sabato 16 maggio 2020

Ambiente acquatico: ruolo e funzione nel ritratto fotografico. Piccola grammatica fotografica


 
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Il paesaggio è l’altro componente, o per meglio dire il co-protagonista, se non addirittura il protagonista, di un ritratto fotografico. Ogni soggetto è comunque entro uno spazio ed in qualche caso agisce entro questo spazio, spesso perché impegnato in qualche situazione o perché interagisce con elementi che compongono l’ambiente in cui si trova ad essere. Un co-protagonismo che negli anni Sessanta del secolo scorso ha permesso di poter formulare una diversa relazione con l’ambiente tramite una ricerca artistica dove l’artista agiva immerso in ambienti naturali o urbani mediante la drammatizzazione di alcune scene, oppure mediante l’installazione di manufatti o altre realizzazioni che interagissero per così dire con l’ambiente, inscrivendo de facto l’ambiente naturale entro un codice iconografico culturale predeterminato, ma che fosse la risultante del rapporto tra la opera d’arte e la natura (Land Art). Una ricerca che ha come conseguenza la definizione di una nuova coscienza con il mondo esterno, ma che si fonda in ogni caso su una prospettiva che rimane ancora di tipo antropocentrico.

Ciò che è da tenere presente è che questa direzione artistica sarebbe del tutto impensabile senza l’intervento della fotografia, infatti molti degli artisti che avevano svolto questo tipo di ricerca avevano ricorso alla fotografia da un lato per attestare la definizione di questa nuova modalità relazionale, dall’altro lato perché è tramite il linguaggio formale della fotografia che una certa creatività artistica trova la sua via espressiva privilegiata. In ogni caso, qualunque sia la motivazione intrinseca il rapporto con l’ambiente naturale o urbano trova nel ritratto fotografico una forma d’espressione e nella previsualizzazione di un ritratto spesso interviene l’ambiente o il paesaggio, ma ovviamente ciò non è una regola fissa.

Su queste premesse appare evidente che in fotografia naturalismo sembra che faccia il paio con l’attività documentaristica e la tendenza è chiaramente fissata dall’attività del fotoreporter che appunto, “documenta” situazioni, soggetti e avvenimenti storici tutti collocati entro precisi ordini cronologici (tempo) e spaziali (luogo); una collocazione in cui l’ambiente è e rimane la scena di fondo che definisce lo spazio entro cui viene collocato il soggetto della fotografia, ma in fotografia questa direzione, che sembra essere predominante e quasi strutturale dello scatto fotografico, è in realtà la conseguenza culturale imposta da un certo discorso dell’arte del Novecento. A meno che non si svolga il mestiere di reporter, dove l’interesse predominante è l’attualità, il lavoro preparatorio di uno scatto fotografico, o semplicemente la previsualizzazione dello scatto finale, rivela che l’interazione soggetto fotografato ed ambiente è meno ovvio di quel che si presume inizialmente. La presenza dell’ambiente non è realmente un’assenza, per quanto la si possa sfocare ed in alcuni casi, anzi in certi ambienti diventa condizionante nella formulazione e nella fattura del ritratto che si realizza.
 

Ai fini di ciò che si vuole realizzare mediante la fotografia la presenza dell’ambiente non è così neutra come si può assumere ed alcuni ambienti risultano più condizionanti di altri, anche se in definitiva si muovono secondo un registro ed un ordine di regole che è pressoché uniforme. In queste righe considero qualche esempio di fotografie tutte accomunate da un elemento ricorrente, vale a dire quello di trovarsi ambientate in spazi marini o acquatici. Sono fotografie che appartengono ad una specifica categoria, quella dei ritratti anfibi, caratterizzati da alcuni elementi identici tra loro, vale a dire una certa gestione della luce in quanto la superficie acquatica o semplicemente bagnata produce un incremento di luminosità che se non perfettamente gestita o calcolata nel progetto dello scatto può rappresentare il motivo di effetti indesiderati; a questo deve aggiungersi anche una certa standardizzazione della posa fotografica e ciò dipende esclusivamente dal fatto che l’acqua può alterare la resa della fotografia o addirittura danneggiare l’apparecchio fotografico (tanto per fare un esempio si pensi alle fotografie in immersione). Ecco allora, che l’interesse verso la fotografia in ambienti acquatici o con ambienti marini ha una doppia valenza, da un lato come la descrizione di un percorso tecnico-concettuale dello shoot fotografico, dall’altro lato l’ennesimo indugiare (questo ascrivibile alla mia forma mentis) su un elemento che ha profonde implicazioni filosofico-metaforiche, in quanto l’acqua diventa il luogo simbolico di una ritualità collegata ad una logica della nascita/rinascita, della purezza/impurezza, di un ritorno ancestrale ai miti fondativi del mondo, spesso espressi da diluvi e alluvioni e così via. Forse la verità di questo interesse è semplicemente quella di misurarsi con un elemento che più di altri appare, ma per antiche e consolidate suggestioni molto probabilmente, enigmatico ed imponderabile eppure così intensamente legato al senso stessa della realtà dell’esistenza, sia dal punto di vista materiale-biologico, sia dal punto di vista simbolico-religioso.

La presenza dell’ambiente marino in chiave veristica può ravvisarsi da alcuni ritratti del fotografo abruzzese Francesco Paolo Michetti (1851-1929), impostati secondo il registro realistico, già espresso dal fotografo nella sua attività di pittore, e che realizza mediante alcuni accorgimenti tecnici, quali stereoscopia e la scelta di alcune pose che danno il senso del realismo effettivo. Un esempio è la fotografia riportata in figura, che compone una serie di ritratti di nudo femminili, datata intorno al 1900 ca e senza titolo. Il soggetto sono due bagnanti colte in un gesto estremamente naturale, non riconducibile a precise esigenze di posa (lo scatto è poco prima o poco dopo la posa vera e propria), ma che risulta coerente con la situazione descritta dalla stessa fotografia. Qui, la presenza dell’ambiente marino non è solo scenografica, in quanto la fotografia è ambientata in uno dei litorali della regione Abruzzo (amore verso la propria terra d’origine che Michetti declinerà in varie forme), ma è anche uno dei fattori condizionanti del messaggio espresso dalla fotografia. Spontaneità ed immediatezza sono elementi che il fotografo cerca di immortalare nello scatto fotografico, in quanto forniscono alla stessa quel quid di realismo che cerca di assegnargli.
 

In questo caso, le figure delle due donne appaiono immerse da una luce soffusa, che ammorbidisce le forme ed i profili, anche se è evidente il forte contrasto delle ombre derivanti dal controluce e dal riflesso dell’acqua che investe le forme delle due donne; l’effetto è quello indicato, una certa luce soffusa che esalta appunto, in chiave erotica i corpi, avvolti e disegnati dai teli bagnati: il contrasto è dato dalla luce naturale diretta che anche tramite il riflesso dell’acqua non rende perfettamente leggibili i volti delle due donne, adombrati ed oscurati, ma in questo caso questo carattere po’ essere trascurato, in quanto questo contrasto, gestito tramite il chiaroscuro, produce un effetto ulteriore dato dall’increspatura della superficie dell’acqua che dà quel senso di realismo e di vividezza (movimento) con il quale Michetti assegna quel contenuto di veridicità e di naturalezza alla fotografia. I tempi di esposizione fanno il resto, infatti sono più che sufficienti per dare nitidezza ad alcuni dettagli che definiscono la fotografia, quali a.e., gli schizzi d’acqua che si intravedono dietro una delle due modelle (quella a sinistra) e le piccole bolle d’aria che affiorano sulla superficie dell’acqua (sempre modella a sinistra).

In questa fotografia la presenza dell’acqua è dominante in quanto agiscono nella stessa alcuni elementi che tendono a sottolinearne la presenza (i teli bagnati, il riflesso sulla superficie della luce) e seppure il fotografo si sia limitato a considerare l’ambiente come mero sfondo, ha avuto cura di gestirne alcuni effetti indesiderati quali una possibile sovraesposizione derivante dall’insolazione eccessiva: la fotografia è scattata molto da vicino, il che tradisce la sua effettiva spontaneità, ma soprattutto utilizza a proprio vantaggio ciò che può rivelarsi un esito inaccettabile. Per quanto fortemente contrastante, la luce si presenta diffusa in modo da avvolgere i soggetti in una sorta di spazio ovattato che ammorbidisce le asperità, certo ciò rende imprecisa la lettura dei volti, ma indica un certo utilizzo dell’azione dell’acqua che si rende funzionale ai fini dello scatto fotografico.

Un inconveniente tecnico quando si scatta in un ambiente acquatico è la sovraesposizione del soggetto, in quanto (come nel caso della fotografia di Michetti) può accadere che la luce naturale si muova in e con una direzione che produce gli stessi effetti della «luce dura», cioè con la produzione di forti contrasti e di una non chiara leggibilità delle forme illuminate. Un inconveniente ricorrente soprattutto in luoghi come spiagge, litorali o addirittura immersi in acqua: vale sempre l’accorgimento tecnico di scattare con il sole alle spalle, ma in molte situazioni ciò non è possibile ed allora, si ricorrono a vari espedienti come a.e., irraggiare per riflesso il soggetto con una lastra riflettente. Ma utilizzare queste accortezze vuol dire avere uno staff che operi con degli strumenti che aiutino ad aggiustare il valore dell’esposizione luminosa e non sempre buone fotografie possono aversi quando si è con un’equipe di collaboratori. Spesso, soggetti e situazioni interessanti accadono in solitaria, per cui in questi casi bisogna trovare altre soluzioni, spesso legate ad un uso sapiente della luce naturale.
 

Un esempio di questo tipo è un ritratto di Gian Paolo Barbieri (1938) tratto dalla raccolta fotografica del 1994 intitolata Madagascar. La fotografia in questione porta il titolo di Sailfish. L’immagine ha per soggetto la pesca di un giovane pescatore madagascareno ritratto avente sulle spalle un grande pesce spada. In questo caso, la iniziale limitazione indotta dall’ambiente acquatico è utilizzata al meglio dal fotografo che ricorre alla luce zenitale, cioè alla direzione perpendicolare della luce solare sul piano della superficie, in riferimento della quale trovare una posa ed un’inquadratura che possa attenuare le asperità prodotte dalla luce diretta, evidente nelle dense zone di contrasto rinvenibili sul corpo del pescatore e sugli anfratti dell’onda. L’effetto che si ottiene è quello di rendere le forme del soggetto più morbide – soluzione riscontrabile in molti ritratti realizzati in ateliers fotografici -, ma nel contempo conferisce anche una “leggibilità” migliore, meno disturbata dalla scansione dei contrasti e delle ombre: la massa muscolare del giovane pescatore è ben definita, ma lo sono anche alcuni dettagli come l’occhio del pesce e le striature della pinna dorsale.

La soluzione scelta dal fotografo è ovviamente quella del chiaroscuro, che agevola grandemente la gestione di tutti quegli elementi che risulterebbero altrimenti ingestibili: la collocazione della fotografia entro il registro dei grigi uniforma e livella la variabilità cromatica che una fotografia di questo tipo avrebbe esibito e ciò viene fatto intenzionalmente, poiché il governo del colore avrebbe richiesto l’utilizzo di altri accorgimenti. In ogni caso, la scelta chiaroscurale assegna al soggetto una maestosa virilità ed una tensione fisica, quest’ultima accentuata dai numerosi schizzi d’acqua prodotti dall’onda che si infrange sul corpo del giovane pescatore, esaltandone ad un tempo la stagliante fisicità: questo tema della virilità è ricorrente nelle fotografie di Barbieri. Inoltre, questi dati sono ulteriormente evidenziati dall’angolatura dell’inquadratura, realizzata in una posizione leggermente più bassa del soggetto che conferisce una proiezione ascensionale e un distacco verticistico tipico degli antichi eroi della statuaria greco-romana. 
 

Nei casi qui indicati la presenza dell’ambiente anfibio o dell’acqua rappresenta quell’elemento imponderabile che deve “addomesticarsi” e deve gestirsi all’interno di una composizione i cui effetti devono in qualche modo essere già previsualizzati, in questo modo l’imprevedibilità introdotto dall’ambiente naturale fornisce alla fotografia quell’indecifrabile senso di realismo che dà veridicità allo scatto fotografico. Diverso può essere il risultato in situazioni dove l’ambiente appare, diciamo così, “controllato” e meno imprevedibile di quello naturale. È il caso delle fotografie di Franco Fontana (1933) raccolte nella serie del 1984 dal titolo Swimming pool. In questa raccolta l’ambiente acquatico non è naturale, ma artificiale, in quanto costituito da una piscina. Il dato che affiora immediatamente è il colore – nel caso della fotografia dell’immagine un’intensa cromia azzurra – che riproduce la stessa sensazione di straniamento ritrovabile nei fondali monocromatici del pittore portoghese Joan Miró. Il soggetto della fotografia è una situazione apparentemente molto semplice, descrive un momento di relax di alcune bagnanti riprese da un’inquadratura dall’alto, che ha l’effetto di deformare il piano della prospettiva in un’immagine bidimensionale, che conferma alcune citazioni già indicate presenti nella scena. Ma in questo caso è il colore l’elemento dominante che sembra dare quel senso di fissità e di straniamento generale della fotografia: la ricerca incentrata sul dinamismo cromatico e sugli effetti cromatici è una cifra decisiva nell’attività fotografica di Fontana. In questo caso infatti, l’espressività del colore non è teso a mettere in evidenza la variabilità cromatica, i differenti livelli di sfumatura o di accento, ma a fissare un intenso tessuto monocromatico che, anche a causa dell’inquadratura, riconduce l’elemento dell’acqua a ruolo di sfondo e di spazio entro cui vengono a collocarsi gli altri elementi della fotografia. L’uniformità cromatica diventa la base di una regolare e geometrica composizione spaziale sullo stile di un quadro bidimensionale. La distribuzione degli elementi di scena ha una ritmicità blanda ed armonica, sottolineata dalla forma curvilinea del tubo in basso il cui procedere sembra (anzi, è) assimilarsi alle rotondità femminili (donna sul trampolino) dando quell’aura di erotismo e connotando chiaramente le donne ritratte come delle ninfe acquatiche: in questo tipo di geometria lo spazio lineare crea una tesione che si traduce in un’atmosfera erotica in quanto è a sua volta impostata sul rapporto retto-curvo, per cui da un lato la prospettiva tetragona dello spazio e dall’altro lato la sinuosità e la morbidezza delle linee curve descritte dai corpi delle bagnanti. Il colore in questo caso mira ad esaltare questa divisione spaziale assegnando alla scena una qualità di irrealtà (il bordo della vasca che delimita l’ambiente terrestre da quello acquatico; gli spigoli del piccolo trampolino).
 

L’ambiente acquatico in questo caso è la dimensione di una natura aliena, anche se chiaramente non profana, ma che rivela nel contempo un mondo erotico non necessariamente incentrato su una presunta memoria amiotica, su presunte nostalgie fetali. Tuttavia, è ricorrente questa trasposizione iconografica soprattutto se il ritratto è composto in ambienti acquatici: l’associazione metaforica e simbolica dell’acqua è concettualmente strutturale e spesso si connota di caratteri positivi e rinnovatrici. Un esempio è l’uso che ne fa Fabrizio Ferri (1952) negli shoots per il calendario Max del 1998 raccolti sotto il titolo Pantelleria e ambientati nell’omonima isoletta siciliana. In questa serie di scatti fotografici la ricerca è del tutto improntata sul tentativo di ristabilire una rinnovata simbiosi tra il corpo femminile e l’elemento acquatico, una realtà che recupera certo, e che codifica un’idea erotica non più fondata sull’immagine e sul sistema di pulsioni che agita, ma su una sensualità basata a sua volta sull’identità sensoriale, su quella matrice materica (o presunta tale) che è l’acqua. Parafrasando un noto titolo di un romanzo e dell’omonima serie televisiva a cui si ispira, è una ricerca che si basa sulla forma che può assumere l’acqua e con essa la nuova dimensione del desiderio erotico: è il tentativo non femminista di dare all’erotismo femminile una differente codificazione erotica e forse anche una diversa consapevolezza della propria intimità erotica. Basti osservare le pose immerse di dell’attrice-modella italiana Monica Bellucci (1964) (mese di agosto) che ripropone lo stesso concetto già formulato dal fotografo nel libro Acqua, anch’esso ambientato a Pantelleria, ma del 1992, dove compaiono l’attrice venezuelana Patricia Velasquez (1971) e l’attore-modello beninese Djimon Hounsou (1964) immersi in un basso strato d’acqua a disegnare forme sulla superficie. Un bagno nell’elemento acquatico che non ha dunque, solo la funzione di rinnovare il sentimento erotico o lo spazio di un rinnovato desiderio, ma quello di ristabilire un contatto con la propria intimità e consapevolezza, che si realizza a sua volta mediante il rapporto con gli elementi naturali, in questo caso con l’elemento più iconico e carico di associazioni come è appunto l’acqua. Un rapporto che Ferri fissa nell’immagine qui riproposta in chiaroscuro, molto scura, realizzata ottenendo lo shoot da una posizione ravvicinata e focalizzando la messa a fuoco sul rivolo d’acqua che scivola dalla bocca della modella: l’effetto è quello di sfocare o mettere fuori inquadratura il paesaggio intorno, tramite un’ampia apertura diaframmatica ed una focalizzazione che oscura il viso della modella, ma che esalta proprio il rivolo d’acqua che scorre dalle sue labbra: in questo caso la scarsa leggibilità e le asperità indotte dal forte contrasto permettono di concentrare l’attenzione proprio sull’elemento liquido e sulle gocce che bagnano il volto dell’attrice venezuelana; inoltre, la scelta chiaroscurale, che permette in questi casi di gestire al meglio i contrasti e le zone d’ombra, risulta più adeguata e più funzionale alla descrizione del messaggio della fotografia, in quanto lascia risaltare la superficie increspata dell’acqua ed il legame di continuità e di dipendenza esistenziale che intercorre tra la vita e questo elemento naturale. 

Stesso tipo di rapporto intercorre in altre fotografie di Ferri, anch’esse di ambiente anfibio come quelle realizzate per GQ Italia nel 1999 in occasione del calendario di cui è protagonista la conduttrice televisiva italiana Paola Barale (1967). In questo caso il rapporto è sviluppato non nei termini di un rinnovato sistema iconografico, spesso richiamante significati simbolici e consolidate associazioni metaforiche, ma appare spoglio e tumultuoso ad un tempo, quasi conflittuale come se si cercasse di ricavare dall’elemento naturale quella forza e quello spirito che aveva incantato alcuni artisti del Romanticismo tedesco.


Ora, se in queste fotografie (Fontana e Ferri) l’acqua è per lo più simbolicamente lo spazio in cui agiscono le creature dell’acqua, rappresentando in questo modo la componente femminile (yin) dell’universo, l’intervento dell’ambiente anfibio rivela una funzione esclusivamente scenografica, vale a dire, a parte il caso della fotografia appena cita di Ferri, l’acqua non è elemento di nutrimento, ma solo la forma con la quale e attraverso la quale si compie una rigenerazione intima e spirituale di se stessi, di una nuova consapevolezza desiderante. Insomma una rivisitazione del consueto sistema iconografico collegato all’elemento dell’acqua, tuttavia l’acqua cessa di essere lo spazio della vita o da cui deriva la vita per diventare la realtà contro la quale l’esistenza umana rimane incastrata e condannata; anziché essere quella forza mitologica rinnovatrice indicata dagli studi di antropologia religiosa (cfr. Mircea Eliade), è quel nulla profondo verso il quale si è ineluttabilmente destinati. In tal senso, si è mossa la fotografa americana Francesca Woodman (1958-1981), attratta – forse sarebbe meglio utilizzare una sua espressione “eccitata” – da quell’imponderabile che può cogliersi in ciò che si stà osservando, «non saprai mai che cosa vi è dentro». A tal riguardo, in una sua fotografia senza titolo del 1972, contenuta nel suo primo libro del 1981, Some disordered interior geometries, ritrae una modella semi immersa nell’acqua sotto le radici di una grande quercia. Il codice iconografico viene trasgredito proprio in quello a cui la consuetudine e la tradizione culturale ha definito, vale a dire l’idea simbolicamente accettabile, forse legata ad una memoria ancestrale depositata dai miti e dalle leggende, per la quale l’acqua è alla base della vita umana. La donna ritratta in questa fotografia non è alcuna creatura acquatica, ma è una disperata che cerca di divincolarsi dalla stretta della radice che la imprigiona. La situazione è emblematica, la Woodman effettua lo scatto fotografico dilatando i tempi di esposizione della posa, avvertibili dal luce diffusa che sembra quasi un alone evanescente che circonda l’intera scena: la luce non è naturale, ma deriva da un faretto posto dietro il fusto dell’albero, la cui direzionalità è di per sé limitata ed ostacolata dalla pianta, ma ulteriormente amplificato dalla fotografa che conferisce alla situazione un percepibile ed inspiegabile senso angosciante di morte.

La dilatazione del tempo di posa diventa l’accorgimento tecnico con il quale dare descrizione della fugacità del tempo umano, incastrato da una perennità assoluta che lo sovrasta e lo condanna con una spazialità temporale che non gli appartiene, qui chiaramente assimilata ad una pianta: è una metafora terribile ed angosciante della vanità umana incentrata non tanto sulla fugacità delle cose, quanto dall’aver misurato e commisurato l’intera stessa realtà con il metro umano, a sua volta calibrato su una misura del tempo strutturalmente inteso come principio del divenire, come movimento, come attività. Il ritmo lento e regolare delle acque conferma questa visione angosciante, tra l’altro funestata dall’ombra minacciosa dell’albero sulla superficie dell’acqua, che sembra disorientare e soffocare senza appello la speranza indotta dagli sforzi della donna di liberarsi dalla restrizione fisica in cui si trova. Non siamo di fronte ad una natura benevola, né matrigna, né indifferente, ma ad un totem silenzioso al quale l’uomo cerca di trovarvi una memoria ancestrale che non esiste o una forza rigeneratrice che non riesce ad avvertire; trova solo un’agonia, inutile e drammaticamente frustrante. 

 
L’idea di fondo che l’acqua descriva un elemento capace di incubare in sé significati edificanti e positivi per l’esistenza umana si scontra con la prospettiva angosciante di una natura perenne, dai ritmi lenti e regolari che non hanno nulla della vitalità attiva dell’essere umano e degli animali. L’acqua come memoria amiotica, come piano fetale da cui far iniziare, o nel caso far re-iniziare la vita stessa, come una rinascita ritualmente indotta e l’acquisto di una nuova purezza non profana. Un’idea che la fotografia della Woodman ha distrutto, rivelando nel contempo anche l’illusorietà di certi sistemi iconografici tradizionali e i rispettivi significati ad essi correlati. Ciò significa che l’ambiente anfibio cessa di essere uno scenario naturalistico entro il quale ambientare scene e situazioni, ma diventa l’ambiente trasfigurato attraverso il quale dare espressione ad una realtà intima, ad alcuni connotati strettamente psicologici che appartengono a colui che realizza lo scatto fotografico, ma anche a colui che osserva la fotografia. In tal senso, la trasformazione da elemento naturale a piano dell’irrealtà e del non naturale non solo è resa possibile dall’attività fotografica, ma diventa la ragione per cui è ancora possibile fare fotografia naturalistica.

 
A questo punto c’è da chiedersi se decade la polarità posta all’inizio, cioè tra protagonismo e co-protagonismo dell’ambiente naturale in un ritratto fotografico, qui declinato nel segmento dei ritratti anfibi? In una certa misura, oggi non ha più senso chiederselo, poiché in molti progetti prevale la cifra compositiva ed ogni elemento della fotografia viene a collocarsi in una struttura che codifica messaggi e valori estetici.
 

Il rapporto con l’ambiente anfibio come può evincersi da quanto detto in precedenza è condizionato da un sistema di riferimento iconografico e da codici semantici che mettono in evidenza le implicazioni associative che nel corso della storia umana e nella definizione dei vari sistemi culturali che si sono avvicendati in questa storia sono state assegnate, identificate e riconosciute; su tutte, quest’idea di una correlazione fetale con l’acqua trae spunto dalla convinzione religioso-antropologica che l’acqua sia lo spazio da cui l’uomo deriva il proprio nutrimento (cfr. i molti miti legati alle innondazioni), ma anche lo spazio di una memoria ancestrale dello intera realtà cosmica che sembrerebbe riecheggiare attraverso le increspature della superficie; un’idealizzazione collegata ad una certa concezione dell’infinito e della realtà assoluta contestata, come si è visto, con l’opera fotografica della Woodman. Ma il materialismo disincantata della Woodman è un caso, enigmatico certo e drammatico, che non interrompe comunque quel fascino fantastico e quelle antiche suggestioni che ricorrono sovente anche nella rappresentazione fotografica di questo elemento e dell’uso espressivo che la fotografia ne fa. Ci si muove in un sistema iconografico consueto, seppur ammantato di seduzioni magiche, di simbolismi sciamanici e di un’imponderabile forza immanente della natura in genere, ed in particolare dell’ambiente anfibio, come nel caso di molte fotografie dell’austriaco Ingo Michael Kremmel (IG: shamanphotodesign), ma anche in un sistema in cui l’immagine acquatica assolve la sua anonima funzione di sfondo, di mero elemento decorativo, soprattutto se la mission della fotografia è produrre un’immagine da consumare durante il caldo estivo: una bella fotografia acquatica rallegra.




Post Scriptum. Come è noto il tema della guerra è uno dei motivi principali della poesia ermetica di Giuseppe Ungaretti, il motivo in base al quale una certa esegesi della poetica ungarettiana assegna la responsabilità della concezione dell’uomo nel grande poeta lucchese (in realtà nasce ad Alessandria d’Egitto). Ciò è vero solo nelle sue forme esteriori, in quanto il senso profondo di estraniamento che l’uomo della società moderna prova dinanzi agli eventi è sì prodotto da un trauma profondo della sua coscienza, ma è un fatto più strutturale, che appartiene ad una cifra del sistema e della fase di civiltà che vive quest’uomo moderno. L’orrore della guerra non è la causa, ma chiaramente il sintomo più evidente di una natura, quella umana, incapace di governare e gestire alcuni istinti mai sopiti e che trovano nella tecnologia dell’era industriale lo strumento con il quale darvi ampia espressione. Infatti, il dramma dello sgretolamento degli antichi sistemi di valore e delle passate convinzioni svuota lo spirito dello uomo, tanto che può solo dare a questo disagio una descrizione empirica basata su associazioni umorali e su immagini devastanti e dense di dolore e morte: è la poesia ermetica che per questa ragione contrae il suo verso fino ad apparire un unico lungo frammento (di sensazioni) di pezzi mal giustapposti gli uni con gli altri. Segno non tanto della tragedia della guerra, quanto dell’insufficienza di proseguire secondo la direzione della passata retorica e comunicazione, quella dove tutti gli elementi della comunicazione si trovano composti in modo organico ed unitario in un’articolata consequenzialità e in un’ordinata consecutio temporum: luoghi e tempo si confondono in un sistema dislocato e dislocabile, pur conservando quella sorta di unitarietà narrativa (potere delle strutture narrative!) che deriva dalla prospettiva antropocentrica del canto. La poesia ungarettiana non ha molto della grande poesia letteraria, sia nei temi sia nelle forme, ma è un’«infinita stanchezza» (Si porta, 1918) collegata al tema dell’esistenza ed alla sua ciclicità stagionale (principio occulto), una fatica che si rinnova sì, ogni anno, ma che lo sviluppo tecnicologico e del sistema capitalistico ha reso meno duro, meno incerto, meno precario. Il capitalismo industriale e la Prima Rivoluzione Industriale sono fattori di cambiamento ed introduce l’uomo in una nuova fase di civiltà, dove le antiche massime tradizionali, valide nella fase precedente, risultano absolete e inadeguate a dirigere lo sguardo dell’uomo, che ovviamente finisce per posarsi su orrore, paura, dolore e devastazioni. L’uomo ungarettiano è un uomo senza capo e forse senza coda e lo è in quanto prende atto di vivere una nuova fase della propria esistenza senza potersi appoggiare ai valori tradizionali, spazzati via d’un tratto, brutalmente a colpi di baionetta e nel fango delle trincee di posizione. Detto questo, in realtà volevo annotare tutt’altro; stamattina non so per quale ragione ho avuto voglia di riascoltare alcune canzoni che compongono il soundtrack del quarto capitolo della saga di Rocky – uno dei personaggi di maggiore successo di Sylverster Stallone – e riascoltando quelle canzoni pensavo come a volte si combattono certe battaglie senza un effettivo motivo, né per combatterle in fondo c’è necessariamente bisogno di avere un motivo, le si combatte e basta. Tuttavia, si sottostima il fatto che c’è in noi uomini un istinto quasi occulto che “desidera” e “si eccita” in quei casi in cui si palesa uno scontro; un istinto che non deve confondersi con l’istinto omicida, spesso tirato in ballo nelle condanne pubbliche della violenza e dei crimini perpetuati in tempo di guerra (ma anche in tempo di pace), ma è qualcosa che scatta in situazione e che trova la sua stessa ragionevolezza nell’attimo stesso in cui si esprime (furia, terrore, eccitazione, …), come succede appunto al personaggio di Stallone (beninteso, quel che sto dicendo è al limite dell’apologia, previsto come reato dal nostro ordinamento). Ammettendo questo discorso ed ammettendo valido il principio del nostro ordinamento che sanziona un siffatto pensiero, assunto per lo più come preterintenzionale, non è escluso che agisca sovente questo tipo di meccanismo anche tra i rapporti interumani: meccanismo tollerato ed accettato solo in tempo di guerra ovviamente, perché la guerra per definizione è un fatto collettivo e coinvolge l’intero gruppo sociale ad ogni livello, l’intera nazione in quanto è lotta tra le nazioni, mentre non vi è la stessa tolleranza al di fuori di questo campo, quindi risulta inaccettabile sul piano della condotta individuale in una società civile, teoricamente non attraversata da tensioni che ledono la convivenza tra cittadini, istituzioni e attori sociali ed economici. Eppure, la comunicazione odierna insiste su concetti come «guerra» e anni fa il papa cattolico Francesco I aveva esordito pubblicamente ammonendo sui rischi di una nuova guerra totale; ecco, non vorrei che a forza di parlarne alla fine ci si ritrovasse a combatterla realmente questa Terza Guerra Mondiale, a meno che la lotta contro l’attuale pandemia è questa guerra di cui parlava il papa cattolico, o una fase di essa, magari già iniziata con la crisi commerciale USA-Cina di qualche mese fa.

mercoledì 6 maggio 2020

Arresto o svolta? Considerazioni sparse sul sistema economico e sul suo futuro

#Economia, #Lockdown, #Fabio Tamburini, #Sole24Ore, #Pandemia, #Globalizzazione

 

 

La storia dell’economia è costellata di crisi finanziarie e da modificazioni dei sistemi economici, indotte come conseguenza di crolli monetari o finanziari, in ogni caso come effetti di inattese o spregiudicate azioni in sede esclusivamente economica. La vicenda attuale di un Lockdown ad estensione globale è apparentemente una anomalia rispetto a questa storia, non solo perché è un provvedimento squisitamente anti-economico che scaturisce come effetto di una pandemia virale, ma anche perché innesca delle trasformazioni economiche del tutto inattese – in questo caso fallimenti o ristrutturazioni aziendali devono intendersi appunto come momenti di questa generalizzata modificazione ed alterazione della situazione economica. Il Lockdown mondiale dunque, appare sempre più sia nel sistema della comunicazione sia nelle scelte dei governi nazionali un fatto inoppugnabile che rovescia l’«ordine mondiale» fino adesso conosciuto e scardinato a sua volta da molte e variegate spinte deglobalizzanti. Spinte beninteso, che non si originano come esiti esclusivi della pandemia, ma che agiscono in concomitanza con l’evento virale, rinforzando quella tendenza già in atto da alcuni anni che appare ineludibilmente «la fine di un mondo».


In tal senso, l’iniziativa editoriale del quotidiano finanziario milanese Il Sole 24 Ore appare più che la cronaca o il resoconto degli effetti economici della pandemia, il tentativo di fornire il quadro tematico di una serie di questioni che l’emergenza sanitaria rivela con drammaticità (es. le ripercussioni occupazionali di una quasi del tutto annunciata recessione mondiale) o che presenta ineditamente nel panorama intellettuale e nelle scelte che i governi nazionali devono realizzare nei prossimi mesi, indipendentemente dal modo e quando finirà detta emergenza. Il libro del quotidiano milanese dal titolo #Lockdown. Il giorno dopo[i] fa parte di una collana di libri prodotti dal medesimo quotidiano ed incentrata sul fornire spunti e strumenti di riflessione, ovviamente sul piano economico, di una serie di temi che si sono affacciati nel corso di questi anni e la vicenda relativa al Covid-19 non poteva sfuggire ad un eventuale interessamento da parte della redazione de Il Sole 24 Ore. Il libro raccoglie una serie di interventi apparsi tra le pagine del quotidiano, divenendo in tal senso la piattaforma di un dialogo tra diverse personalità della cultura economica e protagonisti del sistema economico nazionale tutti più o meno coinvolti dal tema. I contributi sono diversi e tutti mettono in evidenza singoli aspetti collegati alla pandemia ed ad un tempo cercano di essere un contributo orientato a fornire una soluzione al tema stesso o che è emerso più o meno in modo evidente nel dibattito nazionale.


L’esposizione si articola lungo tre sezioni, a loro volta indicate dalla prefazione di Fabio Tamburini, che compongono tre generiche aree tematiche:

  • lo scenario internazionale entro cui si colloca il lockdown;
  • le conseguenze interne nelle scelte di programmazione nazionale del governo;
  • infine, gli esiti tecnologici che derivano dalla stessa emergenza sanitaria.

Come si evince, l’interesse della pubblicazione de Il Sole 24 Ore non è l’emergenza sanitaria in sé, né gli effetti disastrosi che questa ha prodotto nel sistema economico e nell’ordine commerciale mondiale, quanto invece il nuovo scenario che a causa della pandemia viene via via configurandosi, scenario che non è necessariamente il paesaggio del futuro, ma che risulta essere una possibilità non evitabile possibile, in quanto già preconizzato in molte strutture del presente, in atteggiamenti e scelte che caratterizzano la società attuale, nella vita pubblica odierna.


Ciò detto, questo intervento non è un commento o un’analisi della pubblicazione, che al momento sto ancora leggendo, ma è essenzialmente un fare il punto o semplicemente un voler trarre qualche considerazione anche se collocate trasversalmente entro uno scenario comune a molti temi e a molte questioni.


Tenendo come riferimento o traccia tematica la stessa prefazione di Tamburini, ravviso i seguenti punti:

  • Di crisi economiche globali ne abbiamo viste alcune, la più recente è quella nota del 2008 causata dal fallimento di un istituto bancario statunitense (Leehman Brothers Co.), che ha fatto scoppiare il caso delle contrattualità subprime, che agli inizi degli anni 2000 erano divenuti vantaggiosissimi strumenti finanziari in quanto permettevano di speculare sul mercato sgravando gli agenti dai rischi finanziari che venivano in capo ai vari debiti nazionali: il fallimento della banca statunitense inceppa il meccanismo e da questo deriva quella gigantesca bolla finanziaria da cui deriva una recessione globale che durerà fino al 2012-2015, regolata dall’intervento dei governi nazionali e dalle banche centrali che impongono alcuni strumenti di capitalizzazione che assicurassero stabilità. Lo scenario insomma, è quello di un sistema economico sempre più avvinghiato dalle restrizioni legislative che rappresenta un cambio di rotta rispetto alle politiche degli anni Ottanta del secolo scorso incentrate sulla deregolamentazione o liberalizzazione (come impropriamente vennero indicate in Italia, ma in questo caso siamo verso la fine degli anni Novanta). Ciò detto, quando gli autori della pubblicazione de Il Sole 24 Ore dicono concordemente che una delle conseguenze più evidenti dell’emergenza sanitaria è la messa in crisi del sistema del mondo globale affermano una situazione che è già un dato di fatto indipendentemente dall’emergenza sanitaria. Che il modello della Globalizzazione sia entrato crisi ciò è certamente vero e evidente adesso, ma sono da alcuni anni che esistono nel panorama internazionale situazioni e spinte deglobalizzanti, le quali traggono dall’emergenza sanitaria la loro fondamentale occasione per dare se non una spallata definitiva al “vecchio ordine mondiale”, almeno assestare un grave colpo da loro ritenuto irreversibile. I vari sovranismi che hanno tenuto banco nel dibattito politico internazionale e che ha condizionato anche le scelte elettorali nazionali ed internazionali si muovono in uno scenario caotico, anche da loro stessi rimestato, che però si limita a creare incertezza, poiché da questa caoticità non è ancora chiaro che tipo di sovranità dovrebbe scaturire, soprattutto se questa riconquista sovrana passa attraverso una richiesta di maggiore autonomia ed emancipazione dalle istituzioni centrali. Lo stato emergenziale indotto dalla pandemia introduce un fatto politico ed economico non del tutto irrilevante, almeno per chi imposta i propri slogan politici su temi come deburocratizzazione o come un tempo si diceva “federalismo” o “autonomia”, e cioè il rafforzamento proprio del potere centrale e di alcuni istituti nazionali e sovranazionali che in questi anni sono stati oggetto di una campagna denigratoria diffusa nei confronti politici nazionali ed europei. Non siamo alla fine dell’ordine della Globalizzazione (vecchio mondo), di certo ci si è da tempo incamminati verso questo direzione, anche perché a cedere le armi non è tanto e solo il modello globalistico, quanto una certa narrazione della stessa Globalizzazione, sicuramente quella definita proprio negli anni Novanta del secolo scorso: ci si dimentica che la Globalizzazione nasce per tentare di diversificare l’intero ordine economico mondiale incentrato su un modello economico-finanziario ancora restìo ad integrare entro le proprie strutture alcune pezzi di produzione e di sviluppo che erano rimasti ai margini dopo la svolta dell’economia mista, svolta che ne aveva dovuto garantire spazio ed una maggiore rilevanza. In realtà, tutto il sistema economico mondiale rimane legato ai convenzionali asset economici (petrolio, oro, diamanti, …) ed il sistema stesso del commercio mondiale ha ancora una struttura troppo affine a formule come il Commonwealth britannico o comunque, all’egemonie finanziarie delle grandi compagnie: la fine del regime del tasso fisso, scelta operata arbitrariamente dall’amministrazione Nixon, ha rimescolato una situazione che in ogni caso, seppur con difficoltà, ha tratto giovamento in alcuni settori dalla libertà dal dollaro – senza questo tipo di autonomia monetaria non è minimamente pensabile, né realizzabile un progetto come l’unificazione monetaria europea nella Zona Euro. In ogni caso, comunque la si pensi la fluttuazione dei mercati, quella stessa che ha permesso la definizione dell’economia cartolarizzata, ha costretto un’evoluzione del sistema economico in direzione di una maggiore libertà economica, ma anche una minore tutela da parte degli istituti nazionali, ai quali si avanzavano ben altre richieste che non quelle di occupare lo spazio economico di competenza del capitale privato. La Globalizzazione, ad un certo punto, si aggancia a questo spazio avuto tramite la deregolamentazione e sfruttando le potenzialità di alcuni settori economici (es. i trasporti, il turismo, l’import e l’export di beni che non fossero solo gli asset economici, …), ma assumendo al contempo un profilo non facilmente statuito, cioè la Globalizzazione incarna alla fine il vecchio ideale liberale di un’economia capitalistica di tipo liberista ed a tratti ottocentesca, ma entro un regime economico che è quello di un’economia dello welfare state. Gli sforzi di molti governi nazionali, anche di quelli non sospetti di tentazioni statalistiche e burocratizzanti, sono costretti a rivedere il sistema delle tutele economiche in un’ottica centralista, in quanto alcuni settori della vita sociale non possono essere più lasciati al loro destino (es. la previdenza sanitaria). Non deve pertanto, sorprendere che la crisi del modello globalista passi attraverso e con l’emergenza sanitaria, perché la salute pubblica così come la percezione di un reddito individuale (soprattutto in certi contesti economici) diventano temi sensibili, in quanto sotto attacco proprio dalla stessa emergenza sanitaria: la Globalizzazione ha operato e si è imposta non solo perché attraverso di essa viaggiava il grande capitale finanziario, ma perché ha lasciato sguarnita una qualsivoglia difesa di questi due aspetti della vita materiale delle persone, non prevedendo alcun sistema di tutele che per definizione sono in capo ai poteri centrali.
  • La realizzazione dell’ideale di una collaborazione internazionale (cooperazione) affermatosi come valore civile e come criterio politico-diplomatico dopo la Seconda Guerra Mondiale ha configurato una piattaforma ideale ed un sistema politico vero e proprio tramite lo strumento delle organizzazioni internazionali su cui a lungo andare è venuta ad appoggiarsi la stessa Globalizzazione. Ridurre le distanze che esistevano con le varie regioni periferiche del mondo era una mission politica, ma anche una stretta necessità economica, espressa da problematiche complesse e strutturali quali la fame nel mondo, le emergenze sanitarie e le migrazioni forzate. Problematiche che producevano alcuni chiari riflessi nella vita politica e sociale dei paesi più ricchi e progrediti socio-politicamente, per cui la via di un mondo sempre più in relazione con le sue parti, con quelle regioni lontane sembrava la soluzione a molti di questi problemi. Assunzione parzialmente vera, ma che si scontra in modo deludente con una serie di limiti strutturali nei vari programmi internazionali e nella stessa logica economica alla base di questa stessa attività internazionale: il sistema economico che utilizzano non è un sistema globale, ma è un sistema che ha differenziato le regioni del mondo in regioni produttori, in regioni trasformatrici e in regioni accumulatrici. Questa differenziazioni fittizia o effettiva che sia permette la produzione di un reddito mondiale che viene distribuito secondo quote fissate dal potere delle nazioni più forti o verso le quali c’è una decisa attrazione di ricchezza: lo svuotamento di molte aree del pianeta è anche effetto di questa direzionalità della ricchezza. L’idea ammessa a livello internazionale negli anni Settanta è quella di risarcire in qualche modo queste regione depauperate e ricompensarle tramite una limitata ridistribuzione di piccole quote di questo reddito mondiale sotto forma di aiuto umanitario, ma la via intrapresa non ha risolto i problemi cronici delle aree depresse del pianeta e sotto vari aggiustamenti si è tentato di creare poli economici in quelle aree in modo da creare un circuito economico che potesse interagire con il sistema del libero mercato. In tal senso, entra in gioco il bistrattato modello della Globalizzazione che permette a queste aree di collocare se stesse e la propria attività produttiva entro un sistema sovranazionale regolato dal sistema del diritto internazionale e dalle regole di commercio tra le nazioni. Uno scenario che definisce l’idea stessa di sovranità ad un livello differente da quello della tradizionale narrazione ideologica e che si fonda su un sistema di valori immateriali e culturali che non è quello convenzionale e che non è quello su cui si appoggia l’ordine economico tradizionale, la stessa legislazione del lavoro e il sistema ideologico della politica attuale. Pertanto, in questo scenario fatto di un mondo che piaccia o che non piaccia è (ed è rimasto) globale l’emergenza sanitaria rivela alcune evidenti ipocrisie concettuali soprattutto in soggetti che per varie ragioni (storiche, politiche, economiche, …) non hanno definito una struttura che sciogliesse il dilemma alla base tra il vecchio sistema della sovranità liberale ottocentesco e la nuova dimensione internazionale di una sovranità che non ha più basi territoriali o identità etnico-popolari, ma ha una base immateriale determinata dalla sua inscrizione ad una storia di civiltà a cui non appartiene necessariamente (cfr. popoli del deserto o gli esquimesi), ma di cui è costretta a farne parte per ragioni contingenti e non storici. A tal riguardo, un aspetto evidenziato da Tamburini, ma dagli altri autori del libro, è l’interrogativo relativo allo ideale dei Padri fondatori della Comunità Europea; interrogativo legittimo, a mio avviso, ma fino ad un certo punto. Ammesso e non concesso che l’ideale di cui si sta dicendo sia rappresentato dall’Europa di oggi al netto di tutte le distinzioni che si possono fare in un dibattito a tema, è pur vero che nella sua fase di costruzione che parte proprio da quell’ideale fino alla coniazione della moneta unica è venuta a mancare quello sforzo decisivo che trasformasse ciò che era un ideale in un soggetto politico vero e proprio, voglio dire un soggetto che avesse ben chiaro cosa fosse la propria sovranità e come poterla esprimere ed affermare in ogni momento della propria vita politica e sociale, oltre che economica. La verità inoppugnabile è che il soggetto di oggi, quello che chiamiamo Europa o alternativamente Zona Euro, è un soggetto che ha tentato di definire strutture che a conti fatti risultano manchevoli non solo e non tanto perché non esistono (vedasi una vera unitarietà bancaria raggiunta solo da qualche anno), ma perché rispondenti ad un modello di riferimento che andava bene fino a qualche anno fa; adesso la via indicata dalle stesse spinte deglobalizzanti e sovraniste, paradossalmente, esprimono una richiesta più attuale delle soluzioni che le istituzioni europee e qualche governo nazionale vuole proporre, anche se beninteso, non sono poi così convinto che le direzioni indicate da queste forze siano giuste o adeguate alle sfide degli anni futuri. In ogni caso, interrogarsi sulla validità di un’ideale come è la Europa unita (politicamente ed economicamente, oltre che culturalmente) è solo rimuginare su un tema che non esiste o che è meno rilevante di quel che si creda, soprattutto se la lezione che si ha di fronte è quella di alcune sovranità che operano e che esercitano (e fanno sentire) il loro peso politico esclusivamente sul piano internazionale, perché i propri sistemi economici sono già collocati sul piano internazionale (es. il programma cinese de “la via della seta”). In questo scenario non credo che abbia tanto senso un dibattito sulla sovranità europea, sul fatto se sia messo in crisi il suo ideale e via dicendo quando la fase attuale dimostra come il destino dell’Europa è quello di soccombere alle trasformazioni politiche e sociali in atto nelle aree limitrofe, trasformazioni funzionali alle modificazioni economiche.
  • La fine della Globalizzazione auspicata, elaborata e realizzata da molti fronti ideologici, politici e sociali và di pari passo, come detto, con la fine del vecchio ordine economico, quello stesso ordine che i suoi detrattori accusavano di aver concentrato la ricchezza mondiale «in poche mani» o di aver incancrenito come fenomeni strutturali alcune situazioni che un tempo si ritenevano transitorie (es. povertà assoluta), o di aver precarizzato i rapporti di lavoro e con essi di aver abbassato i redditi da lavoro, per non dimenticare il tema della dislocazione produttiva e via dicendo: poco importa se ciò è stato effetto più del “turbocapitalismo” che non della Globalizzazione in senso lato e poco importa (e invece dovrebbe) se la messa in crisi della stessa Globalizzazione non apre (e non li aprirà) scenari di giustizia sociale e di benessere economico senza un dichiarato ed esplicito intervento legislativo che attenui le stesse contraddizioni del sistema economico. Certo, alcuni temi sono diventati (ahinoi) strutturali (cfr. inquinamento e cambiamenti climatici), tanto da guardare con inquietudine il futuro, non solo per una serie di croniche incertezze date dall’instabilità stessa della situazione economica, ma anche perché la integrazione sempre più sistemica tra economia e politica non è un fattore rasserenante. L’esito più inquietante prodotto dall’emergenza sanitaria è appunto, con buona pace dei vari critici degli apparati burocratici, proprio una richiesta (spesso isterica) di intervento dello stato da parte della comunità con la finalità di rimediare laddove gli automatismi (semmai fossero realmente esistiti) dell’economia non riescono a dare risultati soddisfacenti. Il baratto, ormai esplicitato ed umoralmente accettato, che si sta compiendo (e si è già compiuto) per avere uno straccio di sicurezza economica e sociale (anche fittizia) a danno del sistema dei diritti, trova conferma certamente a partire dal tema della sovranità, ma trova effettiva realizzazione non tanto a questo livello di collettività, quanto su quello delle stesse relazioni interpersonali. Nel suo intervento su Il Sole 24 Ore del 15 febbraio, Donato Masciandaro indica che la stessa emergenza sanitaria ha costretto le banche centrali a tenere un differente atteggiamento verso la eventuale formulazione di una politica monetaria, in quanto i governatori ravvisano come questa stessa non possa rappresentare la sola soluzione alle richieste attivate dall’epidemia. Questo perché l’epidemia agisce sugli stessi fattori moltiplicatori su cui la politica monetaria di questi anni ha agito ed utilizzato, cioè quei moltiplicatori derivanti dalle reti interpersonali di clienti e soci: l’epidemia colpisce questo tipo di strutture che non hanno nulla a che vedere con la “sovranità nazionale”, ma possono condizionarne altresì la stessa natura. La confusione del dibattito in questi giorni rivela su questi temi in buona sostanza un certo condizionamento ideologico e una certa pregiudizialità culturale e forse anche politica, in ogni caso la tendenza di questo dibattito rivela da un lato la conferma di una sempre più esplicita richiesta proveniente dalle stesse opinioni pubbliche di una maggiore concentrazione del potere, magari barattando la configurazione di un potere centrale con il sistema di diritti acquisiti, già ampiamente compromesso dall’urgenza sanitaria, dall’altro lato queste politiche di emergenza, per quanto giustificate all’apparenza, sviliscono e depotenziano quegli strumenti che a fatica il sistema sociale si è dotato per contrastare efficacemente proprio questa deriva centralistica e monopolistica tipica dei poteri istituzionali (soprattutto in certi settori ritenuti particolarmente sensibili, es. l’ordine pubblico), dove l’equilibrio tra la libertà individuale e quella collettiva è sempre una distanza che deve determinarsi all’uopo, di volta in volta, contingentemente: l’emergenza sanitaria non permette alcuna forma di contrattazione sugli spazi di libertà veri o presunti su cui è possibile agire individualmente o collettivamente; a tal riguardo, la paura è un motivo di allarme giustificabile, l’ipocondria certamente no.

Per concludere, la tesi di fondo della pubblicazione de Il Sole 24 Ore e che la prefazione di Tamburini dà evidenza è che per quante varie possano essere le conseguenze innescate dall’emergenza sanitaria e soprattutto dal lockdown imposto dal decreto governativo è altrettanto evidente che non ci si può più rivolgere alle varie politiche monetarie e alle altrettante soluzioni di capitalizzazione finanziaria viste in questi anni (basti pensare al “bazooka” formulato da Mario Draghi durante la sua presidenza) e che forse sia arrivato il momento (chissà quante volte lo abbiamo sentito dire) di formulare e di iniziare ad applicare «un nuovo modello di economia e società, nuove strategie industriali, nuove visioni del mondo».

 

 

 

Post Scriptum. Ammetto che ho cominciato a selezionare parole, concetti e financo idee non tanto per comporre un lessico con cui esibire la mia raffinata (o dozzinale) proprietà di linguaggio, ma un lessico di ciò che trovo insopportabile, vuoi perché intellettualmente obsoleto, vuoi perché semplicemente insopportabile. In questo nuovo lessico inserisco con grande piacere la parola “responsabile” con il suo plurale, cioè “responsabili”, che nella comunicazione ordinaria, soprattutto in quella politica, è diventato un concetto a sé di cui fregiarsi e che esercita grande fascino (forse in chi lo enuncia!). In questi giorni di restrizioni il richiamo alla responsabilità personale, di gruppo, di partito, di collettività, di società, di patria e via dicendo si è sprecato e se fosse una salsa credo pure che l’avremmo visto utilizzato come condimento in qualche primo piatto a pranzo. Ecco, a furia di sentirlo dire a questo e a quello, in bocca di quel capo politco o in bocca di quel simpatizzante o critico che mi è venuta una reazione allergica. Vorrei tanto che qualcuno di costoro che si sentono delle anime responsabili mi spiegassero che cosa vogliono dire con il loro essere “responsabile”, perché se penso alla mia vita, le cose che ricordo con grande piacere ed interesse sono proprio quelle situazioni e quelle vicende in cui tanto responsabile non sono stato; e nonostante il paradosso, quando mi è accaduto di essere sconsiderato ho appreso i migliori insegnamenti che potessi ricevere dalla vita e dagli uomini. In tal senso, vale ancora la splendida sottolineatura di Umberto Eco sulla figura di Franti del noto libro di De Amicis, ma vale anche la sagace ironia dandy di Oscar Wilde quando intitolava una delle sue gustose e divertenti commedie (una di quelle che preferisco!) nel seguente modo “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, peccato che la stessa traduzione italiana del titolo non permette immediatamente di cogliere l’ironia esplicita contenuta nel titolo wildeiano, perché altrimenti tutti questi responsabili sia quelli di prima che dell’ultima ora se ne guarderebbero dal definirsi tali. Ed infatti, per quanto mi sia concesso dalla vita e dalle vicende quotidiane, spero tanto e mi sforzo di non essere responsabile, neanche della mia stessa storia (vero factum est).



[i] Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore, #Lockdown. Il giorno dopo, 2020 Il Sole 24 Ore S.p.A., Milano.


sabato 2 maggio 2020

Glamour. Breve nota sulla fotografia di Alessandro Negrini (alexnerophoto)



#Fotografia, #AlexNeroPhoto, #Instagram, #Agathadevil



La brevissima intervista che Alessandro Negrini consegna al suo profilo instagram ( @alexnerophoto) ha lo scopo di presentare con qualche nota biografica e stilistica la propria attività di fotografo (riferimenti, concezione, etc.). Il fotografo triestino afferma che svolge l’attività fotografica professionistica solo da alcuni anni, anche se ha curato interesse e competenza nel settore fotografico da molto più tempo, in particolare come creatore di eventi. I riferimenti indicati dal fotografo rinviano chiaramente alla fotografia di posa e alla fotografia glamour, direzione che caratterizza la fotografia dalla fine degli anni Settanta e molta dell’attuale pubblicistica (riviste e altro) sul settore della moda in particolare. Tuttavia, per quanto scarne possano apparire le notizie biografiche qualche dato può chiaramente ricavarsi per capire la fotografia di Negrini.

Anzitutto, seppur con una certa avversione, la concezione fotografica di Negrini rimane collegata alla fotografia di posa, paradigma da cui si distacca tramite la scelta stilistica di “anticipare” lo scatto vero e proprio. Lo scopo del fotografo è di produrre un’immagine che abbia e comunichi a colui che la osserva un senso di realismo, una forma di concretezza che ottiene come effetto imponderabile nello scatto medesimo: la cifra di Negrini è quella di contrarre i tempi di esposizione ed allo stesso tempo quello di velocizzare il movimento del diaframma, condizioni che rendono la gestione dello scatto finale meno gestibile e controllabile; la finalità è appunto, quello di rendere il risultato finale, per quanto previsto e predeterminato, per così dire “incerto”, anzi “inatteso”. In tal senso, lo statuto dell’immagine è quella di una forma che si rivela spontaneamente e che lascia trasparire di sé qualcosa che nella posa o proprio a causa della posa potrebbe smarrirsi, lasciando soltanto un’immagine “fredda”, l’attimo fissato in una forma congelata.


La ricerca dell’estemporaneità, dell’immediatezza e della spontaneità non condizionata dalla composizione e dallo schema iconico è un’esigenza prim’ancora stilistica, espressiva per il fotografo triestino, forse conseguenza degli insegnamenti della filosofia di Umberto Eco, che presentavano una concezione dell’iconismo dentro la struttura della narrazione comunicativa e quindi, inequivocabilmente entro uno schema di codifica e di decodifica che inseriva il segno, il significato e, dal punto di vista estetico, l’immagine entro un sistema di riferimento già codificato o eventualmente facilmente codificabile. Nel caso di Negrini la ricerca di una spontaneità di un’immagine di posa è in realtà, la ricerca di una forma che non rimanga incastrata da un precodificato sistema di riferimento, che possa influenzare o condizionare il messaggio eventualmente contenuto nella fotografia: ciò vuol dire anche che deve ammettersi la condizione formale che una fotografia oltre ad essere bella, debba necessariamente essere anche una fotografia che abbia un significato, un valore ulteriore a quello semplicemente estetico. L’idea di Negrini di compiere lo scatto in una condizione in cui possa intervenire qualche variabile inattesa che possa “sporcare” il risultato finale è un’esigenza espressiva, una logica del rischio con la quale cogliere l’insondabile e l’invisibile che si annida dietro il realismo rarefatto o dietro l’ammiccante posa patinata (cfr. gli scatti dedicati al mondo del fetish).

Una scelta stilistica che tuttavia, non riesce, e forse non vuole, distaccarsi dalla premessa didascalica della fotografia di posa. La fotografia di Negrini non può rinunciare alla fotografia di posa, che anzi acquista con i suoi scatti proprio ciò che per definizione gli sembra preclusa, cioè l’aspirazione ad essere arte; un’aspirazione che conquista proprio tramite quel grado d’incertezza (come una sorta di vibrato) che sembra trasmettersi dalla fotografia sotto forma di naturalezza o di feeling spontaneo: qualcosa che ricorda molto la rappresentazione che dà un noto film di Michelangelo Antonioni, Blow-up, dove l’attività fotografica è intesa nel suo significato sensualistico e come un atto di seduzione e di appagamento erotico in quell’intervallo compreso tra lo scatto e la posa della modella. Un riferimento questo che non è mero citazionismo, ma addirittura una cifra dello stile di Negrini, che sovente ritrae la moglie Claudia (la modella che opera con il profilo Instagram di agathadevil) e a cui – lo dice il fotografo nell’intervista sopra menzionata – demanda proprio la costruzione della posa, quell’aspetto puramente formale ed iconico che il fotografo triestino probabilmente cerca di dissacrare introducendo l’incondizionato che può produrre tramite la tecnica fotografica: l’incondizionato non è un dato proveniente dal modello o dal soggetto della fotografia, ma un fatto ascrivibile alla tecnica fotografica, al linguaggio formale che la fotografia formula.


In tal senso, la concezione fotografica di Negrini è espressione di una generazione di fotografi che ha rinunciato alla convenzionale visione mimetica (o documentaristica) della fotografia; una concezione che in altre epoche era stato il motivo determinante nel rinnovamento del discorso dell’arte del Novecento, ma ovviamente ancora legata a quel tipo di fotografia definita dai famosi fotoreporter di guerra e che la definirono [sc.: la fotografia] come la diretta trasposizione della vita: la fotografia come esistenza, come vita vera; pertanto, prima come vita inscritta nei grandi eventi della storia, e poi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso come vita inscritta nelle storie quotidiane e metropolitane di soggetti che o non possono più accedere ai grandi eventi della storia (emarginati e clandestini e via dicendo) o non possono accedervi perché la Storia gli è assolutamente indifferente. La fotografia diventa ora, autoreferenziale e cerca volutamente questa sua condizione, non solo perché gli è imposta dallo stesso sistema della comunicazione (cfr. identificazione dell’immaginario sociale con l’estetica derivante dalla comunicazione pubblicitaria), ma perché è la strada che ritiene più funzionale che per vie traverse mira a riconquistare uno spazio decolonizzato, anche se non pienamente e perfettamente incontaminato (e perché dovremmo cercarli questi spazi incontaminati?).

L’attimo allora, non è più quella fortunata coincidenza di condizioni imponderabili come poteva permettersi di definire il grande fotografo francese Henri Cartier-Bresson, ma è quel dato inatteso scientamente cercato e tecnicamente riproducibile che è la cifra della fotografia degli ultimi decenni. A quanto pare anche della fotografia glamour.



Post Scriptum. La mia stanza è una anonima stanza e tuttavia, stando a quel che racconta Virginia Adeline Woolf in un suo racconto, ma come lei tanti altri scrittori di inizio Novecento, ogni stanza ha una sua personalità, spesso riflesso della persona che la abita, la occupa; allo stesso modo, di quei reportage di cronaca rosa sulle case dei personaggi famosi e popolari. Il modo in cui viene arredato e decorato uno spazio abitativo può essere una strategia interpretativa della personalità di colui che l’ha arredato o di colui/colei che la abita giornalmente. Se si guardano vecchie fotografie di ambienti è possibile fare una cronistoria stilistica, ma anche della stessa concezione architettonica del gusto e delle soluzioni abitative che architetti o semplici progettisti di ambienti domestici hanno elaborato nel corso del tempo. Ecco, muovendo in questa dimensione estetico-concettuale, la presenza o l’assenza di alcuni oggetti, pezzi di mobilio o soluzioni di arredamenti (più o meno funzionali) indicano da un lato la personalità di colui che abita quello spazio (come dicevo), ma anche la presenza di un certo paradigma che non è solo estetico o architettonico. Esempio, chi entra nella mia anonima stanza coglie subito una certa caoticità data da accumuli sparsi di oggetti ricorrenti nella mia vita personale, per lo più libri, molti sistemati in piccole librerie e altri accatastati in pile verticali dall’equilibrio incerto, in ogni caso sistemati alla meno peggio secondo un certo ordine di utilizzo; ma nella mia stanza fino a qualche tempo fa si potevano trovare altri oggetti, in particolare delle audiocassette a nastro magnetico, dei compact disc musicali, dei Dvd ed anche dei vinili (nei due formati 33 giri e 45 giri). Presenza fattasi più esigua nella mia stanza per varie ragioni, una delle ragioni principali è lo stereo rotto che non ho più riparato ed il lettore del portatile inservibile: insomma, tecnologia digitale ridotta all’essenziale o addirittura al minimo, a livello di sopravvivenza. Ma quest’ultimo dato conta poco, più interessante mi sembra è una considerazione legata al tema del tempo, tema che a forza viene riscoperto dalla comunicazione attuale a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia e cioè sugli strumenti che in un modo o in un altro ricorrono al tempo o utilizzano il tempo in modalità differenti. Prendiamo il caso delle audiocassette, tra l’altro oggi riscoperte non solo come oggetti vintage, il contenuto di queste audiocassette (ma i contenuti potevano essere di vario tipo, es. i software dei videogiochi dei vecchi computer domestici come il C64 o l’Atari) può usufruirsi ascoltandolo ed in un arco di tempo fissato dalla lunghezza del nastro magnetico (i formati più diffusi erano 60’ e 90’, quello meno 120’), tanto che l’ascolto di regola era di tipo continuo e non selettivo come può compiersi adesso con gli attuali sistemi, per cui ci si prendeva il tempo necessario (quello oggettivo e fissato dall’audiocassetta e quello soggettivo del proprio gusto musicale o estetico in generale) e l’utilizzo di questo tempo non è economico, cioè non è possibile evitare di sprecarlo, anzi è proprio vera la situazione opposta, bisognava sperperarlo nel modo più consapevole possibile per non perderlo totalmente. Oggi, non è possibile dare questa rappresentazione del tempo, perché in una certa misura la tecnologia è riuscita a conservare il tempo, anzi ad economizzarlo: nel caso di un’audiocassetta se si voleva apprezzare nuovamente un certo passaggio musicale si doveva interrompere la riproduzione (premere il tasto STOP del registratore), riavvolgere (premere il tasto REWIND), bloccare il riavvolgimento del nastro in un punto approssimativo alla sezione che interessava riascoltare (erano un aiuto fondamentale i numerini del contatore che convertivano il minutaggio del contenuto), infine riprendere la riproduzione audio (premere il tasto PLAY); oggi, questa stessa situazione è più semplice, con il mouse del computer o premendo il tasto REW del telecomando si blocca la riproduzione ed automaticamente si lascia scorrere il cursore del registratore o del software video fino al punto che ci interessa, lasciando in video la proiezione delle immagini. Una forma economica dell’uso del tempo, reso possibile perché il tempo ha smesso di essere quell’imponderabile flusso continuo che si identifica con il divenire stesso dell’esistenza, ma è un parametro come un altro, gestibile tramite un tasto e comunque a controllo intuitivo. L’impressione che in questo clima di pandemia suscita il tema del tempo non indica, come vuole la narrazione attuale, una maggiore consapevolezza della sua intrinseca fugacità, allo stesso modo in cui ne parlava Lucio Anneo Seneca nella sua famosa Lettera a Lucilio, ma indica una consapevolezza (tenuta implicita dal ritmo della nostra quotidianità) della sua inattingibile inutilità, cioè riscopriamo che il tempo così lungo, così dilatato, così imposto sotto forma di una limitazione di libertà (vedasi carcerazione), anche se a fin di bene è una concezione che non ci appartiene più e forse non lo vogliamo neanche avere questo tipo di tempo, perché il suo presentarsi nelle nostre vite, costrette all’inattività e all’inoperosità, rivela quante occasioni e quante possibilità che in altri momenti potevamo realizzare ed ottenere ed adesso le vediamo tragicamente naufragare, perdendole per sempre. La restrizione a causa della pandemia ci mette davanti il senso (per noi umani inaccettabile) di una vita statica dove l’esistenza fluisce secondo un ritmo di perennità che non ci ha mai appartenuto e che la civiltà umana dell’ultimo secolo e mezzo ha esasperato identificando i ritmi dell’esistenza con quelli forsennati della produzione.