mercoledì 28 ottobre 2020
martedì 27 ottobre 2020
venerdì 18 settembre 2020
Su Watchmen della HBO. #2 I viaggi nel tempo del Dr. Manhattan, la variabilità relativistica del tempo e i prolegomeni ad una nuova definizione di supereroe (ammesso che sia possibile tale definizione)
“Accidents happen. That's what everyone says.
But in a quantum universe there are no such things are
accidents,
only
possibilities and probabilities folded into existence by perception”.
[tr. It.:
Gli incidenti accadono. Così dicono tutti.
Ma in
un universo quantistico non esistono gli incidenti,
ma
solo possibilità e probabilità piegate all’esistenza dalla percezione]
L’ucronia,
o come dicono nel mondo anglosassone la «history alternative» è un vero e
proprio genere letterario e non solo, oggi per lo più appannaggio della
fantascienza. Sono racconti incentrati su vicende che rappresentano sviluppi
alternativi rispetto a codificate sequenze di accadimenti o di personaggi,
quasi una fantasiosa ricostruzione di un tempo futuro e, modificandone le
premesse, appunto alternativo. Esistono vari titoli di prosa letteraria che
propongono questo tipo di storie, alcuni diventati capostipiti di
rimescolamenti storici bizzarri, ma verosimili (come lo steampunk), ma è nel
fumetto contemporaneo che questo tipo di scrittura ricorre ampiamente. Nel caso
specifico, la serie a fumetti di Alan Moore, Watchmen, è un evidente
racconto ucronico, in quanto incentrato su uno scenario storico e addirittura
entro un orizzonte di civiltà totalmente alternativo, dove gli Stati Uniti
d’America hanno vinto la guerra del Vietnam e dove la presidenza di Richard
Nixon non è stata minimamente scalfita dall’impeachment derivante dallo
scandalo del Watergate.
Per
quanto bizzarra infatti, possa apparire il registro narrativo di Watchmen,
in realtà è abbastanza coerente con le finalità intrinseche del racconto, cioè
riflettere sul destino e sulla funzione del supereroe in uno scenario dominato
da alcune specifiche condizioni storiche, lo si chiami “tempo alternativo” o
“società futura”, de facto uno scenario che non ha le condizioni fattuali e gli
obiettivi immaginari del presente. Infatti, se lo scenario appare abbastanza
iconico, cioè l’umanità dopo un grave disastro planetario – qui affidato ad un
bombardamento alieno -, meno stereotipato è la definizione dei vari rapporti
sociali che questa nuova società configura a causa del tragico evento
scatenante la sua attuale condizione. I supereroi entrano in crisi, perché
vengono privati dalle istituzioni pubbliche di uno dei tratti caratteristici,
cioè la facoltà di celare la propria identità e di svolgere il proprio ruolo
dietro un bizzarro mascheramento: il supereroe classico converte l’uso
banditesco della maschera nello strumento più evidente con cui ripristinare e
rinnovare un ordine sociale ed istituzionale, ma in questo scenario l’uso della
maschera diventa autorizzato solo per le forze dell’ordine e rientra de facto nell’armamentario del
tradizionale fuorilegge.
Alla
base di questo epocale cambiamento del ruolo e della funzione dell’eroe
mascherato, che da paladino di un ordine giusto diventa esso stesso il bandito
perseguitato dalle istituzioni c’è ovviamente, un cambio radicale dell’ordine
sociale e con esso della stessa ideologia con cui questa società post-apocalittica
dà rappresentazione di sé, ma vi è soprattutto una degenerazione e corruzione
della consueta percezione del tempo; il modo di gestirlo e di viverlo, seppur
in un evidente contesto paranoico, sembra quella a cui siamo abituati, in
realtà è la stessa percezione del tempo ad essere cambiata. La riformulazione
che Moore tenta del concetto tradizionale di supereroe non è solo un “gioco”
creativo, tra l’altro affidato ad un registro fantascientifico, ma è
un’esigenza che affiora proprio dallo smantellamento dei fondamenti concettuali
a cui si fa riferimento nella definizione pubblica delle esistenze, come sono
le forme culturali, il sapere sociale istituzionalizzato, la morale pubblica e
privata, gli scopi sociali che coinvolgono l’intera comunità che li persegue,
la stessa solidarietà tra gli appartenenti all’intero gruppo comunitario. Il
concetto di supereroe non è differente da qualsiasi altro prodotto culturale
umano, ammette e si affida alle stesse basi metafisiche, allo stesso paesaggio
filosofico, alla medesima enciclopedia sociale, ma è pur evidente nella graphic
novel di Moore che per quanto stringente sia questo legame con le strutture
sociali ciò non impedisce al medesimo concetto di essere svilito, tanto da
risultare alla fine qualcosa di assolutamente inutile nonostante l’enormità del
superpotere esibito e descritto.
Ovviamente,
ci si deve muovere in un orizzonte che non è più quello del superuomo
nietzscheiano o dannunziano, quella figura di cui la cultura popolare europea e
statunitense si è nutrita in varie forme, ma tutte tese ad un’esaltazione della
natura incredibile di alcuni esseri superdotati e che descrivono un genere
umano – ammesso che lo siano realmente! – di matrice elitaria. Insomma, se la
storia dell’evoluzione della figura del supereroe ha rivelato una progressiva
mutazione della stessa figura, proiettandolo verso un orizzonte
esistenzialistico sempre più evidente, in un certo senso questa stessa storia
ha preservato alcune caratteristiche tipo del supereroe, tra tutte il fatto di
essere e rappresentare quel superuomo della tradizione culturale nichilista e
anti-massa che contraddistingue lo sviluppo democratico delle società umane in
questa fase recente di civiltà; ebbene, il racconto di Moore assume questo
fulcro storico come premesse e base di riferimento per rivelare non solo la
crisi del concetto di supereroe – in realtà, già messa in crisi da tempo con il
tema della responsabilità etica collegata all’esercizio del superpotere -, ma
anche del suo inevitabile svuotamento e perdita di senso. È insensato parlare
di eroi e di supereroi, perché la loro funzione è inutile in una società che ha
ristretto le libertà individuali e rassegnato i propri compiti sociali alla
stessa collettività. In conclusione, ripercorrere la storia del supereroe non è
un lavoro di riscoperta eziologica, ma il dipanarsi di un disastro delle basi
stesse dell’immaginario pubblico e popolare.
La
riformulazione del concetto di supereroe è necessaria, perché deve risolvere il
disastro da cui si origina la decadenza di tale concetto. L’inizio di tutto è la
«guerra sonora», scatenata da un attacco terroristico alieno che consiste nello
schianto sulla Terra di un gigantesco polpo che uccide miliardi di persone con
il suo urlo terrificante; l’attacco si trasforma in una guerriglia planetaria
realizzata con una pioggia sistematica e costante di piccoli polpi che cadono
dal cielo, evento insolito e bizzarro, ma che ha lo scopo di rinnovare una
strategia della tensione, soprattutto emotiva, con la quale il genere umano è
costretto a rimanere contratto all’evento scatenante questa sorda e sordida
guerra, ammesso che possa chiamarsi convenzionalmente così. Il terrore che il
polpo gigante suscita nell’umanità è enorme e a conseguenza del suo schianto
iniziano una serie di disordini locali che portano a gravissimi episodi di
sangue, tra cui il massacro della popolazione di colore di Tulsa, una cittadina
dell’Hoklahoma. I fatti di Tulsa hanno una vasta eco nei sopravvissuti alla
guerra sonora, perché in quest’occasione si riaffacciano vecchie fobie, quali
il razzismo ariano, e perché l’eccidio è perpetrato ai danni di uomini che
ricoprivano ruoli di tutori dell’ordine. A causa dei fatti di Tulsa il governo
statunitense approva un decreto che autorizza gli uomini della polizia di coprire
il proprio volto con una maschera, come extrema
ratio a tutela della loro personale incolumità. Ecco che viene a
realizzarsi la sovrapposizione tra le forse dell’ordine costituito (la polizia)
con una delle caratteristiche più tipiche dei vendicatori e dei giustizieri di
ogni epoca, il mascheramento. Quest’esito, giustificata da una civiltà ormai
ossessionata dal passato, ha l’effetto di svilire una capacità euristica insita
nel mascheramento del supereroe, cioè il potere di definire e configurare un
ordine sociale possibile, ma proprio perché non ancora fattuale vive in uno
stato sospeso in attesa di manifestarsi pienamente sotto forma di istituzione,
di diritto, di consuetudine, di pensiero sociale. Al supereroe mascherato viene
tolta la sua funzione esemplare di speranza, non è più quel modello
escatologico di un avvenire migliore, di un progresso di civiltà più giusto, di
un diritto realmente equanime. Il supereroe ora, è un fuorilegge e la sua
funzione, per quanto diretta al bene della collettività, non trova alcun
riconoscimento nell’azione e nel diritto delle istituzioni. Di qui, il
paradossale cortocircuito nel racconto fantastico dei supereroi in Watchmen,
ma che è meno paradossale di quel che si creda: il destino infame del supereroe
non è un’interferenza temporale o una deriva della società, ma è proprio la
diretta conseguenza delle premesse affidate alla storia su cui si basa la
definizione stessa del concetto. Riformulare il concetto di supereroe significa
modificare a suo modo, la stessa rappresentazione del tempo, quella su cui tale
concetto trae la sua giustificazione e legittimità.
Il
concetto di supereroe diventa una forma sociale, non più caratterizzante il
pensiero di un esiguo gruppo sociale, ma di un’intera società, in quanto è
assimilate alle tradizionali e consuete forme culturali, quali possono essere
il sapere e la storia, entrambi istituzionalizzati in codici pubblici su cui si
basa sia la loro rappresentazione pubblica sia il loro utilizzo privato. Non è
casuale che il primo episodio della serie si apra con una panoramica dove è
messo ben in evidenza il cartellone di un museo tematico, dove viene
formalizzato il tema della «Storia dei Supereroi». Il Supereroe non è più solo
una figura, tra l’altro facilmente (e pericolosamente) mitizzata, ma è una
vera e propria categoria storica; è una classe con la quale viene a denotarsi
un gruppo di personaggi, di fatti, di eventi e di luoghi che configurano una
vicenda regionale nel grande racconto della Storia dell’umanità. Il problema
del supereroe è chiaramente collegato al tema del tempo, soprattutto da quando
il loop storico-mentale in cui è piombata l’umanità intera ha svilito
completamente il significato intrinseco e fondamentale di tale concetto. La
comparsa del polpo alieno, che tanto terrore ha suscitato, ha evitato
l’imminente guerra atomica verso cui i governi del mondo stavano conducendosi,
ma la paura di un grande terrore (la guerra atomica) è stata sostituita da
un’altra paura, ancora più grande, quella di una guerra planetaria e di
un’invasione aliena. Non è solo la politica a subire i pesanti contraccolpi di
questa situazione, ma lo sono tanti altri piani della società umana, compresa
l’ideologia, la cultura, il sapere, la tecnologia, il vivere quotidiano. In
questo scenario, la stessa rappresentazione del tempo subisce una profonda
distorsione, apparentemente non percepibile, ma de facto operante nella vita di
ogni giorno. La storia del’uomo non è più l’ordinario fluire del tempo –
ammesso che il tempo sia qualcosa che fluisca, ma per gli antichi filosofi
greci lo era, perché è il divenire – e si è contratta in un sistema, in una
forma incentrata sulla commemorazione (i giorni della memoria, gli anniversari)
che rinnova quotidianamente l’evento raccontato, lo rende vivo ed ancora
presente nell’attualità (come nel Mito di Mircea Eliade), ma questo ha
finito per creare un loop su cui
agisce la guerriglia terroristica aliena che perpetua la paura atomica e lascia
proliferare altre fobie: torna infatti, il razzismo ariano nelle fattezze di un
fantomatico gruppo chiamato Settimo
Cavalleria.
Il
loop temporale in cui vive l’umanità di Watchmen è certamente prodotta dalla
costante tensione derivante dalle azioni terroristiche, ma questi fatti sono
tutti motivi materiali, in effetti ciò che si manifesta nella visione del
racconto della graphic novel è un’evidente mutazione del consueto modello di
rappresentazione del tempo. Apparentemente il procedere del tempo sembra
muoversi così come lo intuiamo quotidianamente, cioè appunto come un fluire
costante e secondo le leggi note della divisione temporale (giorno, minuto,
secondo, mese, anno, decennio, lustro, cinquantennio, secolo, millennio) e ciò
rimane, quel che muta è la qualità intrinseca di tale percezione. In sostanza,
è mutato la materia filosofica su cui viene a delinearsi la questione del
tempo.
L’aver fatto la premessa di sopra è servito per descrivere il contesto narrativo e non solo in cui viene a collocarsi quanto segue. Fin dal primo episodio della serie rimane sullo sfondo un personaggio che è fondamentale in questo ragionamento sul tempo, Dr. Manhattan. Questo personaggio è uno dei più enigmatici della saga fumettistica di Moore, non solo perché è dotato di un potere immenso, tanto da farlo annoverare tra i supereroi più potenti di sempre, ma perché esibisce un’abilità che lo accomuna (o forse lo eleva, a seconda delle proprie convinzioni) a Dio, proprio al dio personale della tradizione giudaico-cristiana: è un dio creatore, vive nascosto e lontano dagli uomini, ha il dono dell’ubiquità, attraversa il tempo e verosimilmente dovrebbe essere eterno. Sono due infatti, i temi sollevati da questa figura, almeno quelli che qui interessano:
- La capacità di Dr. Manhattan di viaggiare nel tempo.
- La complicata questione della sua morte.
Entrambi
i due temi sono tra loro correlati e per il tipo di soluzione che propongono
descrivono situazioni particolarmente sconvolgenti, almeno per un certo assetto
culturale. Infatti, se il tema della morte di Dio rinvia chiaramente al
nichilismo europeo di fine Ottocento ed ad un certo ateismo e ad una certa
cultura antiteologica, che ha ridotto in farsa la stessa resurrezione di Dio in
nome di una presunta continuità ed immanenza del reale, il tema della graphic
novel è più sordido, più infame e forse più desolante, cioè dell’assoluta
inutilità di Dio. Ora, se gli sforzi del catechismo ufficiale, soprattutto dopo
la svolta del Concilio Vaticano II, sono tutti tesi a combattere l’indifferenza
dell’uomo verso l’infinito amore del Creatore, tale lotta dall’evidente sapore
antropologico cela un’evidenza che era già emersa a suo tempo con il
materialismo illuministico, vale a dire la non indispensabilità dell’Essere
Supremo. Il tema è che l’assunto razionalistico è egocentrico ed unilaterale,
nel senso che ha ammesso quest’esclusione di Dio dalla vita dell’uomo come
premessa atea del ragionamento filosofico e scientifico condotto sulla realtà e
sull’esistenza, il che implica implicitamente che rimane valido
l’argomentazione religiosa dell’importanza provvidenzialistica di Dio nel
mondo: è solo un volgare atto di tracotanza dell’uomo il negare questa presenza
divina o esserne del tutto indifferente. Per come si evolve la vicenda
narrativa di Dr. Manhattan, la morte di un supereroe assunto e venerato come
Dio passa scandalosamente in un clima di indifferenza, a sua volta giustificata
dal fatto che il Dr. Manhattan possedeva un superpotere incredibile, ma che non
ha sfruttato appieno, anzi dal racconto appare un essere inibito e limitato da
un ordine più necessario e più stringente di quello che può comporre con il suo
potere. Questo limite, a mio avviso, è strettamente correlato al tema del
tempo, anzi della sua rappresentazione, ed alle condizioni che permettono a Dr.
Manhattan di esercitare il proprio superpotere.
La
cifra determinante del superpotere di Dr. Manhattan è la sua capacità di
muoversi attraverso la storia, in pratica di viaggiare nel tempo. La molta
letteratura fantascientifica ci ha abituato a questa possibilità narrativa,
tema su cui tra l’altro s’instaura il genere letterario dell’ucronia, tuttavia
mi pare abbastanza evidente che la relazione che Dr. Manhattan instaura con la
grandezza del tempo non è sul modello fantascientifico, anche se il suo
scorrazzare per il passato dell’umanità è un evidente carattere
fantascientifico. La concezione del tempo che permette a Dr. Manhattan di
esercitare il proprio superpotere mi pare abbastanza ibrida, da un lato il suo
superpotere è condizionato dalla scansione temporale della storia, tanto da
subirne il fatale destino a lui assegnatogli (la morte), dall’altro lato tale
superpotere procede secondo una visione d’insieme che non è il tradizionale
concetto filosofico del tempo, ma è strettamente collegato alla
rappresentazione relativistica del tempo: se appare piena di contraddizioni il
suo viaggiare lungo la direzione del passato, più credibile, perché
scientificamente dimostrabile, è il suo spostamento verso il futuro.
Dr.
Manhattan in origine era un essere umano, si chiama Jonathan “Jon” Osterman,
figlio di un orologiaio e laureato in fisica nucleare, come ci viene detto
dalla serie televisiva era un bambino ebreo sfollato durante la Shoah nazista –
si trasferisce negli Stati Uniti d’America nel 1959 [cfr. wikipedia]. Acquista
il proprio superpotere in modo del tutto accidentale, rinnovando la sequela di
supereroi che diventano tali a causa di esperimenti fallimentari o a causa di
modificazioni permanenti ad opera di qualche progetto scientifico
avveniristico. Nel caso di Dr. Manhattan il superpotere lo cambia in un essere
dal colore blu, dotato di grandi poteri che hanno a che fare con la creazione e
il divenire del tempo. Si apprende della storia di Dr. Manhattan nell’ottavo
episodio della serie, che è tra l’altro l’episodio in cui Dr. Manhattan
incontra l’agente di polizia Angela Abar, alias Sister Night e da cui Angela apprende alcune notizie sul suo
immediato futuro, tra cui la relazione amorosa con lo stesso Dr. Manhattan, la
fine tragica del loro rapporto e tante altre informazioni. Il colloquio tra i
due personaggi è surreale, anzitutto perché Dr. Manhattan si presenta
all’appuntamento (mai fissato) con Angela con indosso una maschera che
riproduce il suo volto e poi perché la stessa Angela conduce il dialogo con
incredulità e canzonatorio umorismo: alla fine si convincerà dell’autenticità
del discorso di Dr. Manhattan e l’episodio si rinsalda con la linea narrativa
interrotta momentaneamente nell’episodio precedente.
L’elemento
che qui interessa è la concezione del tempo che permette a Dr. Manhattan di
dare espressione al suo superpotere. Da quel poco che dice e spiega alla Abar
il tempo su cui esercita il proprio superpotere è una realtà costituita da
«momenti», intendendo con questa teoria una situazione spazio-temporale in cui
gli attimi non si trovano lungo una successione di singole unità temporali,
come lo aveva inteso tanto per capirci Aristotele di Stagira con la nota
definizione del libro di Fisica in cui il tempo è un
movimento composto da antecedenti (prima) e successori (dopo), ma una realtà in
cui tutte le unità temporali sono simultanee le une alle altre. Una definizione
che ci rinvia non al concetto del Tempo Assoluto, ma quello del Tempo Relativo.
Che il tempo su cui agisce Dr. Manhattan non sia quello assoluto è la natura
del suo superpotere a suggerirlo. Dr. Manhattan si muove lungo la linea del
tempo, ma il modo in cui possa farlo non è assimilabile alla teoria degli
universi paralleli, abusata nella letteratura e nella cinematografia
fantascientifica, in cui il viaggio nel tempo è possibile, in quanto il
viaggiatore attraverso non la realtà effettiva, ma una sua immagine speculare,
pertanto il passaggio dall’una all’altra dimensione è affidata unicamente a
quei punti di contatto che fungono da “porte”, “ponti” o più genericamente “vie
d’accesso” che permettono il via vai interdimensionale. È su questo tipo di
assunto che si basa a.e., la letteratura ucronica. Il problema relativo al
viaggio nel tempo ovviamente, è grossomodo quello espresso da film come «To
back to the Future», cioè uno scorrazzare lungo le due forme estatiche
fondamentali, passato e futuro, ma è un falso problema, perché, come ci viene
detto dalla filosofia esistenzialistica del Novecento tutta l’esistenza umana è
proiettata inevitabilmente verso il futuro, che poi questo coincida con la
morte è un altro discorso, per cui il vero tema se sia possibile dirigersi
verso il passato, ovviamente senza ricorrere alle strutture narrative del
linguaggio. La risposta al quesito è teoricamente impossibile, perché (dal
punto di vista scientifico) il viaggio in direzione del passato produce così
tante contraddizioni che è difficile prendere sul serio tale possibilità. Il
viaggio nel futuro è relativamente possibile in ogni senso, ovviamente si deve
tenere bene in considerazione che in tale viaggio il fattore determinante è la
velocità della luce, cioè tanto più ci si approssima a tale velocità (che è
pari a 300.000 km/s) tanto più il viaggio diventerà una “macchina del tempo”,
in quanto si osserva l’effetto di una dilatazione del tempo vissuto.
Ora,
il superpotere di Dr. Manhattan è appunto un superpotere, perché permette al
personaggio di muoversi con facilità dall’uno all’altro capo della linea del
tempo, in quanto riesce a produrre una dilatazione o a sfruttare questa
dilatazione che gli viene da una velocità istantanea. Ma viaggiare in queste
condizioni significa muoversi su una rappresentazione relativistica del tempo e
non sul modello epistemologico tradizionale in cui sussiste un’autonomia delle
tre grandezze meccaniche. È il fisico tedesco e premio Nobel Albert Einstein a
definire questa rappresentazione in quella che viene detta Teoria ristretta della relatività.
La spiegazione che fornisce questa teoria appare paradossale, perché per
tradizione il paradigma scientifico si è abituato all’idea per cui velocità e
tempo siano due grandezze commensurabili. Nel modello relativistico invece, lo
spazio non è più una grandezza autonoma, ma viene a comporre una nuova struttura
che è lo spazio-tempo, una realtà in
cui le due originarie grandezze sono convertite l’una nell’altra. La
conseguenza più evidente è che l’osservazione sperimentale non è più basata sul
tempo assoluto, a sua volta basato sul fatto che un sistema fisico fosse un
sistema isolato, ma viene a comporsi dentro un sistema di riferimento
variabile. Il già menzionato Einstein riesce a dimostrare che la misura del
tempo in un sistema variabile è direttamente correlato all’osservatore, vale a
dire non può esibire quella presenta situazione di neutralità che era presunta
nel modello classico. Ovviamente, ciò accade ad un ordine di grandezza molto piccolo,
cioè a livello delle particelle costituenti la materia e non a livello
macroscopico che è il piano di realtà dell’intuizione ordinaria, tuttavia anche
sul piano macroscopico è possibile osservare, non senza sorprese, esperienze
che mostrano conclusioni sconcertanti.
In
fisica la Dinamica insegna che è possibile osservare il moto di un corpo
fissando un intervallo spaziale e temporale. Esempio, dato un corpo in moto e
fissando uno spazio (punto di partenza e punto di arrivo), la velocità è data
dal rapporto spazio su tempo. Pertanto, immaginando che il corpo proceda in
modo uniforme, è possibile frazionare l’intero intervallo secondo singoli
momenti di questo movimento: ciò risulta possibile, perché le due grandezze
sono raffrontabili l’una all’altra. La situazione inizia a complicarsi il
menzionato corpo in moto subisce una variazione di moto (accelerazione) o
addirittura un cambio istantaneo della stessa velocità. Gli strumenti in
dotazione (matematica elementare) risultano inadeguati a rappresentare queste
ultime situazioni, ma ci si limiti nella situazione più semplice, appunto un
corpo che si muove dal punto di partenza (A) ad un punto di arrivo (B).
L’osservazione di questa esperienza si basa sull’assunto che l’osservatore sia
esterno alla situazione sperimentale, cioè si trova in un contesto di sistema
isolato, per cui utilizzando un orologio misura il tempo impiegato dal corpo
osservato nel suo passaggio da A ad B: la misura gli fornisce un certo valore.
Ora, il tema che si pone Einstein è cosa accade a questa misura se
l’osservatore non sia esterno al sistema, ma fosse uno dei passeggeri del corpo
in moto (es. un treno in marcia). La risposta di Einstein è che la misurazione
sarebbe risulterebbe modificata, anzitutto perché l’osservatore si muove con il
corpo che osserva e poi perché avrebbe la sensazione di non muoversi, tranne la
presenza di alcuni segnali esterni al sistema (guardare fuori dal finestrino)
che gli suggeriscono invece tutt’altro. In pratica, il tempo misurato
dall’orologio del passeggero, ammesso che risulti sincronizzato con l’orologio
di un osservatore esterno, evidenzia una discrepanza che è data dalla
dilatazione del tempo operata dallo spazio attraversato: maggiore è la quantità
di spazio percorso per unità di velocità, minore è il tempo impiegato per
attraversare lo spazio fissato. Per dimostrare questa esperienza la
riconvertiamo in una situazione simile, immaginando di costruire un binario su
cui far scorrere un ipotetico veicolo e che tale movimento sia lineare. Si
fissi all’estremità di questo binario due lucine e si collochi il corpo-veicolo
ad una distanza intermedia tra le due lucine; fatto questo si inizia a spostare
il corpo-veicolo in una direzione qualsiasi, anche a velocità costante. Il
quesito è se si effettuasse la misura del tempo impiegato dal corpo-veicolo
mentre si avvicina ad una delle due lucine è la stessa di quella effettuata da
un sistema isolato. Risposta no, perché nel sistema isolato la distanza è
sempre la stessa, mentre nel sistema variabile che è il corpo-veicolo questa
stessa distanza varia; inoltre, nell’osservare il viaggio di un fotone emesso
da una delle lucine da parte di un osservatore posto sul corpo-veicolo si avrà
che il fotone emesso dalla fonte luminosa verso cui il corpo-veicolo è diretto
impiegherà meno ad essere osservato, mentre il fotone emesso dalla fonte
luminosa da cui ci si allontana impiegherà più tempo per essere osservato dal
passeggero del corpo-veicolo.
La
conclusione di esperienze di questo tipo è l’osservazione sconcertante per il
modello teorico classico del fenomeno di dilatazione
del tempo, cioè la distanza temporale che è possibile percorrere può essere
accorciata o allungata a seconda delle condizioni in cui viene a trovarsi
l’osservatore stesso. Il viaggio nel tempo è un evento dunque, che risulta
teoricamente possibile, in quanto utilizza quest’anomalia derivante della
struttura spazio-tempo. Se al posto
del corpo-veicolo ponessimo la navicella spaziale Enterprise della nota serie televisiva Star Trek e facessimo
viaggiare detta navicella ad una velocità pari a quella della luce, che come è
noto viaggia nello spazio alla velocità di 300.000 km al secondo, l’equipaggio
della navicella raggiungerebbe la Terra in tempi brevissimi, ma ciò non
impedisce il trascorrere del tempo, il quale si muove chiaramente in direzione
del futuro; es., supponiamo che Enterprise lasci la Terra (17 settembre 2020) per
raggiungerla semplicemente un minuto dopo l’uscita dall’orbita terrestre;
immaginiamo che durante quel minuto di viaggio la navicella compia un salto
temporale, cioè viaggi alla velocità della luce, in quel minuto la navicella
attraverserà un lasso di tempo pari a ca 4 volte, cioè raggiungerebbe la Terra
quasi in quattro giorni (21 settembre 2020).
A
rendere comprensibile questa situazione interviene la formula seguente tratta
da un libro di Martin Gardner [1975]:
dove
con T
si indica il tempo misurato da un orologio sulla Terra e con T’
l’intervallo di tempo misurato da un orologio che viaggia a velocità costante
rispetto alla Terra. Dalla formula si evince chiaramente che per valori molto
piccoli del denominatore il valore di T si approssima a quello di 1 e
quindi, il valore complessivo di T’ tende a coincidere con quello di T:
è quello che accade ogni qualvolta si realizza un’esperienza dinamica, cioè è
come se i due orologi menzionati fossero uno soltanto. Tuttavia, se alla
variabile c – con la quale si indica la velocità della luce – iniziassimo
a dare valori alti, pari a velocità che siano frazioni della velocità della
luce (es. 0,5 c oppure 0,75 c) il valore totale della frazione si
approssimerà a quello di 1 di T. Riportando questo sul piano di
un’esperienza diretta si osserverebbe un’evidente anomalia molto simile a
quelle descritte dalla Teoria della relatività. In altri termini, il valore
complessivo di T inizierebbe a diminuire e quindi, a far crescere quello di T’
e così facendo si osserverebbe una dilatazione del tempo.
Ciò
ovviamente, spiega come Dr. Manhattan può compiere il suo viaggio in direzione
del futuro, ma non nella direzione opposta, cioè verso il passato. Qui in realtà,
non interessa se e perché ciò non sia possibile; qui interessa mettere in
evidenza che la ragione stessa del superpotere di Dr. Manhattan è del tutto
compatibile con una prospettiva relativistica del tempo e se ciò è vero,
significa altresì che anche il significato intrinseco del concetto di supereroe
deve mutare, perché non più definito sulle coordinate della Meccanica classica.
Si fa questo tipo di ragionamento, perché è evidente dal racconto della serie
televisiva che la considerazione degli uomini verso Dr. Manhattan è molto alta,
è in pratica l’ultimo grande supereroe rimasto alla Terra, per cui è e descrive
il nuovo significato che viene dato a tale concetto da una civiltà sconvolta da
una guerra terroristica aliena e da un distruttivo loop mentale di tipo storico – la civiltà umana sembra vivere
ripetendo e avvilupparsi su quel traumatico evento. Ora, l’esistenza stessa di
Dr. Manhattan rivela come il tradizionale significato di supereroe, fissato
dall’oscura figura del primo supereroe in assoluto, «Vendetta mascherata», non
corrisponda più alla nuova situazione sociale e culturale dell’umanità. La
speranza di un ordine nuovo, basato su giustizia ed equità, non è più il
prodotto emulativo che abbia un eroe come modello eponimo, ma è la delirante costruzione
di un ordine fondato su fobie, paranoie e antichi spettri che ritornano. Un
insieme di forme che la società umana cerca di combattere e scacciare tramite
l’istituzione di una società della commemorazione (come la fede del
cattolicesimo), ma che non fa altro che riprodurre quei mostri che intende
combattere.
La
fine tragica di Dr. Manhattan è certamente, il segno di una strutturale
inadeguatezza del concetto espresso da questo supereroe, ma è l’inevitabile
conclusione di una convinzione diffusa, quella per cui la storia e la società
umana in quella fase di sviluppa chieda e descriva una collocazione dell’eroe
tradizionale, di colui che fonda un ordine nuovo, di colui che rinnova la
fiducia intorno alle istituzioni e alla solidarietà tra gli stessi cittadini; in
realtà, la nuova configurazione del supereroe prevede un significato meno
manicheo, drammaticamente parossistico e moralmente incomprensibile. Morte,
vendetta, illiceità, ma anche degrado, corruzione e violenza sono tutti
caratteri che finiscono per appartenere alla natura brutale e brutalizzata del
supereroe, come già era stato ampiamente fatto emergere da Frank Castle quando
nella veste di The Punisher umilia Daredevil incastrandolo
(letteralmente) in un dilemma sordido, ma inestricabile sul tema della
giustizia violenta: non è casuale il riferimento alla violenza ed alla
giustizia privata di semplici cittadini che divengono dei giustizieri
all’occorrenza, un modello deviante e scorretto che il fumetto classico bandiva
chiaramente assegnando ai supereroi tutte le grane di tale esercizio, lasciando
intatto il valore e la fiducia del cittadino medio sul potere delle istituzioni
preposte.
Conclusione
Ovviamente
ciò che si è detto prima è solo un divertissement, un gioco intellettuale
incentrato sulle caratteristiche di un personaggio di finzione come è il Dr.
Manhattan della graphic novel di Alan Moore. Una riflessione semiseria su un
tema complicato ed arduo come quello del tempo, di cui tuttavia deve prendersi
molto seriamente solo ciò che può essere scientificamente dimostrabile e magari
tralasciare quella argomentazione realmente fantascientifica su cui poco o
nulla può dirsi, e tra l’altro ammantata di una serie di irrisolvibili
contraddizioni.
Vi
è solo un elemento teoricamente possibile nel viaggiare attraverso il tempo,
cioè solo lo spostamento direzionale verso il futuro e ciò perché l’unica
possibilità che può essere teoricamente dimostrata. Ovviamente, ciò richiede anzitutto
un cambio di prospettiva del sistema di rappresentazione del tempo e passare ad
una cornice relativistica; in tal senso, è teoricamente possibile che un
personaggio dotato delle capacità di Dr. Manhattan possa viaggiare in direzione
del futuro, in quanto riesce a dilatare la distanza temporale che sussiste per
raggiungere il punto d’arrivo di questo viaggio. Una capacità che sembra
compatibile con quanto descritto dalla teoria
ristretta della relatività. Più inverosimile, se non addirittura
scientificamente indimostrabile, il viaggio lungo la direzione opposta del
tempo, cioè il passato, ma questo di per sé non fa specie, in quanto
collochiamo questo tipo di descrizione nell’ordine di una descrizione
fantastica e fittizia come è appunto, il racconto fumettistico – ma anche di
prosa. Una maggiore perplessità sussiste invece, sulla «teoria dei momenti» che
proprio durante l’8° episodio Dr. Manhattan introduce per spiegare ad Angela
Habar, alias Sister Night, come opera
il suo superpotere.
La
teoria in apparenza sembrerebbe muoversi con le coordinate relativistiche di
cui si è detto in precedenza, in realtà il discorso di Dr. Manhattan (almeno
nell’adattamento televisivo) appare molto elusivo. Per come descrive ad Angela
queste sue “visioni” lascia intendere che esse siano il prodotto di una
simultaneità fisica (spaziale) e storica (tempo) di situazioni che si trovano
su coordinate spaziali e temporali differenti. L’impressione che affiora è che
quando Dr. Manhattan tenta una spiegazione della funzione del proprio
superpotere lo faccia ricorrendo elusivamente sia al modello epistemologico
tradizionale, sia alla teoria letteraria dei mondi paralleli. È indubbio che il
momento di cui parla Dr. Manhattan
non è l’hic et nunc antropologico, né
l’attimo o l’istante della tradizione filosofica, ma è un’unità con la quale
descrive una situazione che risulti comprensibile sul piano intuitivo. Infatti,
se si presta fede alla teoria ristretta della relatività e più in generale alla
Teoria della relatività l’intuizione del momento è intrinsecamente affidata
alla convinzione della fisica classica di ragionare su un paesaggio fisico dove
tutte le grandezze si trovino in uno stato decidibile, che siano commensurabili
tra loro e viga un ordine della proporzione che rimane in ogni situazione
costante, tanto da poter essere generalizzato ed assolutizzato mediante una
legge fisica.
Ora,
se Dr. Manhattan può effettuare un viaggio nel futuro lo può fare entro un
paesaggio teorico che non è quello della Meccanica classica, bensì in quello
della fisica quantistica. In questo scenario, i rapporti tra le varie grandezze
che rappresentano le particelle costitutive della materia non sono organizzate
in un ordine armonico e razionale, intendendo per “razionale” la costruzione
rigida in un sistema, ma procedono in un orizzonte probabilistico, dove le
grandezze decisive come spazio, tempo e velocità sono valori ipotizzabili, cioè
indici statistici. Ciò perché non sussiste più l’interdipendenza aritmetica
strutturale tra le stesse grandezze, quella stessa che ci permette tramite le
note leggi della Dinamica di individuare una delle tre grandezze in gioco,
muovendo dalla conoscenza delle altre due. Il gioco narrativo che permette a
Dr. Manhattan di fare lo splendido e dimostrare ad un’incredula Angela Abar di
essere in grado di viaggiare nel tempo, soprattutto nel passato, è tollerabile
in quanto è un’evidente licenza creativa prodotta dalla struttura narrativa del
racconto – non si dimentichi che ogni sistema linguistico ha specifici
operatori temporali (particelle, avverbi e desinenze) che hanno appunto la
funzione di configurare sul piano del discorso le connessioni temporali -, ma
accantonate queste licenze fantasiose, il discorso di Dr. Manhattan non regge,
anzi sembra incastrarsi ed incartarsi su una materia di cui probabilmente lui
stesso ha difficoltà di gestire, tanto che le scelte che compie il personaggio
non sono quelle che ci si aspetterebbe da un dio capriccioso, ma quelle di un
calcolatore di vecchia generazione che segue le istruzioni algoritmiche del
programma che i costruttori gli hanno caricato. Infatti, il superpotere di Dr.
Manhattan non è un potere euristico e creativo, anche sembra esserlo, ma è una
facoltà condizionata dalla rigida meccanica fattuale del divenire della storia
e del tempo, meccanica contro la quale Dr. Manhattan non sa come opporsi.
venerdì 11 settembre 2020
sabato 5 settembre 2020
venerdì 28 agosto 2020
domenica 23 agosto 2020
Nontitolato. #2
venerdì 21 agosto 2020
Nontitolato. #1
giovedì 23 luglio 2020
Nuovo Urbanesimo #1. "A muro"...Andrea Camilleri. Un nuovo murale a Porto Empedocle
Nuovo
urbanesimo
Ci
sono delle urgenze, anche intellettuali, talmente impellenti, che chiedono,
anzi pretendono attenzione e tutto il proprio interesse; fatti, situazioni o
semplicemente dei dibattiti che nell’atto in cui reclamano la loro urgenza
appaiono a distanza di tempo meno rilevanti di quanto lo si credeva nel momento
in cui costringono proprio all’agone dialettico, o addirittura ad estenuanti
contraddittori pubblici, privati, istituzionali e via dicendo – è sono i casi
peggiori! – e tuttavia, hanno quel potere magico e fabulatorio che ricorda
tanto lo spettro marxista del capitalismo borghese che si aggira per le
contrade europee. Qualcosa di cui avverti la presenza, ma contro cui hai ben
poco da opporre, se non, come si fa in area mediterranea, confortarsi dietro ad
un ineluttabile fatalismo dell’esistenza. Ebbene, l’attualità o la storia del
presente - Croce la definiva con il termine che a lui sembra chiarissimo di
«contemporaneità» - ha questo tipo di caratteristiche, si presenta come
un’urgenza a cui bisogna dare conto, ma di cui ben presto mostra anche una
certa natura effimera, non proprio come i piaceri edonistici e tuttavia, una
natura fugace e consistente abbastanza per impressionare con un terrorizzante «bu!».
Ma una volta razionalizzato questa specie di “spavento”, beh rimane la
delusione farsesca ed il sentimento di chi avverte di essere stato buggerato da
se stesso ed in fondo, dalle proprie nevrosi, ansie e forse anche opinioni.
Ebbene,
l’attualità o il susseguirsi degli eventi a volte dà questa sensazione, il che
spiegherebbe l’argomento di chi qualche anno fa evidenziava la natura
masochistica dei dibattiti politici nazionali, nel senso che tutto
l’argomentare che avvinceva gli organi di comunicazione aveva il chiaro sentore
del feticismo puro e tramite esso la stessa direzione della politica nazionale
appariva appunto, masochistica: argomento che a volte sembra letterariamente
una forzatura, ma ha entro certi limiti una sua ragionevolezza, ovviamente
seguire questa linea significa ammettere anche una volontà ed una dipendenza
morbosa da questo genere di dinamiche, che a volte acchiappano quasi
automaticamente (cfr. il gran parlare sul recupero sado-masochistico attuato
con una operazione letteraria come 50
sfumature di grigio), anche se non sempre in questi casi si ha a che fare
con l’inconscio.
Acconsentire
a questo tipo di lettura dell’odierno sistema della comunicazione non è più
bizzarro di altre forme di esegesi, in ogni caso rivela, forse con un migliore
e convincente argomento, questa strana esperienza che è e costituisce
l’esistenza in generale, più nello specifico l’attualità conscia del presente.
E quindi, ci si accorge che nonostante si provi a sottrarsi da questo tipo di
dinamiche si avverte in ogni caso, una perversa attrazione, senza nodi e freni
che tentino di temperarci, come novelli Odisseo dinanzi al potere ed al fascino
della propria personale maga Circe che seduce, narcotizza e si concede; ma poi,
la coscienza si sveglia ed il sogno della esistenza lascia di sé cumuli, anche
di spazzatura, che ingombrano e tuttavia, meno male che ci siano: ciò che non
piace basta spazzare con una ramazza e via di nuovo ad accumulare in modo compulsivo sensazioni, coinvolgimenti; ecco, l’attualità è così, questo vento turbinoso
che sferza sulla nostra esistenza biologica e che canalizziamo in vari modi,
anche sotto forma di cultura.
#1. “A
muro”…Andrea Camilleri. Un nuovo murale a Porto Empedocle
Anzitutto
i fatti. Alcuni giorni fa, precisamente il 17 luglio 2020, viene presentato
dall’associazione Archeoclub di Agrigento (composta da cittadini agrigentini ed
empedoclini) un’opera muraria (murale) commemorativa della figura dello
scrittore di origini empedoclina Andrea Camilleri, autore di una fortunata
serie di romanzi che hanno per protagonista l’ormai noto commissario siciliano,
Salvatore Montalbano, noto appunto, grazie alla serie televisiva di grande
successo realizzata dalla RAI.
La
figura di Camilleri, soprattutto quella che ha avuto modo di conoscere negli
ultimi lustri, è un recupero di una certa prosopopea dell’intellettuale e del
letterato, cioè quella di un intellettuale tutto tondo, con il suo ruolo
prestigioso ben definito, con i suoi spazi di intervento e di azione, con il
suo impegno sociale più o meno esibito e sinceramente portato avanti. Insomma,
la figura di Camilleri cresce intellettualmente al pari del successo e dell’interesse
che raccoglie la sua opera e così facendo colma una lacuna avvertita come tale
nel panorama della nostra letteratura, quella appunto dell’intellettuale che si
fa voce dei sentimenti di una parte della nazione, che valuta situazioni e
contesti internazionali e che non si lascia sfuggire di esprimere la propria
opinione sulle dinamiche politiche. Beninteso, Camilleri non è stato l’unico
poteva esibire diverse sfaccettature dell’essere intellettuale, negli stessi
anni in cui brilla la sua stella altri potevano avocare a se stessi requisiti,
ruoli e funzioni, in virtù di quella malsana abitudine italica di dover
caricare l’intellettuale per forza di una qualche responsabilità civile o
civica: l’impegno civile giustifica l’esistenza degli intellettuali, li rende
utili alla società, visto che notoriamente sono una classe di sfaccendati,
almeno nel pensiero sociale dominante.
Qualunque
sia l’opinione che si abbia su Camilleri e la sua opera, mi astengo di
contestarla o di appoggiarla, ognuno è libero di valutare entrambe i soggetti
come meglio crede, a me è indifferente, come lo è stata la stessa opera dello
scrittore – ho sinceramente provato ad accostarmi alla sua prosa,
ma non ci sono riuscito, è una delle mie letture fallite -, tuttavia un’opinione
sull’iniziativa prima menzionata mi sento di doverla affermare, perché, come
giustamente è stato fatto dall’associazione in questione, la commemorazione
dello scrittore è un appuntamento politico, culturale e mediatico a cui non si
poteva mancare; ed in effetti, molti personaggi si sono affollati, in una
corale fotografia di gruppo, per testimoniare la propria presenza o magari, nel
caso delle figure istituzionali, di affermare una paternità o un mecenatismo
dell’iniziativa. Ma questo è un giudizio che lascia il tempo che trova, il dato
di fatto è appunto la messa in cantiere del murale e la sua realizzazione. E da
qui il presente argomento muove.
Un
anno fa, all’epoca della morte dello scrittore, l’attuale amministrazione
guidata da un sindaco espressione del Movimento 5S era incappata in uno
scivolone quasi demenziale, in merito ad un refuso (errore) di stampa presente
nel manifesto funebre. Un fatto imbarazzante certo, che però a suo modo finì
per creare una specie di volano pubblicitario e soprattutto consegnò nuovamente
a Porto Empedocle e a questa giunta la palma, per così dire, di un reale ed
effettivo interesse e forse anche di amore nei confronti di questo suo illustre
cittadino. Pertanto, la commemorazione non poteva essere un evento da lasciar
passare sotto silenzio e tuttavia bisognava trovare un’iniziativa che
confermasse quanto si è venuto a delineare un anno fa e che desse lustro ad una
certa idea di solidarietà comunale che l’attuale giunta vuole diffondere,
un’idea che dia centralità da un lato all’attivismo civico, e dall’altro lato
indicasse nell’attivismo culturale la (solita) panacea dei cronici problemi e
difficoltà del paese marinaro.
Soluzione.
La via intrapresa porta dritta al murale presentato alcuni giorni fa, ben visibile
da tutti coloro che transitano per la via centrale, quella che conduce al
Palazzo Comunale e che si presenta come un’opera che certamente non lascia
indifferenti, anzitutto per le dimensioni (copre quasi l’intera parete del
palazzo) e poi per la resa del soggetto (un Camilleri ritratto affacciato da
una finestra: immagine che mi pare di aver già visto nel web, in ogni caso non
inedita). Insomma, anche se scomparso, la presenza di Camilleri non solo
aleggia come uno spettro sul salotto buono di Porto Empedocle, ma occupa
visivamente, cioè materialmente un posto in prima fila, nella vita civica della
cittadina marinara, come se quest’immagine ammonitoria vigilasse su tutti noi
empedoclini, sulle nostre miserie e sulle nostre gloriose o infauste ore.
Il
murale viene presentato come opera di riqualificazione urbana di uno scorcio di
via Roma, tant’è che è pensato in relazione alla decorazione di una piccola
scalinata, ridipinta e decorata con i titoli delle opere dello scrittore (i
titoli per lo più, così mi è parso, relativi alle indagini del commissario
Montalbano), probabilmente con l’intento di accompagnare idealmente il passante
o il turista di turno lungo l’opera dello scrittore.
La
presentazione del murale è diventato un evento mediatico, di cui si sono
interessati televisione, giornali e pagine web. Per l’occasione ci sono state
le rituali interviste a coloro che si sono spesi nell’iniziativa, di cui plaudo
il tentativo (secondo me giusto) di proporre un’idea di associazionismo
differente da quello regolato da titoli professionali, quello che de facto non ha prodotto nulla a Porto
Empedocle che altrove in provincia, ma vi è anche l’intervento delle figure
istituzionali con il loro consueto contributo basato su evidenze e su ovvietà: del
resto con buona pace di Gramsci e del suo “intellettuale organico” i professionisti
della politica possono essere tutto, fuorché intellettuali; non è il loro
mestiere, ma purtroppo alcuni pensano che lo sia (sic).
Tutto
bene e tutto perfetto allora? Forse, anche se credo sinceramente che quest’iniziativa
risponda con una certa efficacia ad un’urgenza sottesa proprio in un evento che
vuole essere commemorativo, , cioè quella di riuscire a trovare modi e
strumenti che riescano a difendere la memoria dell’intellettuale di turno dalle
offese del tempo e dell’oblio degli uomini cui irrimediabilmente la sua opera (come
ogni altra opera umana) è fatalmente destinata: non tutti abbiamo il glorioso
destino dei grandi autori e non tutti possiamo godere del dono del ricordo
imperituro nelle generazioni postume, nonostante le svariate firme che possiamo
apporre nel nostro personale patto con il diavolo.
La valutazione e la conseguente opinione sull’iniziativa si basa su due argomenti, in fondo collegati l’uno all’altro:
i. anzitutto, il teorema diffuso dalla comunicazione giornalistica, forse dietro la stessa volontà della associazione cittadina e con il bene placito dell’amministrazione comunale di legare il declino cittadino di Porto Empedocle con la dismissione della sua struttura industriale. Personalmente è un teorema che fa gioco all’idea di imporre un “nuovo corso” fondato sull’attivismo culturale, ma che è un teorema preconfezionato e non so quanto possa aiutare nell’individuare una realistica soluzione alle croniche difficoltà del paese. E poi, sono più di dieci anni (ma ho il sospetto che siano molti di più!) che è invalsa questa retorica che identifica nella cultura e nel turismo la soluzione dei strutturali problemi di Porto Empedocle: non si è visto nulla, anche perché i progetti a riguardo non mi pare che siano stati vincenti. Comunque, quest’idea, secondo me falsa, che il degrado dell’attuale Porto Empedocle sia interamente collegata al ridimensionamento del suo insediamento industriale, è del tutto equivalente all’idea invalsa nella stessa storiografia empedoclina per cui il progresso civile ed economico del paese sia interamente ascrivibile all’industria (Marullo): la famosa Porto Empedocle degli anni Settanta e primi anni Ottanta riuscì a capitalizzare quei pochi benefici derivanti dall’industrializzazione, ma erano allora come oggi benefici effimeri ed inconsistenti. Tuttavia, persiste nella mente sia della dirigenza politica, sia nella stessa popolazione di Porto Empedocle l’idea quel modello di sviluppo sia da replicare ed in effetti, la vicenda del rigassificatore di qualche anno fa rivela chiaramente quanto sia ben presente quest’idea di economia industriale, ma è giusto ricordare che quel modello industriale è basato su uno sviluppo predatorio del territorio, uno sviluppo che faceva sorgere industrie qua e là sol perché si realizzavano contingenti situazioni favorevoli e non figlie di una programmazione ad hoc per il territorio. Pertanto, per chi vuole proporre un modello di sviluppo alternativo di Porto Empedocle non può esibire un paradigma che non tenga conto del fatto che l’industria a Porto Empedocle non è stato nel suo complesso un gran bell’affare e non lo era neanche quando le industrie erano presenti e a regime. Capisco l’esigenza dell’attuale amministrazione di segnare una linea di demarcazione dal passato e dalle scelte politiche precedenti, ma prima di elaborare un paradigma alternativo sarebbe opportuno spiegare alla cittadinanza perché il vecchio modello dell’industrializzazione selvaggia, quello che nella stessa vulgata pubblica ha prodotto ricchezza e benessere debba essere sostituito dagli spicci del piccolo turismo di cabotaggio.
ii. Collegata al primo punto, c’è questo secondo punto. La politica culturale che l’attuale giunta promuove, ammesso che l’’iniziativa del murale sia parte di una strategia politica – personalmente ne dubito -, rivela in ogni caso l’ipocrisia empedoclina proprio nei confronti di questo suo concittadino, perché se lo scopo è quello di mero marketing, beh la pubblicità raccolta tramite gli organi di stampa nazionale soddisfa o può far dire che gli obiettivi di vendita del prodotto «Camilleri-Porto Empedocle» siano stati raggiunti, ma se lo scopo è quello di legare un eventuale sviluppo culturale della cittadina al volano descritto dall’opera e dal ricordo dello scrittore empedoclino ho seri dubbi al riguardo: lo si verificherà appena qualche mano ignota vandalizzerà l’opera e come la stessa collettività, oggi in festa, reagirà all’accaduto. Capisco che si voglia far dimenticare le scelte di industrializzazione che fino a qualche tempo fa da più parti giungevano e forse si vuole anche fare ammenda dello smacco che a livello provinciale è stato dato alla stessa cittadina marinara in merito alla menzionata vicenda del rigassificatore, ma mi pare evidente che la matrice dell’iniziativa è il consueto atteggiamento di sudditanza nei confronti del vicino capoluogo di provincia, che rispetto a Porto Empedocle ha non solo qualche requisito in più, ma anche i numeri per poter vantare una politica incentrata sulla creazione e sviluppo di un’industria turistica colta (es. Valle dei templi), ma anche di svago (es. litorali ed alberghi con sale spa e via dicendo). Quel che emerge con una certa evidenza e che l’attuale sindaco 5S e la sua giunta, nelle veci del suo attuale assessore alla cultura, avvallano (a mio giudizio indecorosamente) è un cambio radicale ed in fondo, quasi paradigmatico di una effettiva posizione strategica di Porto Empedocle rispetto al consesso provinciale; voglio dire, l’unico vantaggio che Porto Empedocle ha tratto dalla sua industrializzazione selvaggia – quella che è stata demonizzata nella forma di degrado –è stato proprio quello di provare a formulare un modello economico che l’affrancasse dal suo storico (ed ingombrante) legame descritto in epoca borbonica di Molo o di Caricatore di Agrigento (Gibilaro); una condizione che nell’immaginario empedoclino, a quanto pare, è ampiamente introiettata, tanto che si sono susseguite le epoche storiche ed i cambi di regime, ma questo legame ideale (o forse materiale?) non è stato possibile reciderlo, basti pensare, a.e. che l’unica antica porta ancora visibile del medievale muro di cinta della città di Agrigento guarda ancora al suo Caricatore empedoclino. Ebbene, dietro il perbenismo culturale dell’attuale giunta si delinea un recupero, a volte palesemente smaccato, di istituire un nuovo legame di dipendenza con la città di Agrigento, di cui, se ci saranno vantaggi, saranno appannaggio solo di alcuni e probabilmente camuffati sotto l’ipocrisia di una cultura benpensante e autoreferente, quella stessa che opera odiernamente proprio nella città di Agrigento.
In
conclusione, per quanto mi riguarda l’iniziativa di per sé mi è del tutto
indifferente, tranne ovviamente per qualche affetto personale che mi lega verso
alcune delle persone coinvolte, perché non mi pare né adeguata ad un progetto
culturale di più ampio respiro che non si limitasse solo alle sterili
commemorazioni (ma dalla sinistra odierna cosa si vuole pretendere, se non
nostalgie e commemorazioni!), né funzionale allo scopo prefisso, cioè quello di
difendere dalla dimenticanza sia la memoria dello scrittore, sia della sua
opera, ammesso che tale opera abbia titolo di essere ricordata. Sarò sprezzante,
ma permettemi di dire che in me manca proprio quell’amore che ha motivato suddetta
iniziativa e quindi, non credo di stupire alcuno per queste mie righe, del
resto ciò che mi interessava non è formulare un giudizio sull’iniziativa in sé,
ciò bastano alcune osservazioni che mi è capitato di sentire tra i miei stessi concittadini,
quanto accendere il riflettore su alcuni aspetti che descrivono il paesaggio
complessivo della situazione attuale in cui viene a collocarsi detta
iniziativa.
Post Scriptum. Il filosofo tedesco Kant aveva elaborato un sistema della conoscenza che si fondasse su due forme a priori che indicò come “spazio” e “tempo”, suggerendo al contempo che il modo di produzione delle conoscenze valide traesse spunto dal piano fenomenico o empirico tramite una mediazione del tutto speciale data dalle due forme cui si è detto. Altresì, è bene ricordare che per Kant le forme a priori si caratterizzano per una qualità assoluta ed universale, vale a dire qualità che appartengono congenitamente all’uomo: ergo sono uguale in tutti gli uomini. La conseguenza più evidente è che spazio e tempo sono due categorie correlate, anzi due diverse funzioni della sensibilità, in ogni caso definite sull’intuizione primitiva dell’estensione: sono entrambe due intervalli in cui le estremità o polarità di questo segmento, diciamo così, descrivono la lunghezza, ma anche l’ampiezza di una superficie; nella misura empirica di queste realtà si ricorre a due unità di base correlate tra loro in quanto stanno in una reciproca relazione di proporzione – la misura del tachimetro di un’automobile con il quale si rappresenta la velocità del veicolo è, come noto, km all’ora, che è la misura multipla di quella teorica di metro al secondo; le estensioni sono chiaramente diverse, ma il tipo di rapporto che vi intercorre è il medesimo.
Nell’idea kantiana il tempo, così come lo spazio sono realtà incondizionate, poiché sono proprio ciò che permette la conoscenza effettiva di ciò che ci circonda, ma noi sappiamo che quest’idea è, quantomeno, fuorviante, non solo perché la teoria della relatività generale ha rivelato che la stessa misura del tempo e dello spazio è essa stessa metodicamente condizionata, cioè determinata da un lato dalla sensibilità degli strumenti di misurazione e dall’altro lato dalla presenza non sistemica degli errori di misurazione, ma anche perché l’approccio kantiano è molto simile alla realtà chiusa dei sistemi isolati: e la filosofia kantiana è de facto un sistema concettuale che pretende di delineare i fondamenti assoluti del pensiero su una struttura separata dal paesaggio dei fenomeni (trascendentalismo), anche se poi in effetti, le stesse funzioni dell’Io sembrano muoversi sul piano dell’esperienza sensibile traendo da questa quelle occorrenze concettuali e linguistico-dialettiche che ricorrono nel discorso filosofico.
Tuttavia, i limiti che sul piano filosofico sembrano delinearsi nel pensiero kantiano nel suo ipotetico confronto con la relatività della scienza fisica diventano qualcosa di più interessante se si prova a ribaltare la cornice concettuale in cui ci si trova e dunque, a cambiare anche il registro teorico. Se si riconverte lo antropocentrismo, o per meglio dire l’egologia kantiana entro una riflessione di tipo antropologico, in questo ovviamente aiutati dalle strutture narrative della semiotica, la convinzione kantiana che il tempo sia una realtà incondizionata può risultare accettabile nella misura in cui il tempo in questione viene convertito in “progetto” (cfr. Martin Heidegger) e che la stessa storia umana delle città e dei fenomeni di inurbamento siano da considerare a diverso titolo e con le loro specificità tutte formule attraverso le quali l’uomo pone la propria personale scommessa nella sua partita diabolica con la morte, magari con le stesse suggestioni della notissima scena de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ovviamente, in gioco non è l’eternità fisica e materiale dell’uomo, né tanto meno la salvezza spirituale della sua anima, quanto in realtà la possibilità di “fare lo sgambetto” a quello stesso evento ineluttabile, che per quanto ci possa dispiacere (a me tantissimo) si realizzerà, c’è poco da fare – l’ibernazione è solo un procrastinare ciò che avverrà comunque, a meno che si decida di diventare una società di vampiri disposti a parassitare i malcapitati organismi ospiti, ma ciò per adesso è solo fantascienza (o forse no?). Lo sgambetto a cui mi riferisco riguarda la possibilità di dare significato (uno qualsiasi) a questa morte che in ogni caso giungerà, un significato ovviamente che mette, per così dire, in scacco la stessa morte, tentando di beffarla non nel suo compito di inesorabile mietitrice, quanto in quella di sepolcrale manto di tutte le possibilità che rimangono in gioco (tante o poche che siano) e che sono riferite alle nostre personali scelte, alle azioni che veniamo a compiere, al progetto di vita futuro o eventualmente al tipo di modello di esistenza che si riesce non solo ad ipotizzare, ma in qualche modo anche a realizzare, fosse anche una piccolissima ed insignificante frazione.
(riflessione scaturita dalla lettura di alcune righe di Umberto Eco, Sugli specchi, 1985)
giovedì 16 luglio 2020
Il Solitaire. Un gioco strategico tra associazioni binarie, combinazioni e numeri surreali.
- opposizione su regola fondamentale: casella piena-casella piena-casella vuota a cui corrisponde pedina-pedina-vuoto.
- Opposizione su regola leibniziana: casella vuota-casella vuota-casella piena a cui corrisponde vuoto-vuoto-pedina.
- {L|{}} descrive la presenza di un insieme vuoto in R, il che vuol dire che il nuovo numero avrà un valore che è individuabile solo tra quelli maggiori in L, cioè che si collocano a destra di L;
- mentre la scrittura {{}|R} descrive la presenza di un insieme vuoto in L, il che vuol dire che il valore del numero si collocherà tra i valori minori in R, cioè tra quelli che si collocano solo a sinistra di R.
- Cada la prima tessera;
- Ogni tessera sia posizionata in modo tale che cadendo provochi la caduta della tessera successiva.
- U contiene 0.
- Ogni volta che U contiene tutti gli ordinali a minori di b, allora U contiene anche b.
- Il filosofo tedesco Friederich Nietzsche (1844-1900) era solito descrivere la propria filosofia in molti aforismi, specie in quelli di Ecce homo, come una «filosofia del martello», recuperando appieno proprio la cifra violenta contenuta nell’oggetto che qualifica il suo pensiero, il martello appunto.
- Per rimanere ancora in ambito filosofico. Il filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004) scrive un libro, molto citato ed interessante, dedicato all’analisi dello stile aforistico del filosofo tedesco sopra indicato, per l’occasione ricorrendo ad un’immagine, tra l’altro usata dallo stesso Nietzsche, che è quella dello sprone. L’etimologia metaforica (ricordare le idee espresse in La metafora bianca) che ne offre Derrida ci conduce ad associare lo sprone di Nietzsche al rostro delle navi romane, in quanto questi oggetti condividono la stessa funzione – anche simbolica -, quella cioè di ferire, pungere, strappare, incunearsi e via dicendo. Una funzione che a me ricorda molto la corazza di aghi dei ricci o delle istrici soprattutto, ma senza quella valenza univoca che Nietzsche riconosce a strumenti di questo tipo, cioè oggetti la cui funzione esiste e si esercita solo con l’attività del soggetto che lo brandisce: l’immagine di Derrida (come ho inteso fare io con gli aghi delle istrici) ha una doppia funzione, lo sprone è sì un oggetto puntiforme di attacco che produce aggressione e violenza (come in fondo, sarebbe piaciuto a Nietzsche), ma è anche uno strumento passivo di difesa, che innalza diciamo così, una barriera “strutturale” o “naturale” che non richiede alcuna attività per operare.
- Un altro esempio è una citazione giocosa. Nella canzone del cantautore genovese Fabrizio De André (1940-1999) dal titolo Nella bottega del falegname, tratta dal suo La buona novella, viene riprodotto il suono di un martello seppur in forma onomatopeica (deng, deng), ma questo suono, che certamente ci fa pensare ad un martello, non è il suono del martello di un falegname, anche se protagonista del brano è San Giuseppe. Personalmente, l’immagine che mi sovviene alla mente è quella di un martello batte su un’incudine: è il martello di un fabbro – di qui forse, l’epiteto che molti utilizzano quando si rivolgono al cantautore genovese, «faber» appunto. Ipotizzando che non sia un fatto casuale, anche in questo caso la commistione di diverse valenze lascia affiorare un’idea suggestiva, ma credibile per la quale il martello è ad un tempo strumento di lavoro, strumento di violenza (visto che sta costruendo un oggetto suppliziale) e strumento mistico, in quanto il Cristianesimo eleverà questo oggetto scandaloso che è la croce in una speranza.
- Nel film del regista coreano Park Chan-wook dal titolo Old Boy (2003) la locandina europea esibisce il protagonista che con gesto minaccioso tiene in mano e prova a scagliare un martello con una bicolorazione giallo e nera (come le api o come i cartelli di pericolo di contaminazione biologica e radioattiva). Il fotogramma è tratto da un momento del film in cui il protagonista nel tentativo di sfuggire ad un’orda di uomini che lo vogliono catturare si difende con un martello, picchiando con esso e brandendolo minacciosamente: scena che viene citata, senza però la presenza del martello nella prima stagione della serie televisiva della Netflix, Daredevil.
- Nel 1983 il gruppo musicale statunitense Metallica pubblica il loro primo full-lenght, il noto Kill’em All. La copertina in Europa, ma credo anche negli Stati Uniti d’America viene censurata da una pellicola con la scritta "Parent Advisor". Il provvedimento si è reso necessario, perché compare una pozza di sangue su cui è immersa la testa di un martello: il titolo dell’album non lascia dubbi sull’inevitabile correlazione tra il messaggio del testo e il contenuto visivo. Anche in questo caso la violenza è fissata dall’immagine del martello, tuttavia è da notare che non è una violenza immotivata o senza scopo, certo in questo caso ha valore negativo, quello di una violenza aggressiva, destabilizzante ed eversiva, non necessariamente seriale (si ricorre ad altre icone come il coltello o il bisturi chirurgico, in qualche caso armi da fuoco), di certo occasionale.
- Nel romanzo di Bram Stoker (1847-1912), Dracula, il protagonista per uccidere il non morto, quella forza del male che è il Conte Dracula deve ricorrere ad una tecnologia magica, tra cui compare anche il martello. La funzione dell’oggetto è semplicemente meccanica e materiale, cioè quella di conficcare nella cassa toracica, all’altezza del cuore, un paletto di frassino, ritenuto velenoso per la creatura della notte contro cui l’eroe del romano sta combattendo. Il martello ricorre nella letteratura gotica e fantastica per lo più come occasionale strumento che schiude o che chiude la situazione che caratterizza il tema del romanzo.
- Nella liturgia della Porta Santa della basilica di San Pietro a Roma, opera dello scultore Vico Consorti (1902-1979), prima della modifica apportata da papa Giovanni Paolo II (1978-2005) per il Giubileo del 2000, il rito prevedeva che il pontefice cattolico rompesse il diaframma, un sigillo posto sulla muratura attaccata alla porta, con un martelletto, inaugurando l’apertura del giubileo. Il vecchio rito prevedeva che, una volta rotto il sigillo, gli operai si premunissero per abbattere il muro che aveva carcerato la porta: si decise di cambiare il rito a causa di un incidente sfiorato accorso a papa Paolo VI (1963-1978) nel 1975, il quale durante l’abbattimento del muro viene sfiorato dai calcinacci.