giovedì 30 gennaio 2020

Quando uno “scherzone” rivela l’urgenza di un intelletto controintuitivo.



#Pubblicità, #IntelligenzaArtificiale, #Robot, #Intuizione, #Controintuizione, #Matematica



Un recente spot televisivo di una nota marca di merendine reclamizza uno dei suoi più noti prodotti come un salutare antidoto contro la “deficienza artificiale”, qui intesa come una epifora allargata della classica routine quotidiana, espressa dalla cinica cattiveria di un robot parlante che abusa palesemente del potere che la rete interconnettiva gli consegna e si burla oserei dire crudelmente delle paure di una serena famiglia (in una certa misura alquanto ingenua) intenta a fare colazione, godendosi (questo nelle loro speranze) il momento di pace che la colazione mattutina rappresenta (in teoria, almeno). La battutaccia del robot infatti rovina l’idillio del nucleo familiare e paventa la terribile minaccia di “bombardamenti” di bolidi pioventi dal cielo, il che è la riproposizione di quella situazione “terrificante” e dissacrante, per non dire scorretta, descritta nell’omonimo ciclo pubblicitario di detta marca e che tante polemiche avevano suscitato nell’opinione pubblica. Il ciclo dello spot prevede infatti, una serie di scenette a carattere domestico dove il consumo della detta merendina evita il manifestarsi di situazioni improbabili, se non addirittura assurde, come il materializzarsi di morti viventi tra gli scaffali di un supermercato. Ecco, il bombardamento dei bolidi dal cielo che investe un ignaro postino, reo di aver interrotto la colazione con detta merendina, è una variante di questi episodi, anzi, se non mi sbaglio è addirittura l’episodio di apertura dell’intero ciclo pubblicitario.

L’episodio più recente è una prosecuzione degli episodi menzionati ed il riferimento esplicito conferma allo spettatore distratto che il leit-motiv dello spot è ancora lo stesso del ciclo precedente, cioè il consumo della merendina in questione, tuttavia condisce la situazione narrativa con il solito elemento di sadismo, ma non più espresso in termini di inattesa fatalità, appunto lo schianto di un bolide dal cielo. Qui, il sadismo è per lo più espresso da una cattiveria artificiale in quanto impersonificata da questi supporti tecnologici che vengono proposti come oggetti umanizzati (es., il fatto di identificarli come “persone”: da notare il nome in bella vista del robot maligno, chiamato per l’occasione “Enza”): un’evidente registro parodistico rispetto alle pubblicità di questi prodotti che miravano a presentarli come componenti di famiglia, al pari di pet o di qualche parente a carico. Tuttavia, il motivo di interesse di questa narrazione non è la scenetta volutamente incentrata su uno humour nero e scorretto, che personalmente trovo divertente, ma la battuta chiave dello spot che è tra l’altro lo slogan su cui si regge tutta la reclame pubblicitaria. Lo slogan pubblicitario stigmatiza perentoriamente la burla che l’oggetto tecnologico realizza ai danni dell’allegra famigliola, sottolineata da uno sghignazzare quasi idiota del robot e dal suo apostrofare tutta la situazione come uno “scherzone!”. Di qui, l’epilogo dello spot con il bollo finale della ragione, presumibilmente dello spettatore, che apostrofa a sua volta il tutto con lo slogan già menzionato. Ecco dunque, il legame carosellistico tra il consumo del prodotto e il messaggio dello spot, interamente giocato sul fatto che quel tipo di merendina è l’unico rimedio accettabile all’idiozia che è efficacemente rappresentata da una tecnologia arbitraria e dissennata, neanche si avesse a che fare con il prototipo in piccolo del computer HAL 9000 di Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.



Il lavoro del creativo pubblicitario è di formulare un messaggio immediatamente comprensibile e che arrivi senza grandi interferenze alla coscienza dello spettatore/consumatore e poco importa se il comportamento che viene stigmatizzato dalla slogan sia in fondo, più umano di quel che sembri a prima vista: la cattiveria qui rappresentata e l’appagamento che si trae da questo tipo di comicità feroce e dissacrante sono tutti in egual misura sentimenti tipicamente umani e non artificiali, tranne nel caso in cui il programmatore del robot abbia inserito tra le pieghe del programma funzioni che elaborano questo tipo di condotta. Ciò detto, se si sorvola per un momento questo tipo di polemiche, la correlazione che il messaggio instaura mi lascia molto perplesso, perché la minaccia del bombardamento di bolidi extraterrestri e che in precedenza poteva essere spiegata come una drammatica fatalità, qui viene invece, presentata come un rischio realizzabile a comando, come se il potere di internet sconfinasse oltre le dinamiche della fisica e si comportasse come la provvidenza divina, cioè come un’azione diretta nel mondo profano dell’uomo secondo schemi ed obiettivi precisi: ciò dà quella materia da cui far scaturire il messaggio comico, ma questa materia è a sua volta stigmatizzata come una “deficienza”; e allora non ci siamo. L’accusa di deficienza artificiale deriva dal fatto che molti di noi sono poco propensi ad accettare la crudeltà emotiva descritta come un banale “scherzo” o una semplice battuta ironica e non dal fatto che in sé la situazione e la materia da cui deriva questa comicità dissacrante siano di per sé qualificabili come “deficienze” varie. Anzi, il gioco ironico, cattivissimo del robot, è impostato non su una deficienza, ma su una possibilità e su un rischio che ha un suo valore statistico di realizzabilità. L’evento che un bolide possa picchiarci in testa è un evento possibile, tanto quanto l’eventualità fortunata che si possa vincere alla lotteria. Tuttavia, nel caso dell’estrazione del lotto è motivo di festa, nel caso dello schianto di un bolide è una situazione terribile. La deficienza allora, sta forse nella scarsa coscienza della gravità dell’evento, ma ciò può tollerarsi in quanto le macchine elettroniche (almeno fino ad ora) non manifestano palesi segnali di coscienza come la si intende per l’uomo, tuttavia se c’è  un qualche deficiente della situazione mi sembra chiaro che non sia il robot, in quanto specula su qualcosa che è potenzialmente possibile e realizzabile: i vari componenti della famiglia che scappano al sentire la terribile minaccia del robot sono veramente impagabili nella loro umana stupidità e nel loro ingenuo e spontaneo terrore. Per tale ragione, bisognerebbe parlare di deficienza umana e non di quella artificiale, ma parliamo di ciò per argomenti più seri come le grandi tragedie della storia o dei crimini a cui si riferiscono.

Ma quest’ultimo punto ci spinge a parlare della nietzscheiana inutilità della storia e ci porterebbe su una altra direzione che non voglio qui intraprendere. Ragioniamo però, su un punto. Qui, in questa pubblicità l’ironia e il messaggio sono strutturati sulla presunzione della realizzabilità della minaccia del robot elettronico, un evento inteso dai protagonisti dello spot (e in fondo, presunto anche da noi spettatori) come un evento pienamente realizzabile, se non addirittura già in fieri nel momento in cui si delinea la situazione descritta dallo spot. Ciò significa che il registro su cui è costruita la narrazione pubblicitaria è il classico determinismo meccanicistico; pertanto, la minaccia del robot può di converso, intendersi (intuizione) come una “evidente” previsione potenzialmente vera e possibile – se esiste una minaccia, questa deve intendersi “reale”, il che vuol dire che interviene una qualche causalità tra l’atto espresso e l’evento, uno scenario che ricorda moltissimo la razionalità della cultura magica di cui parlava l’antropologo Ernesto De Martino – e nessuno nella scenetta dello spot mette in dubbio la realizzabilità dell’evento, tutti percepiscono la minaccia come un evento concreto, vuoi perché si è memori di esperienze regresse (intuizione storica o memoria), vuoi perché esiste la convinzione diffusa dell’esistenza di una qualche forma di meccanicismo causalistico legato all’azione di internet – internet amplia sì l’orizzonte dei fatti e non solo perché produce ed inonda il navigatore virtuale di una mole impressionante di informazioni, ma perché l’informazione prodotta dal navigatore virtuale, fosse anche il tracciato dei siti da lui visitati, viaggia e sconfina ed è fuori dal suo potere di gestione materiale .


La cattiveria del robot non sta laddove il messaggio pubblicitario vuole condurci, ma proprio nel motivo che rende credibile la stessa scrittura del messaggio oggetto dello slogan. La burla è in fondo, l’attestazione della credulità umana, dell’ordinario modo umano di comporre tramite l’uso dell’intuizione contenuti che vengono compresi, accettati e diffusi come fatti oggettivi o già verificati o postulati come veri. La condotta intuitiva è quella che porta a credere nel potere miracoloso e magico della realtà virtuale ed è la stessa che in passato (ma ancora oggi, a quanto pare) faceva credere al potere magico di taumaturgici, sciamani, stregoni e santi e se esiste una tecnologia che usa questo tipo di condotta per servire l’umanità è altrettanto possibile che la credulità umana possa accettare un domani di non essere più il termine di un dominio materiale e virtuale. A tal riguardo, è bene tenere presente che se l’uomo subisce la “schiavitù” delle credenze (di qualunque tipo) non la fa solo perché l’umanità attuale sta conoscendo una qualche regressione di civiltà, ma lo fa perché da un lato le condizioni materiali dell’attuale fase di civiltà probabilmente spingono in tale direzione e dall’altro lato perché le strutture narrative dell’immaginario sociale e dello scibile umano (compreso quello scientifico) fissano, “economizzano” i contenuti del sapere in immagini, rendendo questi contenuti un condensato, un luogo comune su cui si fonda memoria, sentimenti e coscienza.

È inutile crucciarsi più di tanto, dobbiamo conviverci, perché questo andamento è intrinseco al sistema della comunicazione attuale, tuttavia se provassimo ad avere sempre più comportamenti controintuitivi forse si potrebbero attenuare gli effetti negativi delle varie (troppe, non se ne può più!) costruzioni narrative, le varie storytelling letterarie e ideologiche, i tantissimi e non so quanti interventi intellettuali di critica letteraria e via dicendo, la cui utilità è proprio quella di favorire le costruzioni ideologiche e le ricorrenze settarie. Ecco perché ormai preferisco giocare con enigmi, giochi matematici e altre anemità di questo tipo, perché almeno ho la presunzione di maneggiare strutture assolute (che non lo sono!) e nei limiti della loro meccanica mi appaiono più creativi di qualsiasi trama da romanzo – eh già, sono ancora in rotta di collisione con tutto ciò che riguarda le strutture narrative, letteratura in particolare; in altre stagioni della mia vita non me lo sarei aspettato.



Post Scriptum. Visto che sono in vena di comportamenti controintuitivi, provo a giocare e a ragionare su un problema tratto da Il grande libro degli enigmi matematici (2009) di Sylvain Lhullier. Si tenga presente la situazione descritta dal problema n.46, intitolato Il Consiglio dei 500. Il testo propone una situazione in cui si trova un uomo di nome Laerte, impegnato nelle elezioni del Consiglio dei 500, cioè del parlamento cittadino ateniese. L’elezione procede tramite il criterio del sorteggio, cioè gli eletti sono sorteggiati tramite la pesca di una moneta bicolore. Dentro il vaso vi sono molte monete, molte sono monocolore (colorate di nero), mentre alcune sono bicolore (una faccia colorata di nero e una faccia colorata di bianco). Per essere eletto questo uomo di nome Laerte deve fare la pesca di una moneta bicolore. Ora, via via che si effettua la pesca il numero di monete nel vaso diminuisce fino ad arrivare a due sole monete, di cui verosimilmente una è monocolore e l’altra è bicolore. Laerte pesca la sua moneta ed esibisce al consiglio degli elettori una faccia della stessa che è di colore nero. La questione posta dal problema è la seguente: qual è la possibilità che Laerte abbia fatto la pesca della moneta che gli serve per essere eletto? Soluzione. La possibilità ha il valore di 1/3, perché ha
  • 1.       Una possibilità che abbia pescato la moneta monocolore che ha tutte e due le facce di colore nero;
  • 2.     Una possibilità che abbia pescato la moneta bicolore, ma nel mostrare la faccia della moneta ha esibito quella nera;
  • 3.       Una possibilità che abbia pescato la moneta bicolore e che l’altra faccia non ancora esibita sia propria quella di colore bianco che gli serve per essere eletto.

L’intuizione ci avrebbe detto che il valore della possibilità sarebbe stata o la metà, cioè ½, il che ovviamente non è, oppure che sarebbe stato impossibile quantificare il valore, il che non accade neanche stavolta.

martedì 28 gennaio 2020

Tra fotografia, nudo femminile, intimità e mercificazione. Considerazioni disordinate.


 #Fotografia, #NudoFemminile, #MalenaMazza, #LadyTarin, #DianneArbus, #BereniceAbbott


È opinione comune come nell’estetica attuale si sia assistito una contrazione tra la sfera pubblica e la dimensione privata, un restringimento di quella distanza che l’artificio scenico in una certa misura salvaguardava. Un fenomeno che è diventato virale nella produzione fotografica tanto da essere uno specifico segmento produttivo e commerciale. La facilità di produrre fotografie di se stessi o altrui in situazioni informali o presumibilmente private rivela una tendenza spontanea di sconfinamento verso territori sempre più personali e con una famelicità voyeuristica sempre più pronunciata. Molti vedono in ciò una corruzione dei costumi, del pudore e della dignità personale e morale, può darsi, tuttavia questo tipo di fenomeni sono conseguenze non solo di una tecnologia di riproduzione che favorisce l’amatorialità, ma anche di un diverso paesaggio estetico palesemente orientato verso questo sconfinamento.
La fotografia più recente si è mossa in buona parte verso questo orizzonte, ma non per una pruderie voyeuristica (almeno non solo), bensì come effetto di contrasto alla colonizzazione che le strutture narrative hanno apportato nel racconto dell’esistenza e dell’individuo. Spostare l’attenzione verso quella dimensione insondabile del soggetto diventa motivo d’interesse, perché è una, o forse “la”, ragione di autenticità con la quale contrastare le sovrapposizioni e sovraesposizioni ideologiche che cancellano le specificità, le identità. Il movimento artistico mondiale nell’ultimo decennio del Novecento si è mosso su questa difesa dell’individualità, anche nell’ambito della sfera privata e quindi, la produzione fotografica, anche per assecondare alcune esigenze di marketing e pubblicitarie, si è incamminata lungo questo sentiero.
La definizione di questo linguaggio visivo, spesso collegato alle esigenze pubblicitarie e commerciali, non è estraneo al modo in cui la ricerca fotografica indaga le forme estetiche, anzi le esigenze commerciali a cui si adegua sono estrinseche all’essenza più autentica del problema. Quest’ultimo delinea semmai, una precisa direzione estetica che si esplica proprio e attraverso la fotografia di nudo, in genere di nudo femminile. Infatti, il legame oggi diffusissimo tra il marketing pubblicitario e il glamour edonistico della fotografia di nudo lascia osserva e giudica questa ricerca estetica sotto la lente ed il criterio moralistico di un mero fenomeno di mercificazione, in particolare del corpo femminile. Un giudizio che si ferma solo alla scandalosa pruderie esteriore disconoscendo le ragioni profonde del tema estetico ivi sotteso. Indipendentemente dalle motivazioni che alcuni noti e importanti rassegne fotografiche elegano la fotografia di nudo come un banco prova della creatività fotografica, il tema del nudo in fotografia diventa il motivo (non il solo ovviamente) con il quale valutare l’operazione estetica che il fotografo tenta di realizzare. In realtà, il problema non è di natura morale o di decoro o di dignità, ma squisitamente estetico a cui si giunge dopo un percorso della storia della fotografia occidentale che ha permesso di elaborare alcune precise coordinate visive.

La ricerca fotografica a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso si è mosso sempre più sia per motivi sociali, sia per motivi puramente commerciali in direzione di una ricerca incentrata sull’identità del soggetto fotografato. Un’attenzione che ha condotto la fotografica a divenire una vera e propria attività documentaristica, costruendo non solo un archivio sempre più grande di immagini, ma anche come promotrice di immagini iconiche che hanno finito per descrivere un proprio spazio nello immaginario pubblico. Pertanto, l’occhio fotografico della fase più recente della civiltà occidentale non è estraneo a questo iter ed il nudo diventa il termine di paragone tramite cui valutare il punto in cui è giunta questa ricerca o quali direzioni emergono e sulle quali indirizzarsi. Nello specifico, il nudo (esiste anche una fotografia di nudo maschile, ovviamente) accentua ancor più la dimensione autoreferenziale propria della fotografia, con la conseguenza che esso stesso diventa il motivo che sottrae il soggetto dalla costrizione ideologica propria della produzione di immagini: ogni elemento dentro una fotografia è un fatto o un dato ideologico, perché assimilato ad un racconto anziché ad un altro, per cui la solitudine del corpo esibito ed offerto nella sua nudità diventa il termine di uno spazio dove l’unica azione è solo quella descritta dallo obiettivo in primis, e solo in seguito dallo occhio dello spettatore.
Ciò definisce una situazione irrimediabilmente voyeuristica, che è diventato ormai il tratto dominante della stessa produzione culturale odierna, non solo della produzione di immagini, che trasforma il corpo in quella merce denunciata da una trasversale cultura benpensante. La fotografia di nudo diventa così, l’unica via tramite cui condurre un’indagine di sé, ma anche il modo tramite cui trasmettere un tratto inequivocabile di personalità come accade nei lavori della fotografa bolognese Malena Mazza. Se il corpo nudo femminile diventa metafora della società contemporanea, come afferma la fotografa in alcune dichiarazioni, lo diventa in quanto incentra la propria ricerca su un soggetto, il nudo appunto, che per definizione e per statuto mostra l’essere spoglio da qualsiasi altra sovrastruttura ideologica e narrativa. La ricerca del nudo, in fotografia almeno, diventa il veicolo di un’attività che cerca di districarsi su direzioni inattese e su sentieri non colonizzati, non già occupati da altra produzione di immagini (storiche, ufficiali, pubblicitarie, elitarie o semplicemente popolari o massificate). In questo senso, il voyeurismo è il “prezzo”, per così dire, che questa ricerca deve ammettere nell’individuare forme e situazioni inedite, ma ciò costringe quasi inevitabilmente lo sguardo fotografico a considerare il soggetto ritratto alla stregua di un oggetto, non di una vita pulsante: il sentimento della vita se traspare, lo fa come conseguenza indiretta della forma estetica e non come tratto fondativo dello stesso racconto fotografico; e non può essere diversamente se si vuole sottrarre la forma fotografica alla colonizzazione subita tramite la pubblicità, la moda, la televisione, l’informazione. Ecco allora, che gli elementi che compongono la situazione e la scena della fotografia vengono ridotti al minimo, non solo per “pulire” lo spazio intorno al soggetto, ma limitare al massimo gli elementi di interferenza che possano in una certa misura spersonalizzare la presenza del soggetto: insomma, è un dare forza ed intensità al ritratto. Come nel caso di alcune fotografie della riminese Lady Tarin che in alcune dichiarazioni sembra rinviare alla lezione fotografica di Dianne Arbus, per il privilegiare l’immediateza e la spontaneità dello scatto, tipico dell’approccio documentaristico di Berenice Abbott.

Quel che vi è di sorprendente in quest’impostazione, ovviamente dal punto di vista estetico, è che senza uno studio ponderato degli effetti autoreferenziali che lo scatto fotografico deve esibire o comunque manifestare intellettualmente, si rischia di subire l’oggettivazione del corpo, nudo o seminudo poco importa. Un esempio, è quel tipo di produzione fotografica ad uso e a scopi commerciali (ribadisco, non solo a questi scopi, ma anche come pura ricerca estetica) dove l’autoreferenzialità diventa una “lama a doppio taglio”. Anziché favorire l’emersione del ritratto, mirando all’iconizzazione del soggetto tramite la fotografia del suo corpo, può accadere qualcosa di sorprendente e cioè l’ingabbiamento del ritratto in un paesaggio d’ambiente, fosse anche il mondo domestico della propria abitazione: qualcosa che ricorda proprio l’operazione estetica della Land Art. È a.e., il caso di alcune fotografie osservabili in un sito per appassionati di fotografia, www.bigleak.tv (non so se esista ancora), dove le session sono raccolte sotto il nome della modella che si presta agli scatti fotografici. Le situazioni presentate sono tutte molto simili ed in linea con le tendenze fotografiche del momento, in quanto hanno il tratto domestico e la spontaneità amatorialistica come sue cifre caratterizzanti, tuttavia se si provano ad osservarle alla luce del rapporto che l’intimità del corpo denudato instaura con l’ambiente circostante si avverte la sensazione di uno spazio “troppo affollato”, dove il corpo e la presenza della modella sembrano stagliarsi in questa caoticità domestica al pari dei vari oggetti che entrano in primo piano nell’inquadratura o nel taglio della fotografia. Qui, è evidente l’impostazione generale riconduca ad un linguaggio pubblicitario vero e proprio, ma questi esempi rivelano chiaramente come questa descrizione del nudo e della sua dimensione intima non sfuggano appunto, alla mercificazione che qualcuno denuncia in riferimento a questo tipo di produzioni, in quanto diventano essi stessi parti di un ambiente, mero arredo. In tal senso, se accusa c’è nel nudo di mercificazione, lo è nella misura in cui il messaggio configurato dalla fotografia è orientato verso questo tipo di esiti estetici e non per via della nudità in sé. Esempi simili li possiamo trovare provocatoriamente anche in molti profili di modelle, dove la posa proposta nella fotografia, per quanto glamour, per quanto ben realizzata e patinata, rinvia a quest’oggettivazione del corpo.
La fotografia non diventa più lo spazio di un’emancipazione della visione, ma la metafora sì, dell’inestricabile trama di tabù e di proibizioni che caratterizza l’attuale società. Sistema che non è quello a cui la letteratura ci ha abituato o che ci ha raccontato, almeno non più per fortuna, ma una nuova dimensione dominata dal puritanesimo e da un’ipocrita educazione sentimentale che i sistemi massmediatici vogliono impartire e compiacente ad un inconcludente pensiero buonista e scioccamente sadico.


Post Scriptum. È evidente che nell’attuale configurazione del sistema comunicativo ordinario sia difficile scindere qualsiasi ragionamento sulle produzioni popolari, intese come rivolte ad un pubblico vasto, dalle strutture narrative che compongono non solo il lessico ed i temi, ma anche lo spazio semantico dell’immaginario. A tal riguardo, neanche la fotografia è esente e neanche il discorso incentrato sull’attività fotografica, tuttavia la storia della fotografia contemporanea rivela che questo legame, spesso di dipendenza, con i sistemi semiotici attuali ed il modo di comporre con essi qualcosa di riconoscibile come “arte” e di interesse sociale (vedasi le campagne della pubblicità con finalità pubbliche e sociali) sia meno vincolato alle attuali enciclopedie o vocabolari di settore, in quanto la stessa ricerca fotografica si è mossa in direzioni che la trovano in sintonia con i meccanismi dell’attualità (comunicazione, informazione, divulgazione, rappresentazione e via dicendo), semmai piuttosto che un rapporo di subordinazione deve parlarsi di una vera e propria convergenza tematica, formale e concettuale (disseminazione e contaminazione), facilitata dal sistema della moda certamente, ma esasperata proprio da quest’ultima. La fotografia del nudo può intendersi come l’occasione o il momento di questa ricerca estetica che la fotografia si autoimpone per selezionare e rielaborare moduli espressivi e formule visive, ma è evidente che a furia di contaminare linguaggi si finisce per ricorrere a strutture che sviliscono l’intendimento estetico originario, per cui la forma si adatta alla funzionalità espressiva o peggio a quelle utilitaristiche. Se interviene nelle forme estetiche una qualche forma di discriminante essa agisce in quello spazio estetico dove la fotografia da autoreferenziale diventa strumento, cronaca e vita in diretta di contenuti che possono risultare, proprio per come vengono presentati dalla forma comunicativa, volgari, inutilmente scandalosi ed ignominiosi, ma se piace il gossip e le varie paparazzate, allora si è nel posto giusto con lo strumento giusto. In questo caso, la volgarità del nudo è solo un pretesto per accampare ragioni per altri motivi, a mio parere più disgustosi.

domenica 26 gennaio 2020

Excursus sui problemi estetici della fotografia. In direzione di Man Ray.



#Fotografia, #Pittorialismo, #ManRay, #PierreLouisPierson, #RobertDemachy, #EadweardMuybridge, FrancescoPaoloMichetti, #AlfredStieglitz



Di tanto in tanto è bene ricordare (l’ho fatto a me stesso) come l’attuale percezione della “modernità”, o come sovente qualcuno dice della “postmodernità” non è disgiunta dalla enorme influenza che gli Stati Uniti hanno avuto nella “vecchia” Europa. Soprattutto, in merito a certe convinzioni intellettuali che prima dell’esportazione del capitalismo americano dominavano il paesaggio intellettuale nostrano. Nel caso italiano, tutta la produzione proveniente da oltre l’oceano ha costituito un decisivo momento di rinnovamento, anzi di svecchiamento della cultura nazionale, in ogni settore dalla politica (il concetto di un potere governativo di tipo democratico) alla letteratura (una certa idea borghese e soprattutto della sua critica della società italiana, tra cui si inserisce il realismo), alla filosofia (la diffusione del pragmatismo, ostracizzato in epoca fascista sotto la censura intellettuale di Benedetto Croce e Giovanni Gentile), alla arte in genere. Insomma, un travolgente mutamento non solo del paesaggio, ma della sua stessa percezione come desiderava, invocava o sobillava Giovanni Papini, che indicava (forse a torto) nella lotta al passatismo dei futuristi quello urgente movimento di innovazione del paesaggio nazionale.

A tal riguardo, neanche l’attività fotografica è esclusa da questo turbinio. Tuttavia, il discorso sulla fotografia inizia molto prima degli eventi bellici di metà Novecento ed in quella occasione, semmai, la fotografia dà una nuova idea di “realismo”, prodotta certo dalla intensa attività di reportage realizzata dagli inviati della stampa a seguito delle forze alleate, ma in quel momento, dicevo, si è in una fase molto avanzata e più vicina alla sensibilità attuale rispetto alla definizione della fotografia come attività artistica vera e propria. La fotografia in Europa non è stata estranea a tendenze che la proiettassero nello stesso spazio e dominio della creatività artistica, anzi; se si considera a.e., il pittorialismo come attività artistica vera e propria in quel frangente fare una fotografia non significasse solo realizzare un prodotto figurativo meccanizzato, cioè riproduttivo della stessa realtà, ma significa realizzare un oggetto, a suo modo unico e con una sua dignità artistica, come può considerarsi il fiocchetto rosso dipinto su una fotografia della Contessa di Castiglione, cugina del Conte di Cavour, da Pierre Louis Pierson (les Cothurnes, I contorni, 1861-67). Ma questo tipo di interventi sono gli esiti di una pervicace visione vittoriana della cultura europea, vale a dire una visione che non ha piena coscienza di cosa significhi (o abbia significato) entrare nella modernità, producendo questa sorta di ibridazione che lega o percepisce la fotografia secondo canoni tradizionali e che collocano l’attività fotografica ancora sul piano dell’arte tradizionale.



La stagione del Postimpressionismo con la sua paranoica ricerca di una formula espressiva che fissasse nel modo più vero possibile quanto rimaneva “impresso” nei sensi o semplicemente nel ricordo, proseguendo la lezione dei pittori francesi  della prima metà del XIX secolo, non ha altro altro che accentuare almeno dal punto di vista estetico-concettuale questa distanza tra l’attività fotografica e il consueta, ma enfatico atto di creatività pittorico. L’artista torinese Giacomo Balla, prima della svolta futuristica, ha seguito anche lui la via del Postimpressionismo e si è appurato che alcuni quadri di quel periodo fossero realizzati tramite l’uso di fotografie che fungevano da modello, tuttavia per il pittore torinese la fotografia non poteva misurarsi al pari della pittura, perché la fotografia replicava l’esistente, mentre il compito del pittore consiste nel cogliere ciò che rimane “invisibile” agli occhi. Il tema balliano anticipa di molto la posizione che invece, assumerà Walter Benjamin quando in riferimento delle arti di riproduzione meccaniche, cioè il cinematografo, ma il discorso vale anche per la fotografia, dirà che i prodotti di questo tipo possono considerarsi opere d’arte in quanto vi è in loro una sorta di aura che conferisce quella dignità negata di “opera d’arte” che solo le attività tradizionali sembrano potersi fregiare. Non conta la tipologia o il genere del prodotto, suggerisce Benjamin, ma come il gesto creativo formula un oggetto che per quelle caratteristiche che acquisisce può elevarsi al rango di arte vera e propria. In quel primo decennio del Novecento le sperimentazioni comunque su base pittorialista di Robert Demachy o quelle sorprendenti di Eadweard Muybridge con i suoi fermo-immagini, senza dimenticare i ritratti en plain air, fuori studio, di Francesco Paolo Michetti codificano una ricerca della fotografia non solo autonoma rispetto al modo di trattare i soggetti, ma anche uno spazio e un dominio dell’espressione che è esclusivamente della fotografia.

Certo, in questa ricerca aiuta anche e soprattutto la tecnologia, migliorano i mezzi per realizzare una stampa, si elaborano tecniche di riproduzione più efficienti e la posa del soggetto può riconquistare quella libertà di movimento e di naturalezza, che fino a quel momento la stampa fotografica otteneva come artificio scenico. Eppure, il tema che emerge in questa fase non è il realismo, cioè quanto sia vera un’immagine, bensì quanto essa possa essere un’alterità estetica rispetto al panorama quotidiano, vale a dire quanto una fotografia possa codificarsi come un contenuto e non la mera replica fedele della realtà: si è ancora lontani dalla attuale cultura sensibile al feticcio e alla disumanizzazione (virtuale o oggettistica poco importa). La stampa fotografica è e vuole essere arte, anzi vuole che gli si venga riconosciuto questo stigma.


A questo punto si giunge a quanto esposto allo inizio alla nuova definizione di modernità che proviene dagli Stati Uniti d’America, perché è qui che si delinea tutti i presupposti per lo sviluppo successivo della ricerca fotografica. Anzitutto, la definizione dell’attività fotografica come una vera e propria attività creativa e quindi artistica e ciò tramite la ricerca incessante di Alfred Stieglitz, seppur sotto gli auspici del movimento dadaista. Stieglitz costituirà nel 1902 un’associazione dedicata alla promozione artistica dell’attività fotografica (Photo Secession), a cui è collegata una rivista, Camera Work, e promuoverà incessantemente mostre e rassegne di fotografia presso la Galleria 291, l’ex Arsenale navale di Lexington Avenue, importante la serie di mostre nota come Armory Show. La fotografia di Stieglitz si caratterizza per quella evidenza intima che il fotografo realizza tra il soggetto della fotografia ed un suo stato d’animo e che definisce tramite il concetto di “equivalenza”. A tal riguardo, veramente preziosa è la serie di nudo femminile realizzata tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti, dove quest’evidenza viene realizzata con il recupero della fotoincisione, tecnica già usata in passato da altri fotografi e che consiste nello impressionare un materia diverso dalla comune lastra fotografica (es. il rame o addirittura la pietra) ed utilizzare questa come matrice per la stampa fotografica. L’effetto che si ottiene è per così dire una sfocatura dell’immagine che riconduce la visione al piano ovattato del sogno, dell’irrealtà fantastica o semplicemente idealizzata anche dalla memoria. Un effetto che si palesa proprio nei ritratti di nudo femminile, di cui il fotografo offre una inquadratura di dettaglio, massimizzando così l’effetto in questione.

Tuttavia, l’importanza di Stieglitz in questo percorso della fotografia non è solo nella definizione di un nuovo linguaggio fotografico, seppur derivato dal pittorialismo, ma anche di dare una precisa impostazione al tema dei rapporti disciplinari tra la fotografia e l’arte figurativa tradizionale. “Nella fotografia – dice il fotografo americano – c’è una realtà così sottile che diventa più reale della realtà” (cfr. Il Fotografo – Speciale n.4, La fotografia di nudo, Dicembre/Gennaio 2019, Sprea S.p.a., Milano) che esprime appunto, l’idea che l’attività fotografica non sia solo il gesto mimetico, seppur meccanizzato, della realtà, ma lo spazio in cui si ampliano le doti e la sensibilità umana. Ciò rende la fotografia non più un succedaneo dell’arte figurativa tradizionale, ma una sua degna compagna, forse addirittura una precorritrice concettuale di stili, soluzioni ed innovazione. Una posizione questa che rende Stieglitz decisivo in questo percorso di emancipazione della fotografia dalla arte tradizionale, nonostante la pecca derivata proprio dai suoi contatti con il movimento dadaista (Francis Picabia), dove si pratica una pervicace e miope ideologia anti-artistica. Il sogno di Stieglitz di una fotografia come attività artistica diventerà in seguito la cifra caratterizzante la produzione di un altro grande nome della fotografia mondiale, un uomo proveniente dalla vecchia ed austera Europa, Man Ray.


Man Ray è lo pseudonimo di Emmanuel Radnitzky, fotografo e pittore statunitense, una delle figure di prima grandezza del movimento Dada. Infaticabile sperimentatore di linguaggi e di situazioni artistiche. Nel 1913 entra in contatto con le avanguardie pittoriche dopo il suo trasferimento a New York, soprattutto tramite la Galleria 291 di Stieglitz, ma è nel 1914 che inizia ad utilizzare la macchina fotografica. È dopo questa data che ha inizio la fertile amicizia con Marcel Duchamp, con il quale fonderà la Society of Indipendent Artists e tramite il quale inizia a sperimentare con l’aerografia. L’attività di Man Ray è interamente legata a Dada, da cui deriva l’intuizione geniale del raygraph, cioè l’ottenimento di una fotografia dell’oggetto senza l’uso della macchina fotografica, che esalta il made ready di Duchamp. Duchamp aveva affermato e realizzato la decontestualizzazione dell’oggetto d’arte dal suo ordinario e “naturale” sistema di riferimento nella cultura ufficiale, dando origine ad una creatività inconsueta, ma ad un tempo provocatoria e dissacrante. La creatività di Man Ray si muove su questa stessa direzione, ma consegna alla soluzione di Duchamp una qualità che era esclusa dall’artista parigino, quello di trasformare il made ready nel momento autoreferenziale di una nuova situazione estetica e concettuale dello oggetto d’arte. Se la decontestualizzazione di Duchamp rimane un’aberrante e sconcertante provocazione alla cultura benpensante, l’oggetto non è in grado di ergersi ad arte, perché il suo sistema semantico è ancora condizionato dalla situazione e appunto, dal contesto in cui viene collocato. Man Ray intuisce che l’oggetto materiale deve progredire ad un piano di autoreferenzialità che permette di trasformare ciò che non è arte, o almeno in via ipotetica, ad un oggetto artistico. È su quest’idea che scaturisce l’opera dal titolo Cadeau del 1921; un comunissimo ferro da stiro modificato a cui l’artista applica dei chiodi che ne inibiscono non solo la funzione originaria di strumento domestico, ma ne altera anche il sistema di significati collegato allo oggetto originario. Il nuovo oggetto fa propri significati ed immagini che nulla hanno a che vedere con la sua prima esteriorizzazione.

È quella defunzionalizzazione della semantica materiale di un oggetto che gran parte dell’arte novecentesca perseguirà per tutto il secolo – in particolare la scultura e il design -, che è conseguenza diretta dell’ideologia dada, ma è espressione di una diversa direzione che è incompatibile con Dada. La autoreferenzialità a cui si giunge riconosce alla arte una dimensione che Dada negava pregiudizialmente, ma che caratterizza lo sviluppo linguistico e non solo della fotografia. Stieglitz non risolve questo tema della autoreferenzialità della fotografia, perché non riesce come Man Ray a guadagnare questa sponda e che permette invece, a questo ultimo di poter pensare la fotografia come un oggetto autonomo, senza essere necessariamente veicolo di una qualche funzionalità o contestualità. La notissima fotografia intitolata Violon d’Ingres del 1924 esemplifica la idea decisiva di Man Ray, ma soprattutto segna quella autonomia e dignità conquistata che la fotografia può finalmente esibire ed attestare a se stessa. Dal punto di vista tecnico, la fotografia menzionata di Man Ray è un semplice collage fotografico, che ritrae una modella nuda ripresa di spalle che lascia scoperta la schiena, in una comunissima posa da studio come tante similari prima e dopo di questa, ma su cui Man Ray applica una seconda fotografia, per meglio dire la sovraincide, con due “effe” di violino, innescando il tipico gioco di non sense dadaista da cui trarrà linfa vitale il movimento surrealista. Ciò avvia un automatismo di associazione che trasforma l’immagine del corpo della modella da oggetto contemplato a strumento di una sinfonia erotica, costruendo così non un semplice ritratto, ma un vero e proprio oggetto intertestuale, dove si confondono piani di percezione differenti e differenziati.



Il nuovo legame di riferimento, così come il nuovo significato o i nuovi significati elaborati dalla fotografia non sono una qualità intrinseca dell’oggetto ivi rappresentato, ma è una cifra che deriva come conseguenza della sua nuova collocazione virtuale, che non fa leva in modo parossistico proprio su quel contesto che vuole abolire, ridefinendo così il senso stesso dell’azione creativa. In tal senso, l’oggetto artistico non è ciò che viene prodotto dal gesto creativo o dalla intuizione, appunto il made ready, ma l’oggetto trovato (object trouvée) e ciò diventa il momento in cui la ricerca fotografica esalta non più la sua funzione di mimetismo meccanico, ma di “scopritrice” di nuove situazioni ed oggetti. “Non fotografo la natura, – dice – ma la mia fantasia” (cfr. Judith Lange (a cura di), Eros e Fotografia - Man Ray, 2003 Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma). Questo significa che quel non so ché benjaminiano, per cui un oggetto d’arte si ammanta di qualcosa di indeterminato e di imprecisato, qui diviene incorporeità vera e propria. L’azione della fotografia agisce trasfigurando la concretezza del corpo e gli assegna un significato che non gli è proprio, almeno inizialmente. Un effetto che non è umano, che è proprio degli dei o di una qualche manifestazione extrasensoriale in ogni caso, come può evincersi nella fotografia intitolata Natacha del 1930 ca, in cui l’evidenza del profilo della figura è ottenuta tramite la “solarizzazione”, cioè accendendo in camera oscura la luce durante lo sviluppo del negativo.

Queste idee espresse o ritrovabili nella attività fotografica di Man Ray non richiedono necessariamente che vi sia o che agisca un’associazione inconscia, come il movimento surrealista suggerirà e qualcuno ancora adesso, ma richiede semplicemente che questa nuova situazione estetica dell’oggetto crei un qualche legame con le normali strutture narrative dell’ordinaria comunicazione per veder riprodotta se non tutte, almeno gran parte delle medesime conseguenze, ma ciò mette l’attività fotografica ovviamente sul medesimo piedistallo su cui si erge l’arte figurativa tradizionale, recidendo, apparentemente in via definitiva, il suo storico legame con l’attualità materiale del presente e del divenire. La riconquista della realtà, sotto forma di denuncia sociale, di trasgressione freak, di configurazione di una spazio espressivo di identità diverse, di drammaturgia sadica e via dicendo dovrà tenere conto di questo piano parallelo svelato da Man Ray e che rende la fotografia non so fino a che punto realmente uno specchio fedele della realtà e non il prodotto culturale di un’ideologia, tanto per parafrasare la concezione dell’arte di Antonio Gramsci.


Post Scriptum. Mi piace vincere facile e a voi?

sabato 25 gennaio 2020

Divagando tra quadrati magici, logica e Wonderland. Una riflessione sullo sgretolamento della base logica classica dalla filosofia dei greci ai sistemi formali.




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La figura del quadrato è un oggetto molto noto, così come tutte le figure della geometria piana compresi quasi tutti i solidi e i poligoni corrispondenti, e fa parte di quel mondo astratto che le scuole elementari iniziano a presentare ad ognuno di noi fin da bambini. Una familiarità che ci descrive il quadrato come una forma semplice, ma dotata di alcune proprietà:
  • ·         è un oggetto composto da 4 lati uguali e nel caso che non siano uguali si ha a che fare con un rettangolo;
  • ·         è divisibile in vari pezzi, in genere due o quattro a seconda di come sono tracciate le diagonali, ma le sezioni possono realizzarsi in diversi modi;
  • ·         ha una formuletta semplice semplice per la determinazione del suo perimetro, lato x lato, ed una altrettanto facile da ricordare per la determinazione della sua superficie, lato al quadrato;
  • ·         infine, il quadrato è la somma di due triangoli rettangoli, quelli stessi resi famosi dal noto Teorema di Pitagora, o invariabilmente dal Teorema di Euclide, da cui si evince la natura intera dei numeri, ma anche l’esistenza di una classe ulteriore di numeri, i numeri irrazionali, quelli per i quali la radice di 2 è un numero impossibile, perché inesistente.

In ogni caso, la geometria non è l’unico spazio in cui possiamo trovare il quadrato. La forma del quadrato ha avuto nel corso della storia culturale della civiltà europea diverse applicazioni, alcune delle quali non per forza legate ai costrutti geometrici, anche se la geometria - come è noto – per molti secoli ha rappresentato l’unico e potente strumento della speculazione astratta umana.

Di forme di quadrato dicevo, ce ne sono molte, come molte sono le applicazioni a cui si presta il quadrato, a.e è un antico gioco cinese (cfr. Tangram) o un diabolico rompicapo greco (l’Ostomachion di Archimede), ma è anche la forma astratta di una schematizzazione algoritmica, lo spazio operativo di una trama combinatoria. Ed è appunto, su quest’ultimo aspetto che si concentra quanto segue.

Per secoli la filosofia ha dato di sé la rappresentazione di un’attività razionale e nel gergo comune ciò significa anche e soprattutto, un’attività logica, il che è vero, ma dipende dalla definizione di “ragione” e di “razionalità”. Gli antichi filosofi greci si erano sforzati di dare una precisa definizione a questo carattere e per lo più, dall’antico filosofo ateniese Platone in avanti definiscono come “razionale” quel contenuto che si mostra universalmente valido, costante ed immutabile e “razionale” quell’attività che ricerca proprio questo tipo di contenuti. Questa definizione finisce per essere il discrimine in seno alla produzione dei discorsi, vale a dire a fissare una pregiudizievole distinzione tra il discorso scientifico da un qualsiasi altro discorso della comunicazione ordinaria. È l’antico razionalismo greco a spiegarci in cosa consiste questa discriminante ed in particolare la filosofia di Parmenide di Elea, il quale non solo fissa rigorosamente questa differenza in seno ai discorsi umani, ma impone anche una fondazione linguistica a questa differenza. Nel frammento n.3 del suo Poema sulla natura Parmenide afferma l’unità decisiva tra le strutture sintattiche del linguaggio e le strutture della realtà dei fenomeni: La comprensione umana del mondo e degli eventi fisici è possibile perché non c’è nessuna differenza tra i significati riferiti dagli eventi ed il sistema semantico e concettuale dell’intuizione linguistica. La sensibilità umana ha sì esperienza del mondo, ma quest’esperienza diventa conoscenza e potere perché esiste una diretta corrispondenza tra l’uomo e la natura: dobbiamo attendere alcuni secoli ed arrivare alla filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel per vedere infranto drammaticamente questo scenario parmenideo e per la natura la comparsa dell’idealismo hegeliano sarà veramente drammatico!

 In ogni caso, Parmenide fissa alcuni principi da cui l’intera filosofia greca farà fatica a distaccarsi e che sono quelli espressi dall’unità tetica dell’essere e dall’inesistenza del non essere, “L’essere è e non può non essere” – dice Parmenide – “il Non essere non è e quindi non può essere”. È l’esclusione di una via di mezzo, di una qualche forma di conciliazione con la quale il filosofo di Elea scaccia dalla riflessione filosofica l’insorgere di qualsiasi tipo di contraddizione. Ciò si tradurrà nel pensiero logico nel noto principio del tertium non datur, o altrimenti noto come principio di non contraddizione. Principio che regolerà l’argomentazione logica e buona parte della produzione filosofica fin dalla filosofia antica, se sospendiamo da questa ricostruzione la filosofia di Platone che si muove su direzioni teoretiche molto differenti da quello che sarà la storia della filosofia e del pensiero europeo. A tal riguardo, colui che più di tutti influirà nella rappresentazione europea della ragione e della razionalità è l’antico filosofo di Stagira, Aristotele, precettore di Alessandro Magno ed inizialmente uno dei discepoli dell’Accademia del già menzionato Platone.


Il contributo aristotelico al pensiero logico è dato da un ampio corpus di trattati aventi per oggetto proprio le strutture fondamentali del ragionamento umano. L’intento del filosofo è quello di fornire un organon, uno strumento con il quale preparare l’intelletto umano ai livelli ulteriori di speculazione, rappresentati nella sua filosofia dalla metafisica, per cui lo studio della logica deve intendersi propedeutico alla metafisica e pur tuttavia, non del tutto autonomo ed indipendente dalla teoria dell’essere che il filosofo fornisce appunto, nei libri della Metafisica. Persiste dunque, in Aristotele l’idea di fondo parmenidea, vale a dire che a fondamento della realtà manifesta del discorso umano vi sia una struttura precedente e che sia in fondo “aliena” dal piano degli eventi: la teologia cattolica trasformerà proprio questo piano nella realtà della presenza trascendente di un Essere personale. Pertanto, il contenuto delle Categorie, degli Analitici Primi, degli Analitici Secondi e dell’Interpretazione vuole chiarire i funzionamenti che agiscono nella comunicazione ordinaria e tuttavia, il motivo per cui i procedimenti intellettuali espressi da questa comunicazione agiscono in siffatti modi deriva dal piano che vi presiede: c’è una specie di circolo in questo ragionamento, forse influenza platonica, ma che rivela quanto stringente sia il legame che l’attività filosofica ha con le strutture sintattiche. A tal riguardo, non c’è solo l’esigenza di chiarire i meccanismi che presiedono alla composizione dei discorsi, ma vi è anche l’esigenza di una meccanizzazione della produzione intellettuale. In pratica, Aristotele avverte l’esigenza di costruire un meccanismo logico con il quale non solo verificare la correttezza analitica dei contenuti usati in sede di discorso, ma anche di produrre argomenti validi ex novo e che abbiano valore scientifico. Al riguardo, l’antico filosofo elabora la struttura del sillogismo.

Per maggiori informazioni sul sillogismo e sulla sua storia si può consultare un qualsiasi manuale di logica e più in generale di storia della filosofia occidentale, qui mi limito soltanto a dare una descrizione sommaria e comunque tesa a mettere in rilievo l’argomento che mi interessa. Il sillogismo aristotelico è un costrutto logico di asserti la cui trattazione è affidata ai capitoli degli Analitici Primi. Esistono diversi tipi di sillogismi, tuttavia quando non viene specificato ci si riferisce al sillogismo categorico, che è la struttura logica più importante nella filosofia aristotelica, in quanto è quello dallo alto valore assertivo e scientifico. La struttura del sillogismo prevede la composizione iniziale di due asserti che fungono da premesse logiche (la prima detta Premessa Maggiore, mentre la seconda è detta Premessa Minore) ad un terzo asserto che funge da argomento o semplicemente da conclusione del sillogismo. Ruolo fondamentale nel sillogismo – in qualsiasi sillogismo – è la posizione del termine medio, cioè di una parola più raramente una predicazione o addirittura un pezzo di proposizione (tranne se escludiamo l’aggiustamento recente in senso retorico fatto da Chaim Perelman), che agisce nell’ambito del costrutto come elemento di raccordo, ma soprattutto come termine di congiunzione. L’azione di questo termine è fondamentalmente quello di distribuire all’interno del sillogismo le proprietà e lo spazio semantico che andranno a caratterizzare il significato linguistico ed il valore ontologico della conclusione. Per tale ragione, Aristotele discute di figure, cioè dei diversi modi attraverso cui può realizzarsi la composizione e quindi, la combinazione degli elementi di un sillogismo. Ora, il termine medio occupa otto posizioni nello ambito delle due premesse, le combinazioni possibili sono due elevato ad otto 256, ma Aristotele riconosce solo 19 figure valide (qui elencate).

Prima figura
Seconda figura
Barbara
Cesare
Celarent
Camestres
Darii
Festino
Ferio
Baroco


Terza figura
Quarta figura
Darapti
Baralipton
Felapton
Celantes
Disamis
Dabitis
Datisi
Fapesmo
Bocardo
Frisesomorum
Ferison


Quest’elenco è composto da nomi arbitrari che nella filosofia medievale (quella che li ha proposti) hanno solo una funzione mnemonica, cioè serve a farli ricordare, tuttavia essi chiariscono la natura delle premesse e la posizione del termine medio nell’ambito del sillogismo. Le regole da seguire sono le seguenti:
  1. le prime due vocali del nome indicano rispettivamente le due premesse del sillogismo;
  2. la vocale “a” indica le proposizioni dal valore universale, la vocale “e” quelle negative universali, la vocale “i” le proposizioni particolari affermative, mentre la vocale “o” quelle particolari negative.

Pertanto, se si considera a titolo di esempio la figura Celantes, essa è un modo di quarta figura composta da una premessa universale negativa (Premessa maggiore), una premessa universale affermativa (Premessa Minore) da cui deriva come conclusione una proposizione universale negativa. E così per tutte le altre figure, le quali sono tutte oggetto di un processo di riduzione detto di conversione, vale a dire che la composizione dei termini in sede di sillogismo non segue la combinazione numerica o posizionale, ma una combinazione basata sull’inferenza immediata, pressappoco sul modello della Prima figura (il noto modo Barbara). Ciò determina vari aggiustamenti durante la composizione del sillogismo, ma anche quella selezione delle modalità che ha portato l’antico filosofo a ridurre a solo poche figure valide il sillogismo. L’idea di logica che presiede nel sillogismo aristotelico è un modello causalistico, in quanto i rapporti tra le proposizioni sono inferenze di tipo causale, e soprattutto basato sull’evidenza intuitiva delle verità contenute o esposte dal sillogismo. Questo modo di costruire gli argomenti logici definisce un sistema interno di autoevidenza che verifica da sé la validità dei contenuti espressi.


Nei sistemi logici attuali questo tipo di funzionamento logico non interviene più nella conoscenza scientifica della realtà, anche se in alcuni settori della produzione intellettuale umana persiste ancora, e ciò non solo perché il formalismo logico attuale non è lo stesso formalismo qui descritto, ma anche perché ad un certo momento della storia logica della civiltà europea il modulo sillogistico entra palesemente in crisi, diventando esso stesso motivo di una sconcertante descrizione della realtà inaccettabile e per nulla plausibile. E tutto ciò per colpa di una bambina di nome Alice.

È in questo particolare percorso della logica europea che s’inserisce la figura di Charles Lutwidge Dodgson, noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll e che darà una spallata definitiva al mondo sillogistico tradizionale, molto prima che la ricerca logica iniziasse ad orientarsi in direzione dei sistemi formali e del simbolismo astratto (o matematico) con il sistema binario di Boole. Per avere una rappresentazione degli esiti intollerabili del sillogismo basta leggersi il noto romanzo dello stesso Carroll, Alice in wonderland, ma in altri libri, più orientati alla saggistica sistemica, si possono ravvisare, seppur per gioco, i limiti di una logica basata ancora sul sillogismo aristotelico. Consideriamo il seguente sillogismo tratto da Symbolic Logic del 1896, nella traduzione italiana di Carla Muschio (ed.it. 1998):

a)      Le imprese amministrate male non danno profitti.
b)      Le ferrovie non sono mai amministrate male.
c)       Tutte le ferrovie danno profitti.

Il sillogismo menzionato non ha quell’immediatezza intuitiva che il sillogismo classico prevede, tuttavia è un costrutto sillogistico, perché mette in relazione contenuti logici differenti da cui trarre un argomento, in questo caso generalizzabile. In effetti, pur nella sua vaga somiglianza al sillogismo aristotelico è evidente una differenza fondamentale da quello e cioè, che non ha quel rigore formale previsto da Aristotele e soprattutto ha una distribuzione dei contenuti dalle premesse all’argomento molto farraginoso, tuttavia più del sillogismo classico questi asserti sono composti e combinati tra loro in funzione non del loro intrinseco significato, ma in base alla regola compositiva esteriore del sillogismo: in pratica, si prendono tre asserti e li si collegano tra loro in qualche modo. Ecco cosa accade.

La contraddizione anziché essere estinta dal sillogismo, sembra in fin dei conti muoversi proprio attraverso il costrutto e sembra quasi la validità dell’argomento derivi da una specie di riduzione all’assurdo delle altre verità espresse nelle premesse. Infatti, l’asserto a) rivela una verità che se non è oppugnabile, è di certo molto ambigua, in quanto una cattiva gestione non pregiudica necessariamente il realizzarsi di profitti da parte di terzi: è logicamente ammesso (moralmente no, ovviamente) che alcuni soggetti economici che operano nello indotto creato da un’amministrazione pubblica possano avere soddisfatto il loro interesse comunque dalla gestione anche male accorta di una qualsiasi amministrazione pubblica– senza incorrere per forza nella frode, ma a.e., uno spreco di risorse pubbliche, che è una forma di mala gestione, po’ generare profitti a chi lucra sugli investimenti del soggetto pubblico. Proseguendo, l’asserto b) riproduce un caso specifico di quanto generalizzato nella premessa maggiore e che a ben guardare può considerarsi un luogo comune, ma che a sua volta deve intendersi come quell’eccezione confermante la regola: infatti, se il cattivo funzionamento del sistema ferroviario può considerarsi un luogo comune, il fatto che sia così diffuso propende per la sua validità e rende la sua contraddittorietà un carattere della verità sommaria già espressa. Da notare che nel sillogismo aristotelico è escluso qualsiasi intervento logico contraddittorio, tanto che di preferenza si tende a costruirlo con asserti positivi, mentre gli asserti negativi tendono ad essere collocati nella premessa minore (forse per fare meno danni al movimento del pensiero). Ora, per non invalidare il sillogismo, la negazione espressa nelle premesse deve distribuirsi anch’essa nell’argomento del sillogismo, ma come può evincersi dalla conclusione l’asserto è affermativo e per di più esibisce un valore ontologico universale: infatti, è esperienza comune che la presenza di una ferrovia, indipendentemente da come venga gestita, produce un indotto, cioè profitti più o meno estesi a soggetti terzi, il che appare in realtà, un controsenso logico (non sense) rispetto alle premesse prima formulate.


La coerenza dell’argomento, che nel sillogismo classico è interamente affidata alla struttura formale, cioè alla selezione dei modi (o figure) validi che non lo inficiano, è affidata invece, esclusivamente alla struttura della stessa combinazione. E poco importa se l’intero movimento del pensiero si muove sull’insensatezza di quel che viene espresso evidentemente dagli asserti. L’acume di questi sillogismi, elaborati da Carroll per lo più come enigmi e giochi, consiste proprio nel mettere in crisi un modello logico che mostra ampiamente il suo essere obsoleto: l’andamento dei valori ontologici degli asserti ricorda un poco le operazioni algebriche dei numeri relativi, in base alle quali due numeri negativi sommati assieme producono un numero positivo; ma ciò accade perché prevale la forma e la struttura, cioè le condizioni esteriori su cui s’imposta una relazione, e non il contenuto. È quanto ben sottolineato da Muschio nella premessa ad una piccola raccolta di sillogismi di Carroll da cui ho tratto quello menzionato, e cioè che quel che conta in questi costrutti è la correttezza del procedimento logico (eguale convinzione l’avrà il logico e matematico inglese Bertrand Russell nei Principi di Matematica, 1908) e non la verità ontologica degli asserti, il che significa che è del tutto irrilevante ai fini della composizione logica la fondazione metafisica dell’asserto medesimo: ciò è fuori dall’orizzonte della filosofia e della logica aristotelica.

A questo punto è facile evincere che l’idea portante della logica aristotelica sia appunto, l’eliminazione di ogni forma di contraddizione che può verificarsi in seno ai contenuti che compongono un qualsiasi sillogismo, sia esso un sillogismo scientifico, sia esso un semplice sillogismo retorico. Ciò significa che il contenuto di verità del sillogismo non dipende dalla sua struttura combinatoria, ma dall’insieme di connotati e di proprietà che si riconoscono ad ogni singolo asserto, cioè se tra le premesse del sillogismo troviamo un asserto palesemente falso o improbabile, es. “un mammifero quadrupe con indosso un paio di ali vola”, tutto l’intero sillogismo è invalidato. Le relazioni che intercorrono tra gli asserti di un sillogismo non sono rapporti di combinazione, o meglio lo sono, ma Aristotele impone una limitazione che gli deriva dalla sua metafisica.
Nei sistemi logici attuali non esiste questa visione aristotelica e per lo più è proprio la struttura combinatoria a definire la verità dell’argomento prodotto e non il contenuto espresso nelle sue singole premesse. Facciamo un esempio. Si consideri la seguente somma:

1 + 2 + 3 + 4 + 5 = 15         (a)

In virtù della proprietà distributiva degli addendi, la somma (a) equivale alle seguenti somme:

(1 + 2) + 3 + (4 + 5) = 15
1 + (2 + 3 + 4) + 5 = 15
(1 + 2) + (3 + 4) + 5 = 15
(1 + 5) + 4 + (2 + 3) = 15
1 + (2 + 4) + (3 + 5) = 15

Ma la stessa somma può scriversi, in virtù della teoria dell’algebra, nel seguente modo,

1 + (1 + 1) + (1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1 + 1 + 1) = 15
Oppure come,
1 + (1 + 1) + (1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1 + 1) = 15 – 1
1 + (1 + 1) + (1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1) = 15 – (1 + 1)
1 + (1 + 1) + (1 + 1 + 1) + (1 + 1 + 1 + 1) + (1 + 1) = 15 – (1 + 1 + 1)
Queste scritture non sono solo una diversa notazione del medesimo rapporto di equivalenza costituito dalla somma (a), ma è anche un modo per mettere in evidenza come operando e variando il raggruppamento delle quantità della somma è possibile combinare in modi differenti i termini di un problema ed ottenere lo stesso risultato. Questa libertà creativa, ammessa in una certa misura nei sistemi formali attuali, è ampiamente esclusa dalla logica aristotelica, perché il rapporto logico non è un rapporto di combinazione puro come è questo svolto con i numeri, ma è l’esito di una struttura concettuale e linguistica che precede e condiziona la stessa costruzione del rapporto logico. È il limite originario imposto dal razionalismo parmenideo e dall’unità linguistica che sussiste con le strutture fondamentali della realtà. Ciò attesta un evidente limite proprio dei sistemi assertivi ed un potere insufficiente di descrizione di tutta la logica classica, almeno fino a quando rimane legata alla realtà del linguaggio.

Il noto quadrato di opposizione di Aristotele è appunto, uno schema algoritmico, per così dire, con il quale non solo mettere in relazione gli asserti universali con gli asserti particolari, cioè passare dal piano generalissimo dell’astrazione a quello più specifico dei casi particolari, ma anche di descrivere come e dove possa scaturire la contraddizione nel costrutto sillogistico e quindi, porvi rimedio, risoluzione, vale a dire eliminarla. Ora, il quadrato di opposizione di Aristotele descrive uno spazio logico, meglio prova a farlo, e ricorda nella sua idea generale una classe di oggetti, oggi diremmo matematici, dove il quadrato descrive uno spazio logico entro il quale permutano, cioè cambiano, alcuni valori numerici, detti “quadrati magici”. La storia di questi oggetti è molto antica, ma per alcuni secoli questi oggetti sono stati dimenticati per tornare nuovamente di interesse proprio nel secolo in cui gli studi logici decretano la crisi e la fine del sillogismo aristotelico. Oggi, questi oggetti compongono un diffuso passatempo enigmistico e qualche anno fa anche un sorprendente successo editoriale, rappresentato dal gioco del Sudoku, a sua volta importato dal Giappone, ma questi schemi erano anche presenti in Occidente, seppur la testimonianza più antica di “quadrato magico” risale al I secolo d.C. e riportata da un filosofo cinese. Pertanto, dicevo che la logica aristotelica non ha nulla a che vedere con questa classe di oggetti, tuttavia suggerisce un tema che la logica proposizionale aristotelica non affrontava in modo efficace e che riguarda la combinazione.


I quadrati magici possono intendersi de facto, in vere e proprie matrici numeriche, dove i valori numerici si trovano incasellati in una struttura dove i loro rapporti logici risultano costanti. Infatti, vengono detti “magici”, perché nelle operazioni che si possono svolgere ricorre costantemente un certo valore e ciò li rende perfetti per alcuni spettacoli di magia dove si sfruttano alcune proprietà ricorsive dei numeri. Un esempio è il il seguente quadrato tratto dal libro di Rob Eastaway, Quanti calzini fanno un paio? (2008: ed.it. 2009)

4
9
2
3
5
7
8
1
6

Questo quadrato può dirsi “quadrato magico” perché se si sommano i numeri inseriti nella griglia si ottiene lo stesso risultato (verificare per credere). Nello specifico questo quadrato è quello che nella cultura cinese è il Lo Shu, che appunto la prima testimonianza storica di questi oggetti e che in Cina fungono addirittura da amuleti. Esistono diversi modi per costruire un quadrato magico, nel caso qui descritto si è tenuto in conto di tenere costante il valore delle diverse somme realizzabili seguendo le varie direzioni del quadrato, ma vi sono altri metodi di composizione, alcuni semplici, altri un poco più complicati.

La permutazione costante esibita da un siffatto oggetto da un lato è in accordo con la visione che gli antichi greci, in particolare i matematici pitagorici, avevano della realtà, vale a dire l’esistenza di un ordine armonico costante, da cui è derivata l’idea europea di meccanicismo e di determinismo, dall’altro lato rivela l’assoluta insufficienza degli strumenti teorici matematici dell’epoca antica, perché questo tipo di costruzione ammette o comunque può presupporre che possa intervenire il noto concetto di proporzionalità nel legame logico, il che è vero almeno fino a quando si rimane nell’ambito dei numeri interi e la teoria matematica europea per molti secoli si è mossa dentro questo scenario; ma un siffatto quadrato può costruirsi nel modo proposto da Martin Gardner in Enigmi e giochi matematici (Gardner: 1959, 1961; ed. it. 2014)

16 + ¼
18 + ¼
15 + ¼
17 + ¼
8 + ¼
10 + ¼
7 + ¼
9 + ¼
4 + ¼
6 + ¼
3 + ¼
5 + ¼
12 + ¼
14 + ¼
11 + ¼
13 + 1/4

È un quadrato dove le somme producono alla fine sempre il valore di 43.


In conclusione, l’arte del Novecento, in particolare la pittura del russo Vasilij Kandinskij, ha fatto uso delle figure per definire un linguaggio antifgurativo che ha prodotto sì un rinnovamento della ricerca stilistica, ma anche inesorabilmente devastato la tradizione figurativa che dal Rinascimento in poi aveva definito un certo canone espressivo, oggi, mi pare, incomprensibile nel modo di intendere la creatività artistica e l’arte in generale, in ogni caso la teoria dell’arte moderna e l’antifigurativismo che ad esso si è ispirato assegna alle figure un significato cognitivo che non appartiene a quello elaborato in origine, ma che a suo modo rivela la grande versatilità delle forme geometriche anche dentro strutture narrative estranei al computo geometrico e soprattutto propongono (ed in alcuni casi, ripropongono) un’idea di razionalità astratta molto seriosa, avulsa dal piano della percezione comune, che è in fondo, l’idea espressa proprio dalla filosofia e dalla logica di Aristotele. Tuttavia, per quanto possano apparire astratte alcune costruzioni matematiche sono molto più intuitive di quel che si possa credere, molto più del presunto determinismo linguistico sopra descritto. In tal senso, l’intuizione kandinskijana di ricorrere alle forme geometriche come modulo espressivo coglie, seppur in maniera esteriore, quella semplicità intuitiva e quella chiarezza universale che nessun linguaggio verbale per quanto ben attrezzato sembra possedere.


Post Scriptum: Mi rendo conto che è estremamente sorprendente, almeno per me, come mi trovo in molti casi ad avere una comprensione chiara ed inequivocabile se leggo qualcosa del tipo 2 + 2 = 4, anziché testi come il seguente <Per poter essere fondate, proposizioni e dichiarazioni morali devono avere un contenuto cognitivo. E per capire quale sia il contenuto cognitivo della morale dobbiamo chiederci che cosa significhi “fondare moralmente” qualcosa. Si badi però a distinguere il piano della teoria morale – ossia la questione se le dichiarazioni morali esprimano un sapere e se di conseguenza siano fondabili – dal piano della descrizione fenomenologica, ossia dal capire quale contenuto cognitivo associno a queste dichiarazioni coloro che sono direttamente coinvolti in conflitti di questo tipo. Comincerò a trattare la “fondazione morale” in termini descrittivi, riferendomi alla rudimentale prassi fondativa che ha luogo nelle interazioni quotidiane del mondo-di-vita.> (Jurgen Habermas, Una considerazione genealogica sul contenuto cognitivo della morale in L’inclusione dell’altro, 1996). Sono diventato veramente pigro.