lunedì 30 aprile 2018

La «caccia» filosofica di Cusano



L'immagine dell'arte venatoria utilizzata da Cusano in uno dei suoi ultimi trattati teologici non è la consueta metafora, tra l'altro nota nella letteratura teologica medievale, ma la definizione di un approccio meditativo che non ricorra più alla tradizionale metodologia epistemologica. Ciò non per una sfiducia teorica nei confronti dell'epistemologia, ma nella consapevolezza che la ricerca teologica non possa e non riesca a definire la natura di Dio un'essenza al pari degli altri esseri del creato. Il tema già affrontato e in parte risolto dalla Scolastia medievale si ripropone in Cusano diversamente, evitando di accomunare la natura di Dio ad una qualsiasi essenza logica. Già nel De docta ignarantia (1440) il teologo cattolico aveva ribaltato l'approccio scolastico recuperando alcuni temi della teologia negativa e muovendo dall'ineffabilità di Dio (nel dialogo De deo abscondito). L'esito è evidente l'impredicibilità, quindi l'indimostrabilità dell'esistenza di Dio, seguendo i processi ordinari del ragionamento umano.
Dio non solo sfugge alla grammatica umana, poiché la sua natura è impredicabile e non “sufficientemente” contenuta in una qualsiasi categoria del pensiero, nemmeno la categoria fondamentale della metafisica, cioè la sostanza, è inadeguata a descriverla, ma riesce anche a sconvolgere la sintassi stessa del pensiero, perché il suo essere segue una logica contraria a quella umana, basata sul principio della non contraddizione e sulla relazione della proporzione. Dio in quanto realtà infinita sfugge ad entrame le due prospettive, mostrando una natura immune da qualsiasi forma di contraddizione e limite, ma ad un tempo imponderabile ai criteri e agli strumenti dialettici del ragionare. Pertanto, la filosofia cusaniana giunge all'eterodossa (e forse anche controversa) affermazione di una strutturale ignoranza dell'uomo dinanzi alla natura divina, tuttavia rispetto al socratismo quest'ignoranza non è solo il presupposto di una ricerca logica dell'essenza, ma l'inevitabile conclusione e presa di atto dell'insufficienza e limitatezza ontologica degli stessi strumenti dialettici: viene accolta nel pensiero cusaniano che le difficoltà intrinseche nell'azione filosofica non siano unicamente effetti di una concreta inadeguatezza e limitazione strumentale, ma anche e soprattutto che questa limitazione abbia un fondamento ontologico e non solo epistemologico. L'ineffabilità di Dio pregiudica la dimostrabilità diretta dell'esistenza di Dio, tanto che l'affermazione che Dio esista non è altro che un argomentare ad absurdum. La conosenza epistemologica insomma, il sapere scientifico cioè, dà solo un'approssimazione della vera natura divina, tanto che quest'ultima rimane essenzialmente una conoscenza ipotetica (Platone). Cusano non nega che ci possa essere una conciliazione tra scienza e teologia, ma crede che base di questa conciliazione non sia la filosofia della natura,
Di qui, il ribaltamento in direzione della tradizione sapienziale, che a sua volta viene confermato anche nel De venatione sapientia, tuttavia rispetto alla produzione precedente il teologo attenua la restrizione che aveva derivato dalla «dotta ignoranza», cioè l'impredicibilità e la limitazione del campo epistemologico al mondo degli enti astratti della matematica e geometria, il che ha voluto dire descrivere «vie separate» tra teologia e scienza perchè orientati su oggetti di ricerca opposti. Inibendo (per definizione) dalla natura divina il carattere della contraddizione, appare evidente che la “via” della scienza non può coincidere con quella della teologia, in quanto entrambe fondate su ontologie opposte. La «scoperta» che Cusano realizza nell'ultima fase della sua vita e che trova una strutturazione sistematica è appunto la possibilità di formulare un'indagine filosofica unitaria senza confondere le due ontologie che agiscono rispettivamente nel discorso teologico ed in quello scientifico. Se infatti, la contraddizione è l'ambito in cui agisce la logica determinata della scienza quello stesso ambito che non può appartenere alla teologia per i motivi chiariti nei vari trattati degli anni Quaranta del XV secolo, adesso la convergenza disciplinare può sussistere perché la contraddizione diventa essa stessa una diversa modalità della «possibilità in essere» della natura divina. Cusano comprende che occorre compiere un totale ribaltamento del significato aristotelico di «potenza»: l'antico filosofo greco aveva incentrato la sua metafisica sul primato della forma che è la dimensione in cui la materia e il determinarsi dell'essere concreto ha uno scopo ed una motivazione, che gli dà una ragionevolezza, ma in questo modo viene svalutato l'apporto dello stato della potenza dell'essere inteso essenzialmente un essere privo di determinazione e quindi non valevole dello stesso statuto compiuto della forma. Ciò si delinea nella Scolastica medievale come uno stato di bruta materia e d'imperfezione formale. Ora, poiché la perfezione è il tratto decisivo della Grazia e quindi di Dio, Dio è inteso al modo aristotelio di Pura Forma: in realtà, si marca eccessivamente la distinzione tra forma e materia, tra atto e sostanza sottostimando (in parte a causa dello stesso Aristotele) il fatto che la potenzialità espressa và determinarsi nella formalità dell'atto, ma ciò non vuol dire che svanise totalmente dall'essere in atto.
Il ribaltamento passa dunque, per una diversa riformulazione della teoria aristotelia di atto e potenza, con il quale Cusano definisce il principio teologico del Possest, del «Potere-è». Detta così, sembrerebbe che il filosofo si muova nella tipica prospettiva umanistica di un immanentismo vero e proprio, contravvenendo ad un'intera tradizione teologico-culturale, in realtà è solo un'apparenza. Il discorso cusaniano continua a muoversi entro l'ambito della trascendenza creazionistica di Dio, tuttavia asserisce che nel rapporto che si istruisce nell'esperienza filosofica con il mondo l'agire conoscitivo si muove sul piano di una realtà costituita da fenomeni, la cui natura è definita dalla contraddizione, in un certo senso una realtà che è assimilabile alla contemporanea idea di fenomenologia, per cui il sapere scientifico, per ovvie ragioni, si delinea dentro questa contraddizione della realtà. Ora, se in precedenza questa situazione determinava il motivo per ricondurre la ricerca filosofica dalla complicazione delle forme esterne alla sua essenza unitaria e semplice, realizzando de facto una scissione tra sapere e sapienza, tra teologia e scienza il nuovo principio formulato da Cusano descrive questa stessa realtà fenomenica nella dimensione di una «potenza infinita», costringendo il pensiero filosofico ad abbandonare il vecchio paradigma teorico fondato sulla limitazione dell'essere determinato, tesi decisiva del razionalismo greco – qualcosa del genere a,e, lo ritroveremo nella filosofia contemporanea nella metafisica esistenzialistica di Martin Heidegger -, in questo modo il sapere non coincide più con la logica di aristotelica memoria e soprattutto il pensiero è costretto a formulare un “diverso” linguaggio, distante dalla forma tradizionale acquisita storiograficamente.
L'immagine dell'arte venatoria ha questo significato, cioè descrivere un sapere non più vincolato ad alcun tipo di ontologia, per lo meno nessuna di quelle tradizionali, perché quest'ultime si fondano sulla limitazione della determinatezza dell'essere, mentre il teologo cattolico scoprirà che non è il limite o la finitezza attuale dell'essere determinato a dominare la realtà del creato, ma appunto l'infinito – si dovrà attendere il filosofo francese Blaise Pascal per ritrovare un'identica premessa alla formulazione di una nuova apologia filosofica -, quell'infinito cioè che non può essere rappresentato, almeno non con le tecniche epistemologiche conosciute a quell'epoca (cfr. ricordarsi del divieto aristotelico dell'irrappresentabilità dell'infinito). Ciò vuol dire che il precedente connubio tra ontologia, metafisica e logica non è più sostenibile, perché ad essa sfugge il tema dell'infinito, ma poiché allo stesso Cusano manca un linguaggio adeguato per dare rappresentazione a questo tema, l'unica conclusione a cui può giungere è quella di concepire il sapere essenzialmente come un sistema di conoscenze acquisite, ma senza alcuna pretesa di fondazione ontologica, perché questa può delinearsi solo in una relazione analogica o figurativa con l'essenza della realtà. Le regioni della Verità infatti, sono tre:
  • Dio in quanto eterno poter essere degli enti;
  • la realtà reata desritta da Cusano ome una similitudine della perpetua fatticità della possibilità impartecipata di Dio alla creazione;
  • infine il tempo: quest'ultimo diventa il paradigma analogico per eccellenza del modo attraverso cui l'uomo ha rappresentazione degli esseri del creato.
Queste tre regioni dischiudono appunto, il concetto cusaniano del Potere-è, cioè di questa infinita potenza che fluisce negli esseri della realtà, seppur con una modalità che non è immanentista, ma “disposizionale”, cioè fondata su una distinzione dei diversi livelli ontologici di cui si compone la realtà medesima: è con il concetto di ordine, desunto dalla fisica altomedievale, che Cusano si spiega l'impartecipabilità di Dio del mondo, il che salva la sua natura trascendente, ma allo stesso tempo questo costante riferirsi a Dio stesso, poiché la realtà è intimamente costituita della stessa infinità che è presente in Dio. Il pensiero scientifico coglie solo momenti di questa infinità, realizzazione distinte e rappresentate dalle (ritenute ancora valide) categorie aristoteliche, ma questa rappresentazione è inservibibile se estesa alla totalità di Dio, alla essenza fondativa del tutto. La contraddizione dunque, appartiene alla realtà degli esseri determinati e non alla natura intrinseca della realtà, che invece si delinea come un'unità (Platone). Pertanto, la realtà partecipa di quest'essenza soltanto per via analogica, cioè ricorrendo alle similitudini, che sono il vero oggetto di ricerca della filosofia. La caccia cusaniana dunque, non è altro che una cernita delle molte similitudini che rivelano l'esistenza di Dio nel mondo: nel trattato De venatione sapientiae queste similitudini vengono a comporre i dieci campi della caccia, ogni campo corrisponde ad una precisa limitazione dell'essere a cui il filosofo deve approcciarsi pensando e ritenendo che la verità che rivela è tale solo se riferita ad un'essenza ulteriore che è espressa indirettamente dal campo medesimo.
Le implicazioni che la scoperta cusaniana determina non sono (né credo potessero esserlo) pienamente comprese all'epoca della pubblicazione del trattato, infatti dobbiamo attendere l'enfatica rivalutazione di Giordano Bruno affinché la filosofia occidentale si accorgesse del pensiero cusaniano. L'incomprensione filosofica che graverà su queste formulazioni cusaniane derivano tuttavia, dalla mancanza di un linguaggio adeguato che potesse dare chiarezza e potesse sviluppare incisivamente tutte le conseguenze che potevano derivarsi. Infatti, Cusano si muove dentro la cornice linguistica di un lessico filosofio totalmente avvinto da un lato alla metafisica aristotelica dell'essere determinato e dall'altro lato, da un sistema logico impostato sull'idea che le relazioni siano una modalità della sostanza – cioè di una diretta correlazione ontologica e non funzionale tra forma e sostanza –, pertanto la sua formulazione rimane essenzialmente un tentativo denso di conseguenze certamente, ma frustrato dal fatto che gli strumenti espressivi fossero quelli tradizionali della geometria greca, cioè dello schema della proporzione. Il ricorso all'analogia, al simbolico sono in fondo tutti segnali che rinviano ad una dimensione metafisica nuova ed incompatibile allo schematismo razionalistio aristotelico. Inoltre, persiste in Cusano la convinzione dell'insufficienza degli strumenti criteriologici tradizionali.