lunedì 30 agosto 2021

Disordinate considerazioni sulla percezione contemporanea del mito

            Sembra che per poter ragionare sul mito, soprattutto sul mito classico (i miti greci), l’approccio quasi obbligatorio sia quello antropologico-filologico, approccio che è alla base dell’analisi storiografica ed ad un tempo socio-culturale dei racconti mitici. Ma anche alla base dell’inscrizione di tali racconti nell’immaginario contemporaneo e dunque, anche nel sistema della comunicazione attuale. Una parte dell’antropologia di inizio Novecento ha fortemente contestato quest’approccio, molto correlato ad una categorizzazione sociologica – uno su tutti lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1987) – privilegiando da un lato una lettura “fenomenologica” come nel caso dell’antropologo italiano Ernesto De Martino (1908-1965), dall’altro lato una lettura “realista” come nel caso del teologo e storico delle religioni tedesco Rudolph Otto (1869-1937); in ogni caso, in entrambe le direzione l’analisi del mito s’inscrive su una maggiore rivalutazione dell’esperienza religiosa sottesa in tali racconti, spesso elusa a vantaggio di un “disvalore” di tipo letterario: insomma, il mito non come una forma della dimensione dell’uomo, ma solo un genere letterario, ingenuo e fantasioso. Un’idea questa coerente con la stessa storia religiosa dell’Europa, una storia dove il prevalere del Cristianesimo Cattolico ha impostato i rapporti con le tradizioni arcaiche nell’ottica di un’assimilazione che inscrive il paesaggio pagano ed il sistema valoriale ad esso collegato o come momento propedeutico all’era cristiana o come superstiziose credenze inaccettabili nel quadro di una metafisica informata dagli schemi teologici che vengono a formularsi a partire dall’età tardo-antica. In questo scenario, la presenza dei miti arcaici è tollerata come genere letterario ed in fondo, anche perché funzionale alla strategia di evangelizzazione che i missionari cristiani realizzano nelle terre dell’Occidente latino prima, e poi in Oriente, basti pensare all’attività missionaria svolta in terra d’Albione.

            Certo, in un clima positivistico com’era la cultura occidentale di inizio Novecento l’idea di vedere in tali racconti una forma di razionalità, anziché farneticazioni fantastica non era facile da intendere e tuttavia, i convincenti lavori filosofici della Scuola di Tubinga che mutarono profondamente la visione intellettuale sui i miti della filosofia dell’ateniese Platone, creano le condizioni per cui il pregiudizio umanistico-rinascimentale sulle formule irrazionali iniziasse a sgretolarsi e laddove vigeva il discredito irrazionalista, ora s’impone una coscienza che intende magia, mito e istinto esempi di un’attività che ha una sua logica interna, seppur nelle vesti di un linguaggio figurato che gli uomini della civiltà contemporanea faticano ad intendere nella sua pienezza e ricchezza semantica, ammesso che abbia tutto ciò. Insomma, è tentare di invertire, se non di abolire un pregiudizio storiografico incentrato sul discredito razionalistico del significato dell’antica parola «muthos», un discredito che deriva dalla scissione di un suo significato sinonimo determinato dall’altra parola greca che è decisiva per il sapere filosofico, «logos». Il logos filosofico a partire dall’antico razionalismo greco inizia ad identificarsi con l’Essere ricercato dall’ontologia epistemologica greca e dalla sua metafisica descrivendo in questo modo un paesaggio concettuale astratto, lontano dall’immediatezza intuitiva del muthos che pare cedere dinanzi all’imporsi del nuovo fenomeno culturale. Eppure, sia logos che muthos hanno lo stesso significato, quello di «parola»: il discrimine verrà fissato a partire da Parmenide di Elea nel campo della comunicazione e del linguaggio, la filosofia infatti, rappresenta se stessa come attività scientifica, in quanto elabora i propri concetti e le stesse procedure di verifica tautologica tramite il precisare delle strutture del discorso filosofico, che con Platone e poi con Aristotele di Samo diventa discorso di scienza, dando forza alla pregiudiziale dicotomia parmenidea tra il discorso sulla Verità (dell’Essere) ed i discorsi (brotoi logoi) degli uomini che non esibiscono tale Verità e che Platone screditerà come mera “opinione”.

            Il mito è la cristallizzazione di una memoria arcaica, incapace di elaborare meccanismi così sofisticati e così altamente analitici come poteva essere la dialettica filosofica prima, e l’analisi logica delle categorizzazioni poi. E quindi, il mito pur muovendosi secondo la struttura logica della dicotomia, proprio la stessa dell’analisi filosofica, non riesce a trarre dal confronto delle opposizioni, mascherate con elementi figurativi, quella sola ed unica Verità che dissolve il conflitto dicotomico e che dà a tale scontro quella presunta ricchezza semantica che molta della filosofia di epoche recenti ritiene di cogliere tramite letture esegetiche. Classico è quella forma che non smesso di dire qualcosa all’umanità, è l’adagio noto raccontato da qualcuno ed a cui sovente siamo disposti a credere, forse scioccamente…

            Insomma, per una parte del sapere antropologico di inizio XX secolo il mito arcaico è essenzialmente un’epifania, una manifestazione di una realtà che per sua natura è estranea alla dimensione degli uomini – la cosiddetta realtà profana – e quindi, come tale deve ammettere una considerazione molto ad hoc, ma tali insigni studiosi non sospettavano che anche questa posizione non è salda fino in fondo e che il mito è tale anche in condizioni che esulano una diretta esperienza religiosa fondante. Il mito si configura anche a partire dal suo essere una forma letteraria, proprio ciò che gli insigni studiosi di cui si diceva prima contestavano. Ma ciò lo si è appreso da un lato con l’attuale e migliore conoscenza delle strutture narrative della comunicazione e dall’altro lato con la pubblicazione di opere che hanno finito per assurgere a questo ruolo di nuove «mitologie» contemporanee. La più nota e quella maggiormente influente è la saga di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), Il Signore degli Anelli (1954). Un’opera letteraria questa che ha creato una sapiente fusione di due delle principali tradizioni mitologiche, la tradizione nordica e la tradizione classica, e pur non scaturente in maniera canonica da una vera e propria esperienza religiosa, l’opera può essere letta come una poderosa trasfigurazione di varie esperienza, su tutte quella traumatica della Prima Guerra Mondiale. In tal senso, il racconto de Il Signore degli Anelli può definirsi una narrazione mitologica? In una certa misura, credo di sì e molti commentatori la propongono e facendo così non è un’eresia o un’offesa, anche se le motivazioni che risiedono alla sua stesura non sono del tutto riconducibili a quella di un’esperienza religiosa in senso stretto.

Ora, il punto meritevole di considerazione è appunto questa correlazione tra la struttura del mito ed i suoi intrecci con le ordinarie strutture della comunicazione umana e delle controverse formule immaginifiche (immaginario) che appartengono al pensiero diffuso nella società che l’ha elaborata. Una correlazione questa che spinge inevitabilmente a verificare la veridicità del racconto mitico, a verificare il suo ancoramento alla realtà materiale della civiltà dell’epoca, a verificare il modulo logico-concettuale che presiede alla sua stessa formulazione ed elaborazione. Ciò descrive (o si fonda) probabilmente quella continuità storico-letteraria su cui ha ragionato l’ermeneuta tedesco Hans Georg Gadamer (1900-2002) nelle sue opere – ciò che questo filosofo intende con il termine «attualizzazione», ma tale correlazione non come può intuirsi una prerogativa esclusiva del mito.

L’attualità gadameriana del mito diventa il pretesto narrativo, diciamo così, o più semplicemente la chiave di lettura di un documentario trasmesso da History Channel con il titolo di Clash Of The Gods [tr. Lo scontro degli dei], realizzato dalla A&E Television Networks nel 2009. Il documentario infatti, è un itinerario composto da dieci episodi dove vengono descritti e verificati alcuni dei miti più iconici e fondamentali della cultura antica, in particolare di quelli che si sono conservati quasi intatti nell’immaginario umano attuale. Un excursus che vuole appunto, verificare quanto ci sia di reale dietro il linguaggio figurato del mito e quanto le vicende narrate abbiano un concreto contenuto di verità. Una direzione espositiva che non è solo motivata da esigenze commerciali di un prodotto rivolto ad un pubblico generalista e non specializzato, ma anche da una esigenza insita nel metodo comparativo dell’approccio epistemologico intrapreso. La comparazione lascia che gli orpelli intuitivi intrecciati nel racconto mitico cedano dinanzi ad un’evidenza oggettiva, che dà al mito sia una diversa profondità, sia una dimensione realistica che lo libera dal confinamento di genere imposto dalla sua natura letteraria. Il mito non più come il racconto fantastico di vicende improbabili, ma la forma con cui gli antichi descrivessero situazioni realmente presenti nel loro vissuto. E quindi, si và attraverso alcune delle figure fondamentali della mitologia classica greca – i primi sette episodi – per lambire due delle figure centrali della mitologia nordica (Beowulf e Thor), a cui si aggiunge – ecco il motivo “commerciale” – un breve capitolo su Il Signore degli Anelli del citato Tolkien.

Se si prova a questo punto, di vincere il fastidio che il concetto di “fantasy” possa suscitare in menti educate al piacere dei classici antichi, si converrà che il documentario fa proprio l’atteggiamento proposto dalla citata antropologia di inizio Novecento, dando in questo modo al mito quella dimensione di oggetto popolare che gli studi accademici e letterari hanno sacrificato in nome di un’estetica classicista troppo autoreferenziale. In ogni caso, quest’attenzione alla consonanza con il sentimento e l’immaginario attuale di questi antichi miti non è il motivo per sacrificare la puntualità scientifica, preservata dai dati archeologici e dalle testimonianze letterarie che compongono una valutazione oggettiva del mito. Riferimenti oggettivi che non evitano le molte suggestioni intellettuali e le varie ipotesi accattivanti, ma in ogni caso indiziarie, cioè sostenute da elementi che non sono punti di certezza, bensì solo indizi che alimentano la fantasia, le ipotesi appunto su eventi di cui noi contemporanei non abbiamo completa contezza. E tuttavia, non si può sfuggire al costante parallelismo che questi contenuti intrattengono con il Cristianesimo: non si può evitare di raccontare l’assunzione in cielo di Ercole senza che il pensiero vada all’assunzione di Gesù di Nazareth come Cristo, seduto alla destra del padre; oppure, vedere nella morte e resurrezione dello stregone Gandalf il Grigio de Il Signore degli Anelli una sorta di trasposizione della rinascita cristiana dell’homo novus, fissato dalle candide vesti del personaggio; senza dimenticare che la stessa Resurrezione di Gesù nel Cristo è ciò che fissa una rottura insanabile con la stessa cultura pagana, dove vige il divieto dell’insuperabilità della morte, divieto fissato dal lugubre mito di Ade: Gesù Cristo rinascendo a nuova vita vince la morte e con essa infrange il tabù antico per cui nessun uomo una volta giunto nell’Oltretomba può abbandonarla.

L’idea di fondo, pervicace ed affascinante, è quella di intendere appunto il mito allo stesso modo degli archetipi di Gustav Jung, vale a dire formule che fissano in maniera sovratemporale ed assoluta realtà umane che rimangono sedimentate nel ricordo inconscio del linguaggio figurato mitologico. In tal senso, il racconto non può essere più inteso come un narrare autoreferenziale, ma come l’esposizione di una realtà connatura all’essere umano. Accettare tuttavia, questo taglio interpretativo significa ammettere che esista un intreccio tra la stessa struttura del mito e le forme della comunicazione, seppur strutture pensate ed elaborate da società e da civiltà molto distanti dalla civiltà contemporanea, sia per ragioni storiche, sia per sensibilità materialistica. E dunque, può accadere quanto già evidenziato da alcuni libri del semiologo italiano Umberto Eco (1932-2016) e cioè il sussistere a livello di immaginario e di comunicazione ordinaria una continuità delle strutture narrative, oltre che una loro intrinseca confusione ed aggrovigliamento, che determina un’attività ed una persistenza in contesti (pubblico e/o destinatari) profondamente differenti, se non antitetici, a quelli originali. Una versatilità che deriva dalle strutture linguistiche che permette l’inscrizione di immagini e di situazioni nella diffusione di una sapienza popolare trasversale e comune a tutti gli uomini di epoche diverse. Una sincronia quasi perfetta che finisce per (ri)scoprire nel mito del Minotauro il ricordo terrificante ed inquietante del cannibalismo e dei sacrifici umani, pratiche che la civiltà dei Greci ha abbandonato e che ha costantemente demonizzato: ciò è uno dei tanti vanti che gli stessi Greci arrogavano a loro stessi ed alla loro civiltà, considerata un’eccellenza di tutto il mondo antico. Ma la lotta di Perseo contro il Minotauro è in fondo, la trasposizione quasi freudiana dell’affermazione politico-militare della città di Atene nella sua fase di espansione e definizione della propria struttura di polis, la struttura di una nuova potenza in questa parte del mar Mediterraneo interamente votata all’esaltazione di una civiltà razionalista e caratterizzate da strutture politiche di tipo democratico – attitudine che manifesterà la civiltà europea in epoca Umanistico-Rinascimentale.

Una percezione molto evidente agli antichi Greci, un po’ meno da parte degli uomini contemporanei, i quali potrebbero – e qualche commentatore nel documentario lo ha fatto! – associare i personaggi del mito non più a vere e proprie categorie sociologiche (orrore, aah!), ma a dei personaggi pop: l’equipaggiamento magico di Perseo, con cui l’eroe dell’Attica uccide il mostro Medusa può intendersi alla stregua dei vari gadget mirabolanti dell’agente segreto di Ian Flemming, Agente 007 James Bond. Il contesto d’avventura, ma anche le stesse formule esteriori legittimano quest’associazione.

Nel racconto fatto dal documentario citato una posizione atipica è quella del mito di Ulisse, non solo perché più ampiamente documentato – è noto che l’antico poeta Omero dedicò al personaggio un intero poema, l’Odissea – ma anche perché lo status d’eroe che contraddistingue Ulisse è atipico nella formulazione degli eroi classici. Ulisse, è il re di Itaca, un’isola che si trova nell’area occidentale della Grecia, e fa parte della compagine militare composta per la guerra di Troia, voluta dal re di Sparta Menelao, in quanto offeso dal rapimento della propria regina da parte del troiano Paride. Gran parte delle notizie su Ulisse sono letterarie e tutte ritrovabili nel menzionato poema di Omero, il documentario in questione si limita a verificare se esistano riferimenti reali alle vicende omeriche: e molti indizi confermano gran parte degli avvenimenti omerici. La descrizione di questi indizi tuttavia, mirano a rilevare la struttura atipica del mito di Ulisse: l’eroe omerico ha tratti talmente specifici che lo collocano entro un registro differente rispetto a quello usuale dell’eroismo classico, cioè Ulisse non è né un Teseo, né un Ercole e tuttavia, agisce e decide entro uno scenario in cui l’avventura s’intreccia con il determinismo di un ordine divino della realtà. Anche Ulisse si trova al centro di una baruffa tra dei, nel mezzo di un piano di ritorsione ai suoi danni (gli ostacoli al suo ritorno al suo regno) da parte di divinità accigliate e via dicendo. Elementi che suggeriscono un’evidente stereotipia del personaggio e tuttavia, Ulisse, di preferenza, agisce secondo un ordine d’idee che non è proprio di un eroe classico; Ulisse è colui non è un semi dio (come Ercole) e non lo diventerà nel corso della sua storia; inoltre, Ulisse fa valere l’ingegno, l’astuzia e l’inganno e non la forza della violenza guerriera (come Teseo), di ciò infatti, rimane iconico l’episodio dell’inganno del Cavallo di legno, cioè dello stratagemma che ha permesso ai Greci di concludere finalmente la decennale guerra con Troia. Ma tale sua atipicità nel registro dell’eroismo antico si caratterizza per un’altra ragione.

Come rivela l’altro grande poema omerico, l’Iliade, le varie azioni degli eroi, sia greci che troiani, sono soggette al successo o alla disfatta come ogni attività umana, ma ogni impresa è sempre ed incondizionatamente influenzata dall’intervento degli dei: in molti casi, le stessa gesta eroiche sono motivate (e giustificate dal mito) anche da banalissimi capricci o da paranoie sessuali proprie del dio (vedasi il mito di Medusa); insomma, lo eroismo di questi personaggi si colloca sotto una «copertura» divina che garantisce il superamento degli ostacoli e rassicura sulla riuscita dell’impresa stessa. L’eroe classico dà la sensazione evidente di essere una marionetta nelle mani del fato e della volontà divina, spesso cieca e senza un apparente motivazione: non esiste in tale registro nessuna forma di provvidenzialismo, né di tipo metafisico, né di tipo storico, tranne forse nella stessa struttura narrativa del mito che ricostruisce, commemora e “ricorda” gli eventi narrati. Ebbene, le scelte, le strategie e le azioni di Ulisse, molte delle quali devono intendersi incredibilmente sciagurate, non si realizzano in questo paesaggio, anzi molte delle quali sono tali che hanno nefaste conseguenza nel suo viaggio di ritorno in patria, ma che sembrano non modificare in alcunché la struttura del personaggio: la morte di tutto il suo equipaggio a.e., sembra non indurre l’eroe a ripensare tutto il suo modus operandi ed il modello decisionale che utilizza. Un esempio di questo sono i molti episodi in cui, seppur tragicamente, Ulisse instilla la furia delle divinità che governano le forze della natura che lo ostacolano; su tutte il potente dio del mare Poseidone, la cui furia è stata suscitata da fatti gravi come l’uccisione del ciclope Polifemo, oppure colpevoli disattenzioni come lasciare incustodita la sacca dei venti regalatagli dal dio del vento Eolo, la cui apertura scatena tempeste che fanno perdere la rotta di casa. Approssimazione, incuria e arroganza sono sì caratteristiche tipicamente umane, ma sono proprio quei tratti che mettono costantemente a rischio la stessa impresa e Ulisse sembra proprio non curarsene e tuttavia, pur dopo venti anni dalla fine della guerra di Troia, giunge in patria, salva il suo trono e ottiene nuovamente l’amore (fedele) della moglie Penelope, mentre l’eroe si svagava tra le braccia di ninfe e maghe sparse tra le sponde del mar Mediterraneo.

E pensare che durante il suo viaggio Ulisse incontra figure che lo aiuteranno e che gli daranno alcuni suggerimenti preziosi, tra questi l’anima dell’indovino Tiresia, che l’eroe incontra nell’Oltretomba e che lo indirizza verso la terra dei Feaci, dove sbarcherà pacificamente, ma dove trasgredirà il divieto – non lui in persona, ma il suo equipaggio – di uccidere alcune vacche sacre di proprietà di Apollo; quest’ultimo infuriato sobilla Poseidone affinché punisse l’affronto e così, un’altra tempesta marina, altri ostacoli, altro tempo buttato. Certo, l’imprevisto e la fatalità delle proprie decisioni sono i tratti tipici dell’azione umana ed in ciò Ulisse dà una coerente descrizione della propria natura umana, tuttavia questa natura anziché costringerlo a limare e a modificare il suo agire sembra esprimersi senza alcuna forma di temperamento. A suo modo infatti, la nota terzina (Inf., XXVI) della Divina Commedia di Dante Alighieri ha voluto fissare proprio questo tratto del personaggio di Ulisse. Contrariamente al messaggio dantesco, proprio questa terzina, presa fuori contesto, ha finito per definire un fortunato stereotipo dell’eroe omerico, tanto da farlo come simbolo dell’audacia e dell’ingegno umano, una figura di assoluto valore e di riconoscimento per tutta l’umanità, peccato che per Dante fosse tutt’altro, l’esempio di una furbizia a volte utile, ma rovinosa in generale e di certo, non un bello esempio di intelligenza, visto che non è riuscito ad evitare o almeno a scansare le sciagure che gli si sono parate incontro.

Tuttavia, proprio il mito di Ulisse e soprattutto la sua permanenza e collocazione nell’immaginario contemporaneo indica appunto, non solo la versatilità del racconto mitico – versatilità propria delle strutture narrative -, ma anche il modo in cui il mito “agisce” negli attuali meccanismi di costruzione dell’informazione e dei contenuti. Un’attualità che gli deriva da un lato dal fatto che racconta situazioni dal valore assoluto e quindi, predisposte ad essere generalizzate ed elevate a genere vero e proprio, ma gli deriva dall’altro lato dal continuo lavorio (semiosi) che subiscono le strutture della comunicazione. L’attività costante sui riferimenti sul modello interpretativo di Charles Sanders Pierce e fissato dal concetto di «oggetto dinamico» di Umberto Eco indica nel mito un vero e proprio dispositivo dove la produzione di segni è un’attività di revisione ed aggiornamento di tali “segni”, suggerendo per il mito un’immagine di materia magmatica sensibile alle direzioni della percezione narrativa del pubblico o del destinatario di tale contenuto: l’ermeneutica filosofica parlerebbe di «attualità», ma ciò lascerebbe trasparire solo una presunta verità ontologica che forse esiste, ma non gli effetti di un diffuso opportunismo comunicativo che manipola tutti i contenuti comunicativi – compreso il racconto mitico – in base ad un’occorrenza, sempre diversa, sempre uguale nella composizione degli argomenti.

Ciò giustifica e rende possibile le letture sinottiche di tali contenuti, tanto che i registri possono non solo toccarsi, ma anche intrecciarsi e sovrapporsi quasi naturalmente, tanto da divenire a suo modo fonte storica, oltre che documento letterario su cui insiste una parte del pensiero sociale, assimilandolo e facendone parte integrante della propria storia letteraria. Ed ecco la confusione dell’ideale aristotelico dell’uomo come essere razionale, così descritto nel Metafisica secondo una visione deterministica, con l’immagine dell’eroe omerico, che a ben guardare ha veramente poco dell’ideale razionalistico, ma tant’è…

Pertanto, continuando a fantasticare seguendo questa direzione di magmatica revisione dei contenuti mitici e dei racconti fantastici tramite la manipolazione delle strutture dell’immaginario, le comparazioni, oltre che le sovrapposizioni, possono essere tante. Una interessante è quella di comparare il finale delle avventure dell’eroe omerico con quello di un eroe letterario, ma che ha assunto nella percezione contemporanea una statura più densa di quella di una mera figura letteraria. Ne Il Signore degli Anelli di Tolkien le vicissitudini dell’hobbit Frodo Beggins hanno un termine di paragone con il viaggio di Ulisse, nel senso che entrambi compiono il loro viaggio motivato da uno scopo preciso ed entrambi, a loro modo, riescono a portarlo a termine. Ciò che li differenzia sono il modo in cui realizzano questo scopo e le conseguenze patite dopo aver svolto il compito. Tra i due Frodo Beggins è un personaggio sfortunato, perché la riuscita dell’impresa è un fatto dettato dalla casualità – poco prima di gettare l’anello fatato nella bocca del vulcano, l’hobbit cede alla tentazione dell’anello e l’indossa, vanificando tutti gli sforzi ed i sacrifici fatti in quel momento – e perché il piccolo hobbit tornerà nella sua regione profondamente provato, sconvolto e stravolto, tanto che abbandonerà la sua casa e si rifuggerà in una terra che non è quella sua natale. Indossando l’anello, Frodo Beggins si mostra ai suoi nemici e nel momento determinante di distruggere l’anello, intervenendo il grave ripensamento che segnerà per sempre l’hobbit, viene aggredito da Gollum, un mostruoso essere posseduto dalla smania di possesso dell’anello, che gli stacca di netto con un morso il dito su cui Frodo Beggins aveva indossato l’anello. Nella concitata gioia di Gollum di essere tornato in possesso dell’oggetto fatato, scivola rovinosamente nel cratere del vulcano, morendo e distruggendo l’anello. Una bizzarra iattura, ma che dà la cifra di come una struttura narrativa possa produrre scenari alternativi, pur rimanendo assolutamente riconoscibile e ripetitiva. Frodo Beggins descrive in tutto e per tutto il suo essere antieroe, cioè il suo essere colui a cui viene affidato un compito che non gli appartiene per sua natura e che in fondo, non realizzerà, se non per vie casuali.

In ciò risiede l’eccezionalità de Il Signore degli Anelli ed anche ciò che difficilmente lo potrebbe accostare alla tradizione mitologica a cui siamo abituati, tuttavia tale eccezionalità è solo esteriore, in quanto tutta la materia narrativa è costruita secondo un ordine che recupera e rielabora sistemi mitologici pre-esistenti – è riconoscibile la mitologia nordica, come la mitologia classica -, ma tale rielaborazione non segue più i criteri di una tradizionale e consolidata letteratura mitica. Tale tradizione viene riconvertita e manipolata quanto basta per lasciar affiorare qualcosa di differente, inedito forse. Ora, se ciò può scandalizzare, in quanto si osserva una eccessiva versatilità del materiale mitico, soprattutto in relazione con un’opera letteraria, che occupa una precisa collocazione di genere, in realtà è uno dei tratti costanti del mito, quello cioè di subire manipolazioni che lo rendano assimilabile a sistemi di riferimento eterogenei al contesto originario, quello stesso da cui è stato elaborato. Il tema che evidenzia questa natura, ambigua ed eclettica ad un tempo, del mito sono a.e. i controversi rapporti associativi con il Cristianesimo. In diversi momenti il documentario menzionato sopra mette in evidenza, più che altro come suggestioni possibili, alcune sovrapposizioni, quelle stesse che facevano intendere la filosofia di Lucio Anneo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.) come proto-cristiana al filosofo Giovanni Reale. Suggestioni, dolci, a volte fuorvianti, altre demagogiche, ma che indicano chiaramente il livello su cui operano i processi di composizione del racconto mitico; un livello che agisce sull’attività della produzione umana di segni, di forme di rappresentazione della realtà (simbolizzazione), di individuazione analitica di ragioni esplicanti questa stessa realtà.

Ora, se la nostra tradizione letteraria ed il nostro sistema educativo ci hanno ampiamente abituato a ritenere questi contenuti come familiari, anche se non lo sono e non dovrebbero neanche esserlo visto che si crede al mito dell’Europa cristiana, l’intreccio tra Cristianesimo e Mito è meno evidente di quel che si creda. Anzi, in epoche passate ha rappresentato un’efficace strategia di conversione delle popolazioni pagane, che hanno trovato in questi racconti mitici, rielaborati il motivo per abbracciare una fede religiosa estranea e che ha dovuto in alcuni casi faticare per imporsi sui costumi e sulle abitudini religiose. Si può essere restii nel leggere alcuni miti in ottica di fede – si pensi al mito relativo alla morte di Ercole o ai miti relativi alla discesa umana nell’Oltretomba -, da un lato perché sussiste una pregiudizialità ateo-materialista, propria della cultura europea che le deriva da residui illuministici, dall’altro lato perché la stessa teologia cattolica mal tollera questo tipo di descrizione dei contenuti della fede, in quanto espressione di un approccio “irrazionale”, mentre la fede è un fatto “naturale” (razionale) e descrivibile quindi, con strumenti dialettici. E tuttavia, questa commistione in alcune epoche ha permesso un’evangelizzazione efficace ed in molti casi incruenta. L’esempio tipico è ciò che accade alla mitologia nordica.

Sulla mitologia nordica il documentario della A&E Television si concentra solo su due figure in particolare, quella dell’eroe scandinavo Beowulf e quella dei dio norreno Thor. Su questa selezione mi limito a dire che entrambe le figure descrivono chiaramente due differenti modi in cui interviene il rapporto tra la fede cristiana ed il racconto mitico, ovviamente nella strategia di un’evangelizzazione delle regioni continentali della Europa. Infatti, i due eroi nordici sono la rappresentazione di due differenti esiti della strategia di evangelizzazione cristiana; nel caso di Beowulf una strategia che assimila la fede cristiana all’antico sistema di valori delle popolazioni del Nord Europa, che trasforma il significato dell’arcaico concetto di eroe nordico in un modello (vincente) di eroe della fede, anche se Beowulf non è un convertito: Beowulf è un guerriero cristiano, che però tiene smodatamente ai valori guerrieri del suo popolo, ma in compenso ha un enorme rispetto per il codice dei guerrieri, per quell’etica governata dai principi della fede e per quell’attitudine che è improntata all’aiuto e al rispetto del prossimo. Insomma, è l’eroe nazionale che la nuova fede promuove e che definirà il nuovo modello di eroe-guerriero nella tradizione nordica. Più complicato è il rapporto descritto dalla figura del dio del tuono della tradizione norrena Thor. Il culto religioso di Thor ha segnato una profonda spaccatura nelle popolazioni di area celtica, dove sussistette una dura resistenza non solo alla diffusione del nuovo credo religioso, ma anche alla modifica delle tradizionali strutture socio-politiche dei territori in questione. Una guerra incerta, anche perché per un certo periodo la resistenza aveva avuto la meglio ed il Cristianesimo si impose faticosamente in queste aree, però anche in questo caso la strategia di assimilazione del nuovo credo procedeva secondo la consueta strategia, riconversione del materiale mitico precedente entro uno scenario di un Cristianesimo trionfante ed aurorale: la convinzione che tutto il materiale mitico nordico potesse essere riletto come una situazione propedeutica all’affermazione del Cristianesimo trova appiglio in alcuni episodi del mito, su tutti quello relativo alla morte di Thor e del Ragnarok.

L’estinzione degli antichi dei, prevista ed accettata dall’antico sistema mitico, offre l’opportunità di convertire l’età apocalittica, cioè da fine del mondo, nel racconto biblico della creazione. Infatti, la morte degli dei lascia sulla terra solo due esemplari di uomini, un uomo ed una donna, che nella nuova narrazione cristiana iniziano ad assumere i tratti dei progenitori dell’umanità Adamo ed Eva. In questo modo, l’estensione e sovrapposizione del racconto del libro della Genesi creano le condizioni affinché l’arcaico sistema mitologico nordico scivoli in via del tutto spontanea entro lo scenario della fede mediterranea, legittimando così una convivenza non solo possibile, ma anche veritiera tra le passate tradizioni ed il nuovo credo.

In conclusione, l’esigenza epistemologica di verificare e confrontare i contenuti del mito con validi e convincenti dati di realtà è chiaramente una motivazione inscritta nell’attuale metodo scientifico, che spinge verso un riscontro verificabile delle conclusioni e dei dati analizzati, tuttavia quest’esigenza non può limitare, né eludere il fatto che la materia del mito sia di per sé una realtà che si colloca su un piano trascendente alla stessa realtà che pretende di descrivere. Una trascendenza che le deriva dalle strutture narrative, che riescono a gestire e spesso a semplificare le tante incongruenze che il linguaggio figurato cela sotto alcune sorprendenti forme sensibili. Tuttavia, è proprio questo potere estetico-euristico del mito a consegnarci un dispositivo che in una certa misura ci ricorda come funzioni l’umana percezione delle cose e come l’uomo abbia costantemente utilizzato certi processi di costruzione di riferimento che sono propri del racconto mitico e che hanno una intrinseca razionalità pre-scientifica. Beninteso, per «razionalità pre-scientifica» deve intendersi non tanto una logica dell’irrazionale, ma una razionalità che si affida unicamente alla verifica ed alla validità dell’esperienza intuitiva, un meccanismo che non sarà difforme per molto tempo da quello a cui farà ricorso la stessa filosofia prima dell’affermazione vittoriosa dell’empirismo e prima delle restrizioni imposte dal metodo sperimentale. L’attuale conoscenza dei processi di comunicazione ed una maggiore sensibilità degli effetti mistificatori delle strutture narrative ci permettono di rileggere le strutture del mito nei termini di una continua mutazione di tali strutture in forme stereotipate della comunicazione di massa e della cultura popolare attuale, tanto da creare forme e formule narrative che sono ampiamente diffusione oggi, anche se sotto un’etichettatura di genere tipo fantasy et similia, ma ci permettono anche di inserire tali strutture negli stessi processi di produzione culturale tramite la commistione ed in alcuni casi anche la contaminazione di linguaggi narrativi – es. cinema o fumetto – che abbattono i limiti di un’estraneità storica e rende prossimo, addirittura troppo vicino, ciò che in altri tempi avrebbe legittimato formule linguistiche come «C’era una volta…» o «in illo tempore».

 

Porto Empedocle, 30 agosto 2021