomenti sulla convinzione che la immagine riportata da una mappa sia la realtà effettiva di ciò che viene proposto da quella immagine. Se ciò fosse vero, la mappa sarebbe un oggetto semiotico, ma non lo è, almeno in base alla argomentazione del semiologo. Il fulcro di tutta la faccenda è interrogarsi quanto il significato di questo oggetto semiotico possa realmente identificarsi con la realtà naturale del mondo e dello Universo. La premesse fondamentale di questo ragionamento è che la mappa dovrebbe avere una estensione uguale alla realtà che descrive ed essere totalmente sovrapponibile a questa; in pratica, la scala di riferimento delle dimensioni dovrebbe essere di 1/1 m. Questa identificazione della scala di riferimento suggerisce dunque, che la mappa per essere un oggetto semiotico dovrebbe essere in tutte le sue parti la stessa realtà materiale e quindi, “sostituirsi” (come fa il segno linguistico al riferimento denotativo nella teoria linguistica tradizionale) a questa, prendendone il posto e il ruolo. Ci sono varie ragioni per cui ciò non è possibile e per cui si cadrebbe in alcune contraddizioni, ma quella più interessante e importante riguarda proprio la sovrapponibilità della mappa. Pensare che si possa avere una mappa estesa quanto il mondo, sospesa sopra il mondo e sovrapponibile sul mondo suggerisce la idea che il mondo della mappa sia una superficie sovrapposta al mondo reale e che questo ultimo sia un oggetto che può essere «impacchettato» da una superficie di pari dimensione.

Questo ultimo carattere rende la «mappa» non un oggetto semiotico, pur presentando informazioni e dati che possono comporre nella descrizione e rappresentazione di qualcosa, in questo caso della Terra. Il gruppo di informazioni e dati che compongono questa immagine non costituiscono un sistema di proprietà su cui poter determinare la connotazione di un significato, fondamentale nella formulazione di una analisi semiotica dello oggetto in questione. Pertanto, il piccolo giocattolo a forma di mappamondo di per sé è qualcosa di affine o di vicino a ciò che indicativamente pensiamo essere una «mappa», ma questa verosimiglianza non è sufficiente da intendere questa immagine la configurazione semantica di un significato. E tuttavia, ciò stupisce visto che si muove dalla presunzione che la immagine del mappamondo è la effettiva rappresentazione del mondo, del pianeta Terra. Il tema della sovrapponibilità cui faceva menzione la argomentazione di Eco ripropone il tema della simmetria geometrica, della equivalenza delle superfici piane che però, non possono proporsi per la immagine del mappamondo, perché la superficie del mappamondo non è una superficie piana, bensì è una curva. Le mappe attuali sono uno strumento descrittivo formidabile, ma del tutto incompatibile con tutti i casi citati da Eco nello scritto Astronomie Immaginarie, perché è assente in molte di quelle ricostruzioni il tema di come riprodurre su una superficie piana una realtà materiale che invece è più compatibile con una superficie curva. La stessa geometria euclidea trattava le superfici curve, dissertando di teoremi applicati ad una classe di oggetti molto speciali che sono i cerchi, ma lo approccio euclideo prevede la presunzione che tutti gli oggetti geometrici, compresi cerchi e circonferenze, abbiano un profilo costante e quindi, la loro analisi risulti compatibile con il criterio della proporzione, cioè siano incentrate su precise, conformi e ripetibili relazioni di equivalenza. La Terra non è un oggetto che ha una superficie dallo andamento costante e non è neanche una circonferenza perfetta. Tuttavia, quando il matematico alessandrino Eratostene determinò (con una approssimazione vicina al vero) il raggio della Terra compose un ragionamento geometrico di tipo euclideo.

Per avere una idea intuitiva dei problemi che intercorrono riguardo alla composizione della immagine di un mappamondo si consideri la seguente esperienza. Si prenda un palloncino su cui si disegna con un pennarello un triangolo e un segmento abbastanza lungo: il palloncino sgonfio ripropone a diverse condizioni una superficie piana tanto che se il triangolo disegnato è un triangolo equilatero, è possibile poter calcolare su quello oggetto il valore della diagonale mediante lo uso del noto teorema di Pitagora, quello per cui i2 = C2 + c2. Ma se si gonfia il palloncino, si avrà la stessa situazione? È il matematico tedesco Bernhard Riemann (1826-1866) a fornire la risposta a ciò, una risposta che è negativa: in una superficie curva non esiste più una geometria piana, cioè una geometria di tipo euclideo. Nel caso della esperienza indicata la linea retta disegnata sul palloncino si estende di una lunghezza maggiore di quella fissata dal disegno a palloncino sgonfio, in quanto la linea retta è diventata una linea curva, in seguito detta geodetica. Ciò accade perché il palloncino gonfio non è un oggetto euclideo come può essere un quadrato, per il quale la somma degli angoli interni è uguale a 360°, ma è un oggetto ellittico, per il quale la somma degli angoli interni è invece maggiore di 360°. Questo comincia a comprendersi con le geometrie non euclidee e tramite la definizione fornita dalla teoria della relatività del fisico tedesco Albert Einstein (1879-1955) che spiega come possa accettarsi la uguaglianza tra superficie piana e superficie curva.

Per capire il concetto einsteiniano si immagini una esperienza ideale, ma non troppo. Si supponga di osservare il movimento di due formiche appaiate su una superficie piana, ci si aspetterà che compiano un moto dal punto di inizio A al punto in cui termina la osservazione della esperienza, mettiamo al punto B. Durante il moto le due formiche procedono in modo parallelo e quindi manterranno la stessa distanza per tutto il tempo del movimento. Ora, si immagini le stesse due formiche, appaiate parallelamente, osservate a compiere lo stesso tragitto, ma su una superficie curva e non più piana. La osservazione riporta due esiti molto curiosi:

·         nel caso di una superficie curva e concava (dimensione ellittica), le due formiche procederanno in direzione del punto B e tenderanno ad avvicinarsi sempre più, fino addirittura ad incontrarsi;

·         nel caso di una superficie curva convessa (dimensione iperbolica), le due formiche procederanno verso B e tenderanno ad allontanarsi la una dalla altra.

  Ciò che stupisce da questo esperimento è la incapacità degli strumenti umani nel registrare questa situazione: si deve fissare il principio assoluto di una misurazione di tipo euclideo per osservare tale situazione e quindi, sottrarsi per così dire dal “giogo” della dimensione di appartenenza.

Ora, questo tipo di esperienza è alla base della formulazione della concezione relativistica della piega dello spazio formulata da Einstein facendo riferimento alle curve geodetiche di Riemann. Per comodità di esposizione, si può continuare a pensare allo spazio come una “normale” superficie piana (come vuole la geometria euclidea), ma dover ammettere la esistenza di forze notevoli che riescono a piegare questa superficie a tal punto da curvarla. Tali forze sono le forze di gravitazione dei pianeti e delle stelle. Esse producono per così dire una specie di avvallamento intorno allo oggetto gravitazionale tale da trasformare lo spazio attorno a sé come uno spazio curvo e non rettilineo. Tale curvatura non influisce solo sulla struttura dello spazio, ma anche nella struttura del tempo, il quale risulta dilatato oltre la misura ordinaria. È la nota tesi della curvatura spazio-temporale della teoria della relatività: su di essa si basa il famoso argomento dei gemelli e di tanti altri argomenti tesi a spiegare le varie contraddizioni legate alla dimensione del tempo e della velocità.

A questo punto si hanno alcune nozioni sufficienti per capire quanto segue. Riprendiamo il giocattolo del mappamondo da cui si è partiti allo inizio. Se la immagine del mappamondo è la trasposizione fedele della realtà del pianeta, basterebbe prendere riga e compasso e determinare le distanze da una località alla altra. Ma nel piccolo mappamondo non mi è possibile, perché è una superficie sferica e forse prendendo un mappamondo di dimensioni più grandi potrei in una certa misura utilizzare riga e compasso come se stessi misurando su una superficie piana. Per agevolarmi il lavoro, ricorro ad una carta geografica o ad una pagina di un atlante e usando riga e compasso inizio a determinare la distanza delle località che mi interessa. Il fatto di operare su carta mi illude sul fatto che la distanza che sto determinando è una grandezza non ipotetica, ma “reale”, cioè deve tenere in considerazione che non è rintracciabile così bellamente sulla mera superficie del foglio, ma che già il foglio in questione ha trasfigurato perfettamente ciò che la misurazione euclidea non riuscirebbe a calcolare. Per capire, se si prende uno stradario della propria città e si disegna su di esso un punto con la matita corrispondente alla propria abitazione, e a partire da questo punto disegnare il tragitto dalla propria casa verso il teatro della propria città, dove si sta tenendo la rappresentazione che ci interessa assistere, se la superficie del tragitto fosse piano per determinare la distanza che intercorre dalla propria casa dal teatro, basterebbe il noto teorema di Pitagora, infatti il valore della ipotenusa corrisponderebbe alla distanza da percorrere per giungere a destinazione; ma non è così, perché la superficie è curva e lo uso del teorema di Pitagora costringe a considerare i valori in termini assoluti. Questa è la geometria di Minkovski, dal nome del matematico tedesco Hermann Minkovski (1864-1909), che rilevò questa anomalia della applicazione della geometria euclidea.

La mappa dunque, come strumento cartografico rivela un fatto non facilmente accettabile e cioè che ogni misurazione geometrica che si compie sul pianeta non può essere euclidea, ma si muove nello ordine di una geometria ellittica, in quanto la superficie della Terra ha una struttura curva e la sua estensione è talmente grande rispetto alle dimensione di un singolo essere umano che è possibile continuare a formulare con successo misure e calcoli in termini euclidei, pur vivendo su una superficie curva. Ma tale consapevolezza, non osservabile dai sensi direttamente, esplicita un aspetto rimasta sottotraccia nel discorso di Eco sulla natura semiotica della mappa. La stessa formulazione di una mappa non è esente dalla attivazione di quei meccanismi che compongono la stessa immagine e visione del mondo, a tal riguardo la mappa può considerarsi un oggetto semiotico e tuttavia non lo è. Eppure, le valutazioni sul piano matematico che prevedono la possibilità di considerare il mondo un oggetto che può essere impacchettato da una superficie piana come è la carta geografica – e che Eco ha escluso! – attiva una serie di considerazioni che possono spiegarsi soltanto collocando queste considerazioni entro una complessiva e generale formulazione di tipo enciclopedico, vale a dire una formulazione che non escluda, ma raccolga insieme tutte le informazioni relative al tema in questione – pressappoco quel che fece lo stesso Einstein non escludendo a priori anche le formulazioni apparentemente meno condivisibili. Pertanto, pur non essendo un “vero” oggetto semiotico la definizione della mappa come strumento matematico di descrizione costringe la stessa matematica ad attivare valutazioni molto simili a quelle che un semiologo attiverebbe per un oggetto semiotico qualsiasi, il che rivela che in termini generali la composizione di un significato scientifico deriva da più registri e più fonti di analisi.

Porto Empedocle, 24/11/2021