L'immagine
dell'arte venatoria utilizzata da Cusano in uno dei suoi ultimi
trattati teologici non è la consueta metafora, tra l'altro nota
nella letteratura teologica medievale, ma la definizione di un
approccio meditativo che non ricorra più alla tradizionale
metodologia epistemologica. Ciò non per una sfiducia teorica nei
confronti dell'epistemologia, ma nella consapevolezza che la ricerca
teologica non possa e non riesca a definire la natura di Dio
un'essenza al pari degli altri esseri del creato. Il tema già
affrontato e in parte risolto dalla Scolastia medievale si ripropone
in Cusano diversamente, evitando di accomunare la natura di Dio ad
una qualsiasi essenza logica. Già nel De docta ignarantia
(1440) il teologo cattolico aveva ribaltato l'approccio scolastico
recuperando alcuni temi della teologia negativa e muovendo
dall'ineffabilità di Dio (nel dialogo De deo abscondito).
L'esito è evidente l'impredicibilità, quindi l'indimostrabilità
dell'esistenza di Dio, seguendo i processi ordinari del ragionamento
umano.
Dio
non solo sfugge alla grammatica umana, poiché la sua natura è
impredicabile e non “sufficientemente” contenuta in una qualsiasi
categoria del pensiero, nemmeno la categoria fondamentale della
metafisica, cioè la sostanza, è inadeguata a descriverla, ma riesce
anche a sconvolgere la sintassi stessa del pensiero, perché il suo
essere segue una logica contraria a quella umana, basata sul
principio della non contraddizione e sulla relazione della
proporzione. Dio in quanto realtà infinita sfugge ad entrame le due
prospettive, mostrando una natura immune da qualsiasi forma di
contraddizione e limite, ma ad un tempo imponderabile ai criteri e
agli strumenti dialettici del ragionare. Pertanto, la filosofia
cusaniana giunge all'eterodossa (e forse anche controversa)
affermazione di una strutturale ignoranza dell'uomo dinanzi alla
natura divina, tuttavia rispetto al socratismo quest'ignoranza non è
solo il presupposto di una ricerca logica dell'essenza, ma
l'inevitabile conclusione e presa di atto dell'insufficienza e
limitatezza ontologica degli stessi strumenti dialettici: viene
accolta nel pensiero cusaniano che le difficoltà intrinseche
nell'azione filosofica non siano unicamente effetti di una concreta
inadeguatezza e limitazione strumentale, ma anche e soprattutto che
questa limitazione abbia un fondamento ontologico e non solo
epistemologico. L'ineffabilità di Dio pregiudica la dimostrabilità
diretta dell'esistenza di Dio, tanto che l'affermazione che Dio
esista non è altro che un argomentare ad absurdum. La
conosenza epistemologica insomma, il sapere scientifico cioè, dà
solo un'approssimazione della vera natura divina, tanto che
quest'ultima rimane essenzialmente una conoscenza ipotetica
(Platone). Cusano non nega che ci possa essere una conciliazione tra
scienza e teologia, ma crede che base di questa conciliazione non sia
la filosofia della natura,
Di
qui, il ribaltamento in direzione della tradizione sapienziale, che a
sua volta viene confermato anche nel De venatione sapientia, tuttavia
rispetto alla produzione precedente il teologo attenua la restrizione
che aveva derivato dalla «dotta
ignoranza», cioè l'impredicibilità e la limitazione del campo
epistemologico al mondo degli enti astratti della matematica e
geometria, il che ha voluto dire descrivere «vie separate» tra
teologia e scienza perchè orientati su oggetti di ricerca opposti.
Inibendo (per definizione) dalla natura divina il carattere della
contraddizione, appare evidente che la “via” della scienza non
può coincidere con quella della teologia, in quanto entrambe fondate
su ontologie opposte. La «scoperta» che Cusano realizza nell'ultima
fase della sua vita e che trova una strutturazione sistematica è
appunto la possibilità di formulare un'indagine filosofica unitaria
senza confondere le due ontologie che agiscono rispettivamente nel
discorso teologico ed in quello scientifico. Se infatti, la
contraddizione è l'ambito in cui agisce la logica determinata della
scienza quello stesso ambito che non può appartenere alla teologia
per i motivi chiariti nei vari trattati degli anni Quaranta del XV
secolo, adesso la convergenza disciplinare può sussistere perché la
contraddizione diventa essa stessa una diversa modalità della
«possibilità in essere» della natura divina. Cusano comprende che
occorre compiere un totale ribaltamento del significato aristotelico
di «potenza»: l'antico filosofo greco aveva incentrato la sua
metafisica sul primato della forma che è la dimensione in cui la
materia e il determinarsi dell'essere concreto ha uno scopo ed una
motivazione, che gli dà una ragionevolezza, ma in questo modo viene
svalutato l'apporto dello stato della potenza dell'essere inteso
essenzialmente un essere privo di determinazione e quindi non
valevole dello stesso statuto compiuto della forma. Ciò si delinea
nella Scolastica medievale come uno stato di bruta materia e
d'imperfezione formale. Ora, poiché la perfezione è il tratto
decisivo della Grazia e quindi di Dio, Dio è inteso al modo
aristotelio di Pura Forma: in realtà, si marca eccessivamente la
distinzione tra forma e materia, tra atto e sostanza sottostimando
(in parte a causa dello stesso Aristotele) il fatto che la
potenzialità espressa và determinarsi nella formalità dell'atto,
ma ciò non vuol dire che svanise totalmente dall'essere in atto.
Il
ribaltamento passa dunque, per una diversa riformulazione della
teoria aristotelia di atto e potenza, con il quale Cusano definisce
il principio teologico del Possest, del «Potere-è». Detta
così, sembrerebbe che il filosofo si muova nella tipica prospettiva
umanistica di un immanentismo vero e proprio, contravvenendo ad
un'intera tradizione teologico-culturale, in realtà è solo
un'apparenza. Il discorso cusaniano continua a muoversi entro
l'ambito della trascendenza creazionistica di Dio, tuttavia asserisce
che nel rapporto che si istruisce nell'esperienza filosofica con il
mondo l'agire conoscitivo si muove sul piano di una realtà
costituita da fenomeni, la cui natura è definita dalla
contraddizione, in un certo senso una realtà che è assimilabile
alla contemporanea idea di fenomenologia, per cui il sapere
scientifico, per ovvie ragioni, si delinea dentro questa
contraddizione della realtà. Ora, se in precedenza questa situazione
determinava il motivo per ricondurre la ricerca filosofica dalla
complicazione delle forme esterne alla sua essenza unitaria e
semplice, realizzando de facto una scissione tra sapere e sapienza,
tra teologia e scienza il nuovo principio formulato da Cusano
descrive questa stessa realtà fenomenica nella dimensione di una
«potenza infinita», costringendo il pensiero filosofico ad
abbandonare il vecchio paradigma teorico fondato sulla limitazione
dell'essere determinato, tesi decisiva del razionalismo greco –
qualcosa del genere a,e, lo ritroveremo nella filosofia contemporanea
nella metafisica esistenzialistica di Martin Heidegger -, in questo
modo il sapere non coincide più con la logica di aristotelica
memoria e soprattutto il pensiero è costretto a formulare un
“diverso” linguaggio, distante dalla forma tradizionale acquisita
storiograficamente.
L'immagine
dell'arte venatoria ha questo significato, cioè descrivere un sapere
non più vincolato ad alcun tipo di ontologia, per lo meno nessuna di
quelle tradizionali, perché quest'ultime si fondano sulla
limitazione della determinatezza dell'essere, mentre il teologo
cattolico scoprirà che non è il limite o la finitezza attuale
dell'essere determinato a dominare la realtà del creato, ma appunto
l'infinito – si dovrà attendere il filosofo francese Blaise Pascal
per ritrovare un'identica premessa alla formulazione di una nuova
apologia filosofica -, quell'infinito cioè che non può essere
rappresentato, almeno non con le tecniche epistemologiche conosciute
a quell'epoca (cfr. ricordarsi del divieto aristotelico
dell'irrappresentabilità dell'infinito). Ciò vuol dire che il
precedente connubio tra ontologia, metafisica e logica non è più
sostenibile, perché ad essa sfugge il tema dell'infinito, ma poiché
allo stesso Cusano manca un linguaggio adeguato per dare
rappresentazione a questo tema, l'unica conclusione a cui può
giungere è quella di concepire il sapere essenzialmente come un
sistema di conoscenze acquisite, ma senza alcuna pretesa di
fondazione ontologica, perché questa può delinearsi solo in una
relazione analogica o figurativa con l'essenza della realtà. Le
regioni della Verità infatti, sono tre:
- Dio in quanto eterno poter essere degli enti;
- la realtà reata desritta da Cusano ome una similitudine della perpetua fatticità della possibilità impartecipata di Dio alla creazione;
- infine il tempo: quest'ultimo diventa il paradigma analogico per eccellenza del modo attraverso cui l'uomo ha rappresentazione degli esseri del creato.
Queste
tre regioni dischiudono appunto, il concetto cusaniano del Potere-è,
cioè di questa infinita potenza che fluisce negli esseri della
realtà, seppur con una modalità che non è immanentista, ma
“disposizionale”, cioè fondata su una distinzione dei diversi
livelli ontologici di cui si compone la realtà medesima: è con il
concetto di ordine, desunto dalla fisica altomedievale, che Cusano si
spiega l'impartecipabilità di Dio del mondo, il che salva la sua
natura trascendente, ma allo stesso tempo questo costante riferirsi a
Dio stesso, poiché la realtà è intimamente costituita della stessa
infinità che è presente in Dio. Il pensiero scientifico coglie solo
momenti di questa infinità, realizzazione distinte e rappresentate
dalle (ritenute ancora valide) categorie aristoteliche, ma questa
rappresentazione è inservibibile se estesa alla totalità di Dio,
alla essenza fondativa del tutto. La contraddizione dunque,
appartiene alla realtà degli esseri determinati e non alla natura
intrinseca della realtà, che invece si delinea come un'unità
(Platone). Pertanto, la realtà partecipa di quest'essenza soltanto
per via analogica, cioè ricorrendo alle similitudini, che sono il
vero oggetto di ricerca della filosofia. La caccia cusaniana dunque,
non è altro che una cernita delle molte similitudini che rivelano
l'esistenza di Dio nel mondo: nel trattato De venatione sapientiae
queste similitudini vengono a comporre i dieci campi della caccia,
ogni campo corrisponde ad una precisa limitazione dell'essere a cui
il filosofo deve approcciarsi pensando e ritenendo che la verità che
rivela è tale solo se riferita ad un'essenza ulteriore che è
espressa indirettamente dal campo medesimo.
Le
implicazioni che la scoperta cusaniana determina non sono (né credo
potessero esserlo) pienamente comprese all'epoca della pubblicazione
del trattato, infatti dobbiamo attendere l'enfatica rivalutazione di
Giordano Bruno affinché la filosofia occidentale si accorgesse del
pensiero cusaniano. L'incomprensione filosofica che graverà su
queste formulazioni cusaniane derivano tuttavia, dalla mancanza di un
linguaggio adeguato che potesse dare chiarezza e potesse sviluppare
incisivamente tutte le conseguenze che potevano derivarsi. Infatti,
Cusano si muove dentro la cornice linguistica di un lessico filosofio
totalmente avvinto da un lato alla metafisica aristotelica
dell'essere determinato e dall'altro lato, da un sistema logico
impostato sull'idea che le relazioni siano una modalità della
sostanza – cioè di una diretta correlazione ontologica e non
funzionale tra forma e sostanza –, pertanto la sua formulazione
rimane essenzialmente un tentativo denso di conseguenze certamente,
ma frustrato dal fatto che gli strumenti espressivi fossero quelli
tradizionali della geometria greca, cioè dello schema della
proporzione. Il ricorso all'analogia, al simbolico sono in fondo
tutti segnali che rinviano ad una dimensione metafisica nuova ed
incompatibile allo schematismo razionalistio aristotelico. Inoltre,
persiste in Cusano la convinzione dell'insufficienza degli strumenti
criteriologici tradizionali.