Sembra che per poter ragionare sul mito, soprattutto sul mito classico (i miti greci), l’approccio quasi obbligatorio sia quello antropologico-filologico, approccio che è alla base dell’analisi storiografica ed ad un tempo socio-culturale dei racconti mitici. Ma anche alla base dell’inscrizione di tali racconti nell’immaginario contemporaneo e dunque, anche nel sistema della comunicazione attuale. Una parte dell’antropologia di inizio Novecento ha fortemente contestato quest’approccio, molto correlato ad una categorizzazione sociologica – uno su tutti lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1987) – privilegiando da un lato una lettura “fenomenologica” come nel caso dell’antropologo italiano Ernesto De Martino (1908-1965), dall’altro lato una lettura “realista” come nel caso del teologo e storico delle religioni tedesco Rudolph Otto (1869-1937); in ogni caso, in entrambe le direzione l’analisi del mito s’inscrive su una maggiore rivalutazione dell’esperienza religiosa sottesa in tali racconti, spesso elusa a vantaggio di un “disvalore” di tipo letterario: insomma, il mito non come una forma della dimensione dell’uomo, ma solo un genere letterario, ingenuo e fantasioso. Un’idea questa coerente con la stessa storia religiosa dell’Europa, una storia dove il prevalere del Cristianesimo Cattolico ha impostato i rapporti con le tradizioni arcaiche nell’ottica di un’assimilazione che inscrive il paesaggio pagano ed il sistema valoriale ad esso collegato o come momento propedeutico all’era cristiana o come superstiziose credenze inaccettabili nel quadro di una metafisica informata dagli schemi teologici che vengono a formularsi a partire dall’età tardo-antica. In questo scenario, la presenza dei miti arcaici è tollerata come genere letterario ed in fondo, anche perché funzionale alla strategia di evangelizzazione che i missionari cristiani realizzano nelle terre dell’Occidente latino prima, e poi in Oriente, basti pensare all’attività missionaria svolta in terra d’Albione.
Certo, in un clima positivistico
com’era la cultura occidentale di inizio Novecento l’idea di vedere in tali
racconti una forma di razionalità, anziché farneticazioni fantastica non era facile
da intendere e tuttavia, i convincenti lavori filosofici della Scuola di
Tubinga che mutarono profondamente la visione intellettuale sui i miti della
filosofia dell’ateniese Platone, creano le condizioni per cui il pregiudizio
umanistico-rinascimentale sulle formule irrazionali iniziasse a sgretolarsi e
laddove vigeva il discredito irrazionalista, ora s’impone una coscienza che
intende magia, mito e istinto esempi di un’attività che ha una sua logica
interna, seppur nelle vesti di un linguaggio figurato che gli uomini della
civiltà contemporanea faticano ad intendere nella sua pienezza e ricchezza
semantica, ammesso che abbia tutto ciò. Insomma, è tentare di invertire, se non
di abolire un pregiudizio storiografico incentrato sul discredito razionalistico
del significato dell’antica parola «muthos», un discredito che deriva dalla
scissione di un suo significato sinonimo determinato dall’altra parola greca
che è decisiva per il sapere filosofico, «logos». Il logos filosofico a partire
dall’antico razionalismo greco inizia ad identificarsi con l’Essere ricercato
dall’ontologia epistemologica greca e dalla sua metafisica descrivendo in
questo modo un paesaggio concettuale astratto, lontano dall’immediatezza
intuitiva del muthos che pare cedere
dinanzi all’imporsi del nuovo fenomeno culturale. Eppure, sia logos che muthos hanno lo stesso significato,
quello di «parola»: il discrimine verrà fissato a partire da Parmenide di Elea
nel campo della comunicazione e del linguaggio, la filosofia infatti,
rappresenta se stessa come attività scientifica, in quanto elabora i propri
concetti e le stesse procedure di verifica tautologica tramite il precisare
delle strutture del discorso filosofico, che con Platone e poi con Aristotele
di Samo diventa discorso di scienza, dando forza alla pregiudiziale dicotomia
parmenidea tra il discorso sulla Verità (dell’Essere) ed i discorsi (brotoi logoi) degli uomini che non
esibiscono tale Verità e che Platone screditerà come mera “opinione”.
Il mito è la cristallizzazione di
una memoria arcaica, incapace di elaborare meccanismi così sofisticati e così
altamente analitici come poteva essere la dialettica filosofica prima, e
l’analisi logica delle categorizzazioni poi. E quindi, il mito pur muovendosi
secondo la struttura logica della dicotomia, proprio la stessa dell’analisi
filosofica, non riesce a trarre dal confronto delle opposizioni, mascherate con
elementi figurativi, quella sola ed unica Verità che dissolve il conflitto
dicotomico e che dà a tale scontro quella presunta ricchezza semantica che
molta della filosofia di epoche recenti ritiene di cogliere tramite letture
esegetiche. Classico è quella forma che non smesso di dire qualcosa
all’umanità, è l’adagio noto raccontato da qualcuno ed a cui sovente siamo
disposti a credere, forse scioccamente…
Insomma, per una parte del sapere
antropologico di inizio XX secolo il mito arcaico è essenzialmente un’epifania,
una manifestazione di una realtà che per sua natura è estranea alla dimensione
degli uomini – la cosiddetta realtà profana – e quindi, come tale deve
ammettere una considerazione molto ad hoc, ma tali insigni studiosi non
sospettavano che anche questa posizione non è salda fino in fondo e che il mito
è tale anche in condizioni che esulano una diretta esperienza religiosa
fondante. Il mito si configura anche a partire dal suo essere una forma
letteraria, proprio ciò che gli insigni studiosi di cui si diceva prima
contestavano. Ma ciò lo si è appreso da un lato con l’attuale e migliore
conoscenza delle strutture narrative della comunicazione e dall’altro lato con
la pubblicazione di opere che hanno finito per assurgere a questo ruolo di
nuove «mitologie» contemporanee. La più nota e quella maggiormente influente è
la saga di John Ronald Reuel Tolkien
(1892-1973), Il Signore degli
Anelli (1954). Un’opera letteraria questa che ha creato una sapiente
fusione di due delle principali tradizioni mitologiche, la tradizione nordica e
la tradizione classica, e pur non scaturente in maniera canonica da una vera e
propria esperienza religiosa, l’opera può essere letta come una poderosa
trasfigurazione di varie esperienza, su tutte quella traumatica della Prima
Guerra Mondiale. In tal senso, il racconto de Il Signore degli Anelli può definirsi una narrazione mitologica? In
una certa misura, credo di sì e molti commentatori la propongono e facendo così
non è un’eresia o un’offesa, anche se le motivazioni che risiedono alla sua
stesura non sono del tutto riconducibili a quella di un’esperienza religiosa in
senso stretto.
Ora, il punto meritevole di
considerazione è appunto questa correlazione tra la struttura del mito ed i
suoi intrecci con le ordinarie strutture della comunicazione umana e delle
controverse formule immaginifiche (immaginario) che appartengono al pensiero
diffuso nella società che l’ha elaborata. Una correlazione questa che spinge
inevitabilmente a verificare la veridicità del racconto mitico, a verificare il
suo ancoramento alla realtà materiale della civiltà dell’epoca, a verificare il
modulo logico-concettuale che presiede alla sua stessa formulazione ed
elaborazione. Ciò descrive (o si fonda) probabilmente quella continuità
storico-letteraria su cui ha ragionato l’ermeneuta tedesco Hans Georg Gadamer (1900-2002) nelle sue opere – ciò che questo filosofo intende con il termine
«attualizzazione», ma tale correlazione non come può intuirsi una prerogativa
esclusiva del mito.
L’attualità gadameriana del
mito diventa il pretesto narrativo, diciamo così, o più semplicemente la chiave
di lettura di un documentario trasmesso da History Channel con il titolo di Clash Of The Gods [tr. Lo scontro degli dei], realizzato dalla
A&E Television Networks nel 2009. Il documentario infatti, è un itinerario
composto da dieci episodi dove vengono descritti e verificati alcuni dei miti
più iconici e fondamentali della cultura antica, in particolare di quelli che
si sono conservati quasi intatti nell’immaginario umano attuale. Un excursus che vuole appunto, verificare
quanto ci sia di reale dietro il linguaggio figurato del mito e quanto le
vicende narrate abbiano un concreto contenuto di verità. Una direzione
espositiva che non è solo motivata da esigenze commerciali di un prodotto
rivolto ad un pubblico generalista e non specializzato, ma anche da una
esigenza insita nel metodo comparativo dell’approccio epistemologico
intrapreso. La comparazione lascia che gli orpelli intuitivi intrecciati nel
racconto mitico cedano dinanzi ad un’evidenza oggettiva, che dà al mito sia una
diversa profondità, sia una dimensione realistica che lo libera dal
confinamento di genere imposto dalla sua natura letteraria. Il mito non più
come il racconto fantastico di vicende improbabili, ma la forma con cui gli
antichi descrivessero situazioni realmente presenti nel loro vissuto. E quindi,
si và attraverso alcune delle figure fondamentali della mitologia classica
greca – i primi sette episodi – per lambire due delle figure centrali della
mitologia nordica (Beowulf e Thor), a cui si aggiunge – ecco il motivo
“commerciale” – un breve capitolo su Il
Signore degli Anelli del citato Tolkien.
Se si prova a questo punto,
di vincere il fastidio che il concetto di “fantasy” possa suscitare in menti
educate al piacere dei classici antichi, si converrà che il documentario fa
proprio l’atteggiamento proposto dalla citata antropologia di inizio Novecento,
dando in questo modo al mito quella dimensione di oggetto popolare che gli
studi accademici e letterari hanno sacrificato in nome di un’estetica
classicista troppo autoreferenziale. In ogni caso, quest’attenzione alla
consonanza con il sentimento e l’immaginario attuale di questi antichi miti non
è il motivo per sacrificare la puntualità scientifica, preservata dai dati
archeologici e dalle testimonianze letterarie che compongono una valutazione
oggettiva del mito. Riferimenti oggettivi che non evitano le molte suggestioni
intellettuali e le varie ipotesi accattivanti, ma in ogni caso indiziarie, cioè
sostenute da elementi che non sono punti di certezza, bensì solo indizi che
alimentano la fantasia, le ipotesi appunto su eventi di cui noi contemporanei
non abbiamo completa contezza. E tuttavia, non si può sfuggire al costante
parallelismo che questi contenuti intrattengono con il Cristianesimo: non si
può evitare di raccontare l’assunzione in cielo di Ercole senza che il pensiero
vada all’assunzione di Gesù di Nazareth come Cristo, seduto alla destra del
padre; oppure, vedere nella morte e resurrezione dello stregone Gandalf il
Grigio de Il Signore degli Anelli una
sorta di trasposizione della rinascita cristiana dell’homo novus, fissato dalle candide vesti del personaggio; senza
dimenticare che la stessa Resurrezione di Gesù nel Cristo è ciò che fissa una
rottura insanabile con la stessa cultura pagana, dove vige il divieto
dell’insuperabilità della morte, divieto fissato dal lugubre mito di Ade: Gesù
Cristo rinascendo a nuova vita vince la morte e con essa infrange il tabù
antico per cui nessun uomo una volta giunto nell’Oltretomba può abbandonarla.
L’idea di fondo, pervicace
ed affascinante, è quella di intendere appunto il mito allo stesso modo degli
archetipi di Gustav Jung, vale a dire formule che fissano in maniera
sovratemporale ed assoluta realtà umane che rimangono sedimentate nel ricordo
inconscio del linguaggio figurato mitologico. In tal senso, il racconto non può
essere più inteso come un narrare autoreferenziale, ma come l’esposizione di
una realtà connatura all’essere umano. Accettare tuttavia, questo taglio
interpretativo significa ammettere che esista un intreccio tra la stessa
struttura del mito e le forme della comunicazione, seppur strutture pensate ed
elaborate da società e da civiltà molto distanti dalla civiltà contemporanea,
sia per ragioni storiche, sia per sensibilità materialistica. E dunque, può
accadere quanto già evidenziato da alcuni libri del semiologo italiano Umberto
Eco (1932-2016) e cioè il sussistere a livello di immaginario e di
comunicazione ordinaria una continuità delle strutture narrative, oltre che una
loro intrinseca confusione ed aggrovigliamento, che determina un’attività ed
una persistenza in contesti (pubblico e/o destinatari) profondamente
differenti, se non antitetici, a quelli originali. Una versatilità che deriva
dalle strutture linguistiche che permette l’inscrizione di immagini e di
situazioni nella diffusione di una sapienza popolare trasversale e comune a
tutti gli uomini di epoche diverse. Una sincronia quasi perfetta che finisce
per (ri)scoprire nel mito del Minotauro il ricordo terrificante ed inquietante
del cannibalismo e dei sacrifici umani, pratiche che la civiltà dei Greci ha
abbandonato e che ha costantemente demonizzato: ciò è uno dei tanti vanti che
gli stessi Greci arrogavano a loro stessi ed alla loro civiltà, considerata
un’eccellenza di tutto il mondo antico. Ma la lotta di Perseo contro il
Minotauro è in fondo, la trasposizione quasi freudiana dell’affermazione
politico-militare della città di Atene nella sua fase di espansione e
definizione della propria struttura di polis,
la struttura di una nuova potenza in questa parte del mar Mediterraneo
interamente votata all’esaltazione di una civiltà razionalista e caratterizzate
da strutture politiche di tipo democratico – attitudine che manifesterà la
civiltà europea in epoca Umanistico-Rinascimentale.
Una percezione molto
evidente agli antichi Greci, un po’ meno da parte degli uomini contemporanei, i
quali potrebbero – e qualche commentatore nel documentario lo ha fatto! –
associare i personaggi del mito non più a vere e proprie categorie sociologiche
(orrore, aah!), ma a dei personaggi pop: l’equipaggiamento magico di Perseo,
con cui l’eroe dell’Attica uccide il mostro Medusa può intendersi alla stregua
dei vari gadget mirabolanti dell’agente segreto di Ian Flemming, Agente 007
James Bond. Il contesto d’avventura, ma anche le stesse formule esteriori legittimano
quest’associazione.
Nel racconto fatto dal
documentario citato una posizione atipica è quella del mito di Ulisse, non solo
perché più ampiamente documentato – è noto che l’antico poeta Omero dedicò al
personaggio un intero poema, l’Odissea
– ma anche perché lo status d’eroe
che contraddistingue Ulisse è atipico nella formulazione degli eroi classici.
Ulisse, è il re di Itaca, un’isola che si trova nell’area occidentale della
Grecia, e fa parte della compagine militare composta per la guerra di Troia,
voluta dal re di Sparta Menelao, in quanto offeso dal rapimento della propria
regina da parte del troiano Paride. Gran parte delle notizie su Ulisse sono
letterarie e tutte ritrovabili nel menzionato poema di Omero, il documentario
in questione si limita a verificare se esistano riferimenti reali alle vicende
omeriche: e molti indizi confermano gran parte degli avvenimenti omerici. La descrizione
di questi indizi tuttavia, mirano a rilevare la struttura atipica del mito di
Ulisse: l’eroe omerico ha tratti talmente specifici che lo collocano entro un
registro differente rispetto a quello usuale dell’eroismo classico, cioè Ulisse
non è né un Teseo, né un Ercole e tuttavia, agisce e decide entro uno scenario
in cui l’avventura s’intreccia con il determinismo di un ordine divino della
realtà. Anche Ulisse si trova al centro di una baruffa tra dei, nel mezzo di un
piano di ritorsione ai suoi danni (gli ostacoli al suo ritorno al suo regno) da
parte di divinità accigliate e via dicendo. Elementi che suggeriscono
un’evidente stereotipia del personaggio e tuttavia, Ulisse, di preferenza,
agisce secondo un ordine d’idee che non è proprio di un eroe classico; Ulisse è
colui non è un semi dio (come Ercole) e non lo diventerà nel corso della sua
storia; inoltre, Ulisse fa valere l’ingegno, l’astuzia e l’inganno e non la
forza della violenza guerriera (come Teseo), di ciò infatti, rimane iconico l’episodio
dell’inganno del Cavallo di legno, cioè dello stratagemma che ha permesso ai
Greci di concludere finalmente la decennale guerra con Troia. Ma tale sua atipicità
nel registro dell’eroismo antico si caratterizza per un’altra ragione.
Come rivela l’altro grande
poema omerico, l’Iliade, le varie
azioni degli eroi, sia greci che troiani, sono soggette al successo o alla
disfatta come ogni attività umana, ma ogni impresa è sempre ed
incondizionatamente influenzata dall’intervento degli dei: in molti casi, le
stessa gesta eroiche sono motivate (e giustificate dal mito) anche da
banalissimi capricci o da paranoie sessuali proprie del dio (vedasi il mito di
Medusa); insomma, lo eroismo di questi personaggi si colloca sotto una
«copertura» divina che garantisce il superamento degli ostacoli e rassicura
sulla riuscita dell’impresa stessa. L’eroe classico dà la sensazione evidente
di essere una marionetta nelle mani del fato e della volontà divina, spesso
cieca e senza un apparente motivazione: non esiste in tale registro nessuna
forma di provvidenzialismo, né di tipo metafisico, né di tipo storico, tranne
forse nella stessa struttura narrativa del mito che ricostruisce, commemora e
“ricorda” gli eventi narrati. Ebbene, le scelte, le strategie e le azioni di
Ulisse, molte delle quali devono intendersi incredibilmente sciagurate, non si
realizzano in questo paesaggio, anzi molte delle quali sono tali che hanno
nefaste conseguenza nel suo viaggio di ritorno in patria, ma che sembrano non
modificare in alcunché la struttura del personaggio: la morte di tutto il suo equipaggio
a.e., sembra non indurre l’eroe a ripensare tutto il suo modus operandi ed il modello decisionale che utilizza. Un esempio
di questo sono i molti episodi in cui, seppur tragicamente, Ulisse instilla la
furia delle divinità che governano le forze della natura che lo ostacolano; su
tutte il potente dio del mare Poseidone, la cui furia è stata suscitata da
fatti gravi come l’uccisione del ciclope Polifemo, oppure colpevoli
disattenzioni come lasciare incustodita la sacca dei venti regalatagli dal dio
del vento Eolo, la cui apertura scatena tempeste che fanno perdere la rotta di
casa. Approssimazione, incuria e arroganza sono sì caratteristiche tipicamente
umane, ma sono proprio quei tratti che mettono costantemente a rischio la
stessa impresa e Ulisse sembra proprio non curarsene e tuttavia, pur dopo venti
anni dalla fine della guerra di Troia, giunge in patria, salva il suo trono e
ottiene nuovamente l’amore (fedele) della moglie Penelope, mentre l’eroe si
svagava tra le braccia di ninfe e maghe sparse tra le sponde del mar
Mediterraneo.
E pensare che durante il suo
viaggio Ulisse incontra figure che lo aiuteranno e che gli daranno alcuni
suggerimenti preziosi, tra questi l’anima dell’indovino Tiresia, che l’eroe
incontra nell’Oltretomba e che lo indirizza verso la terra dei Feaci, dove
sbarcherà pacificamente, ma dove trasgredirà il divieto – non lui in persona,
ma il suo equipaggio – di uccidere alcune vacche sacre di proprietà di Apollo;
quest’ultimo infuriato sobilla Poseidone affinché punisse l’affronto e così,
un’altra tempesta marina, altri ostacoli, altro tempo buttato. Certo,
l’imprevisto e la fatalità delle proprie decisioni sono i tratti tipici
dell’azione umana ed in ciò Ulisse dà una coerente descrizione della propria
natura umana, tuttavia questa natura anziché costringerlo a limare e a
modificare il suo agire sembra esprimersi senza alcuna forma di temperamento. A
suo modo infatti, la nota terzina (Inf.,
XXVI) della Divina Commedia di Dante
Alighieri ha voluto fissare proprio questo tratto del personaggio di Ulisse.
Contrariamente al messaggio dantesco, proprio questa terzina, presa fuori
contesto, ha finito per definire un fortunato stereotipo dell’eroe omerico,
tanto da farlo come simbolo dell’audacia e dell’ingegno umano, una figura di assoluto
valore e di riconoscimento per tutta l’umanità, peccato che per Dante fosse
tutt’altro, l’esempio di una furbizia a volte utile, ma rovinosa in generale e
di certo, non un bello esempio di intelligenza, visto che non è riuscito ad
evitare o almeno a scansare le sciagure che gli si sono parate incontro.
Tuttavia, proprio il mito di
Ulisse e soprattutto la sua permanenza e collocazione nell’immaginario
contemporaneo indica appunto, non solo la versatilità del racconto mitico –
versatilità propria delle strutture narrative -, ma anche il modo in cui il
mito “agisce” negli attuali meccanismi di costruzione dell’informazione e dei
contenuti. Un’attualità che gli deriva da un lato dal fatto che racconta
situazioni dal valore assoluto e quindi, predisposte ad essere generalizzate ed
elevate a genere vero e proprio, ma gli deriva dall’altro lato dal continuo
lavorio (semiosi) che subiscono le strutture della comunicazione. L’attività
costante sui riferimenti sul modello interpretativo di Charles Sanders Pierce e
fissato dal concetto di «oggetto dinamico» di Umberto Eco indica nel mito un
vero e proprio dispositivo dove la produzione di segni è un’attività di
revisione ed aggiornamento di tali “segni”, suggerendo per il mito un’immagine
di materia magmatica sensibile alle direzioni della percezione narrativa del
pubblico o del destinatario di tale contenuto: l’ermeneutica filosofica
parlerebbe di «attualità», ma ciò lascerebbe trasparire solo una presunta
verità ontologica che forse esiste, ma non gli effetti di un diffuso
opportunismo comunicativo che manipola tutti i contenuti comunicativi –
compreso il racconto mitico – in base ad un’occorrenza, sempre diversa, sempre
uguale nella composizione degli argomenti.
Ciò giustifica e rende
possibile le letture sinottiche di tali contenuti, tanto che i registri possono
non solo toccarsi, ma anche intrecciarsi e sovrapporsi quasi naturalmente,
tanto da divenire a suo modo fonte storica, oltre che documento letterario su
cui insiste una parte del pensiero sociale, assimilandolo e facendone parte
integrante della propria storia letteraria. Ed ecco la confusione dell’ideale
aristotelico dell’uomo come essere razionale, così descritto nel Metafisica secondo una visione
deterministica, con l’immagine dell’eroe omerico, che a ben guardare ha
veramente poco dell’ideale razionalistico, ma tant’è…
Pertanto, continuando a
fantasticare seguendo questa direzione di magmatica revisione dei contenuti
mitici e dei racconti fantastici tramite la manipolazione delle strutture
dell’immaginario, le comparazioni, oltre che le sovrapposizioni, possono essere
tante. Una interessante è quella di comparare il finale delle avventure
dell’eroe omerico con quello di un eroe letterario, ma che ha assunto nella
percezione contemporanea una statura più densa di quella di una mera figura
letteraria. Ne Il Signore degli Anelli
di Tolkien le vicissitudini dell’hobbit Frodo Beggins hanno un termine di
paragone con il viaggio di Ulisse, nel senso che entrambi compiono il loro
viaggio motivato da uno scopo preciso ed entrambi, a loro modo, riescono a
portarlo a termine. Ciò che li differenzia sono il modo in cui realizzano questo
scopo e le conseguenze patite dopo aver svolto il compito. Tra i due Frodo
Beggins è un personaggio sfortunato, perché la riuscita dell’impresa è un fatto
dettato dalla casualità – poco prima di gettare l’anello fatato nella bocca del
vulcano, l’hobbit cede alla tentazione dell’anello e l’indossa, vanificando
tutti gli sforzi ed i sacrifici fatti in quel momento – e perché il piccolo
hobbit tornerà nella sua regione profondamente provato, sconvolto e stravolto,
tanto che abbandonerà la sua casa e si rifuggerà in una terra che non è quella
sua natale. Indossando l’anello, Frodo Beggins si mostra ai suoi nemici e nel
momento determinante di distruggere l’anello, intervenendo il grave
ripensamento che segnerà per sempre l’hobbit, viene aggredito da Gollum, un
mostruoso essere posseduto dalla smania di possesso dell’anello, che gli stacca
di netto con un morso il dito su cui Frodo Beggins aveva indossato l’anello.
Nella concitata gioia di Gollum di essere tornato in possesso dell’oggetto
fatato, scivola rovinosamente nel cratere del vulcano, morendo e distruggendo
l’anello. Una bizzarra iattura, ma che dà la cifra di come una struttura
narrativa possa produrre scenari alternativi, pur rimanendo assolutamente
riconoscibile e ripetitiva. Frodo Beggins descrive in tutto e per tutto il suo
essere antieroe, cioè il suo essere colui a cui viene affidato un compito che
non gli appartiene per sua natura e che in fondo, non realizzerà, se non per
vie casuali.
In ciò risiede
l’eccezionalità de Il Signore degli Anelli ed anche ciò che difficilmente lo
potrebbe accostare alla tradizione mitologica a cui siamo abituati, tuttavia
tale eccezionalità è solo esteriore, in quanto tutta la materia narrativa è
costruita secondo un ordine che recupera e rielabora sistemi mitologici
pre-esistenti – è riconoscibile la mitologia nordica, come la mitologia
classica -, ma tale rielaborazione non segue più i criteri di una tradizionale
e consolidata letteratura mitica. Tale tradizione viene riconvertita e
manipolata quanto basta per lasciar affiorare qualcosa di differente, inedito
forse. Ora, se ciò può scandalizzare, in quanto si osserva una eccessiva
versatilità del materiale mitico, soprattutto in relazione con un’opera
letteraria, che occupa una precisa collocazione di genere, in realtà è uno dei
tratti costanti del mito, quello cioè di subire manipolazioni che lo rendano
assimilabile a sistemi di riferimento eterogenei al contesto originario, quello
stesso da cui è stato elaborato. Il tema che evidenzia questa natura, ambigua
ed eclettica ad un tempo, del mito sono a.e. i controversi rapporti associativi
con il Cristianesimo. In diversi momenti il documentario menzionato sopra mette
in evidenza, più che altro come suggestioni possibili, alcune sovrapposizioni,
quelle stesse che facevano intendere la filosofia di Lucio Anneo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.) come
proto-cristiana al filosofo Giovanni Reale. Suggestioni, dolci, a volte
fuorvianti, altre demagogiche, ma che indicano chiaramente il livello su cui
operano i processi di composizione del racconto mitico; un livello che agisce
sull’attività della produzione umana di segni, di forme di rappresentazione
della realtà (simbolizzazione), di individuazione analitica di ragioni
esplicanti questa stessa realtà.
Ora, se la nostra tradizione
letteraria ed il nostro sistema educativo ci hanno ampiamente abituato a
ritenere questi contenuti come familiari, anche se non lo sono e non dovrebbero
neanche esserlo visto che si crede al mito dell’Europa cristiana, l’intreccio
tra Cristianesimo e Mito è meno evidente di quel che si creda. Anzi, in epoche
passate ha rappresentato un’efficace strategia di conversione delle popolazioni
pagane, che hanno trovato in questi racconti mitici, rielaborati il motivo per
abbracciare una fede religiosa estranea e che ha dovuto in alcuni casi faticare
per imporsi sui costumi e sulle abitudini religiose. Si può essere restii nel
leggere alcuni miti in ottica di fede – si pensi al mito relativo alla morte di
Ercole o ai miti relativi alla discesa umana nell’Oltretomba -, da un lato
perché sussiste una pregiudizialità ateo-materialista, propria della cultura
europea che le deriva da residui illuministici, dall’altro lato perché la
stessa teologia cattolica mal tollera questo tipo di descrizione dei contenuti
della fede, in quanto espressione di un approccio “irrazionale”, mentre la fede
è un fatto “naturale” (razionale) e descrivibile quindi, con strumenti
dialettici. E tuttavia, questa commistione in alcune epoche ha permesso
un’evangelizzazione efficace ed in molti casi incruenta. L’esempio tipico è ciò
che accade alla mitologia nordica.
Sulla mitologia nordica il
documentario della A&E Television si concentra solo su due figure in
particolare, quella dell’eroe scandinavo Beowulf e quella dei dio norreno Thor.
Su questa selezione mi limito a dire che entrambe le figure descrivono
chiaramente due differenti modi in cui interviene il rapporto tra la fede
cristiana ed il racconto mitico, ovviamente nella strategia di
un’evangelizzazione delle regioni continentali della Europa. Infatti, i due eroi
nordici sono la rappresentazione di due differenti esiti della strategia di
evangelizzazione cristiana; nel caso di Beowulf una strategia che assimila la
fede cristiana all’antico sistema di valori delle popolazioni del Nord Europa,
che trasforma il significato dell’arcaico concetto di eroe nordico in un
modello (vincente) di eroe della fede, anche se Beowulf non è un convertito:
Beowulf è un guerriero cristiano, che però tiene smodatamente ai valori
guerrieri del suo popolo, ma in compenso ha un enorme rispetto per il codice
dei guerrieri, per quell’etica governata dai principi della fede e per
quell’attitudine che è improntata all’aiuto e al rispetto del prossimo.
Insomma, è l’eroe nazionale che la nuova fede promuove e che definirà il nuovo
modello di eroe-guerriero nella tradizione nordica. Più complicato è il
rapporto descritto dalla figura del dio del tuono della tradizione norrena
Thor. Il culto religioso di Thor ha segnato una profonda spaccatura nelle
popolazioni di area celtica, dove sussistette una dura resistenza non solo alla
diffusione del nuovo credo religioso, ma anche alla modifica delle tradizionali
strutture socio-politiche dei territori in questione. Una guerra incerta, anche
perché per un certo periodo la resistenza aveva avuto la meglio ed il
Cristianesimo si impose faticosamente in queste aree, però anche in questo caso
la strategia di assimilazione del nuovo credo procedeva secondo la consueta
strategia, riconversione del materiale mitico precedente entro uno scenario di
un Cristianesimo trionfante ed aurorale: la convinzione che tutto il materiale
mitico nordico potesse essere riletto come una situazione propedeutica
all’affermazione del Cristianesimo trova appiglio in alcuni episodi del mito,
su tutti quello relativo alla morte di Thor e del Ragnarok.
L’estinzione degli antichi
dei, prevista ed accettata dall’antico sistema mitico, offre l’opportunità di
convertire l’età apocalittica, cioè da fine del mondo, nel racconto biblico
della creazione. Infatti, la morte degli dei lascia sulla terra solo due
esemplari di uomini, un uomo ed una donna, che nella nuova narrazione cristiana
iniziano ad assumere i tratti dei progenitori dell’umanità Adamo ed Eva. In
questo modo, l’estensione e sovrapposizione del racconto del libro della Genesi
creano le condizioni affinché l’arcaico sistema mitologico nordico scivoli in
via del tutto spontanea entro lo scenario della fede mediterranea, legittimando
così una convivenza non solo possibile, ma anche veritiera tra le passate
tradizioni ed il nuovo credo.
In conclusione, l’esigenza
epistemologica di verificare e confrontare i contenuti del mito con validi e
convincenti dati di realtà è chiaramente una motivazione inscritta nell’attuale
metodo scientifico, che spinge verso un riscontro verificabile delle conclusioni
e dei dati analizzati, tuttavia quest’esigenza non può limitare, né eludere il
fatto che la materia del mito sia di per sé una realtà che si colloca su un
piano trascendente alla stessa realtà che pretende di descrivere. Una
trascendenza che le deriva dalle strutture narrative, che riescono a gestire e
spesso a semplificare le tante incongruenze che il linguaggio figurato cela
sotto alcune sorprendenti forme sensibili. Tuttavia, è proprio questo potere
estetico-euristico del mito a consegnarci un dispositivo che in una certa
misura ci ricorda come funzioni l’umana percezione delle cose e come l’uomo
abbia costantemente utilizzato certi processi di costruzione di riferimento che
sono propri del racconto mitico e che hanno una intrinseca razionalità pre-scientifica.
Beninteso, per «razionalità pre-scientifica» deve intendersi non tanto una
logica dell’irrazionale, ma una razionalità che si affida unicamente alla
verifica ed alla validità dell’esperienza intuitiva, un meccanismo che non sarà
difforme per molto tempo da quello a cui farà ricorso la stessa filosofia prima
dell’affermazione vittoriosa dell’empirismo e prima delle restrizioni imposte
dal metodo sperimentale. L’attuale conoscenza dei processi di comunicazione ed una
maggiore sensibilità degli effetti mistificatori delle strutture narrative ci
permettono di rileggere le strutture del mito nei termini di una continua
mutazione di tali strutture in forme stereotipate della comunicazione di massa
e della cultura popolare attuale, tanto da creare forme e formule narrative che
sono ampiamente diffusione oggi, anche se sotto un’etichettatura di genere tipo
fantasy et similia, ma ci permettono
anche di inserire tali strutture negli stessi processi di produzione culturale tramite
la commistione ed in alcuni casi anche la contaminazione di linguaggi narrativi
– es. cinema o fumetto – che abbattono i limiti di un’estraneità storica e
rende prossimo, addirittura troppo vicino, ciò che in altri tempi avrebbe
legittimato formule linguistiche come «C’era
una volta…» o «in illo tempore».
Porto Empedocle, 30 agosto
2021