lunedì 29 ottobre 2018

Il concetto di supereroe e il concetto di male nella narrazione del fumetto americano contemporaneo


(Foto dal web)

Se proviamo a leggere il fumetto contemporaneo - come fanno in molti oggigiorno - tramite un'estetica ed una ermeneutica che lo identifica come una forma storica ed autorappresentativa della società umana, allora appare evidente la diretta correlazione tra il mondo fittizio del fumetto ed il mondo concreto dell'esistenza umana. Pertanto, gli uomini e le donne dei fumetti, compreso tutto il loro mondo affettivo e le situazioni più o meno realistiche, non sono altro che il riflesso più o meno fedele di quella stessa società che l'ha prodotti e quindi, un alter ego tramite cui osservare se stessi in situazioni ed in condizioni materiali verosimili. Gli eroi del fumetto dunque, sono una forma non solo dell'immaginario creativo umano, ma anche una forma di possibilità verosimile che l'uomo oppone concretamente come proprio modello identitario, come esempio da seguire. Un'estensione della fantasia nel mondo profano, una sovrapposizione, in certi momenti quasi "protesica", che mette in relazione mondi ed universi, nel senso di oggetti, di fatti, di sistemi culturali e via dicendo, ma anche i valori assoluti delle verità fondamentali che accompagnano il progresso della umanità e della sua civiltà, tra questi valori l'idea edificante che sia non solo possibile, ma anche un dovere la produzione di azioni giuste ed orientate verso il Bene. In tal senso, l'azione supereroistica diventa un modello di riferimento che porta con sè la convinzione che il Male per quanto virulento possa apparire non è del tutto irriducibile e che può essere debellato. Una lotta manichea che può condursi in vari modi, ma su cui esiste un'unica certezza il prevalere del Bene sul Male e la speranza soteriologica che tutto si risolva in qualche modo verso il meglio.
Insomma, per quanto scandalosa sia la presenza del Male nel mondo, come si stupiva Sant'Agostino, un fatto è certo, cioè che è il Bene a descrivere un ordine necessario nel mondo e che ogni evento descritto dentro questo universo o questa umana realtà non può che indirizzarsi verso il progresso. Una fiducia che il pensiero teologico ha sempre difeso e ha sempre riproposto in ogni dove ed in ogni tempo, e a questa stessa cornice filosofica una parte della narrazione fumettistica contemporanea ha guardato essa stessa, molto spontaneamente e senza alcuna specifica riflessione filosofica e tuttavia, lo sguardo fumettistico rivela una trasformazione dell'arcaico concetto del Bene e l'introduzione di una variante a tratti inquietante, quella di una reale irriducibilità del Male e della sua estrema mutevolezza tanto da confondersi troppo facilmente con alcuni elementi morali che compongono gli attuali sistemi di valori. Una "confusione" che non deriva da una ignoranza, tanto per parafrasare il santo teologo cattolico menzionato, e neanche una malvagia intenzionalità umana, ma un prodotto - forse anch'esso storico - della costruzione attuale delle stesse prospettive valoriali, che costringono il soggetto (qualsiasi!) a muoversi dentro una cornice relativa; ecco allora il dramma, la conversione del Male assoluto in un male relativo e a secondo come viene osservato (in situazione, isolato, in gruppo, storicizzato, ...) il male è "situazionabile", cioè deriva da contesti dove non appare più così negativo, o addirittura viene a risolversi in bene!
Impostata così, anche la narrazione fumettistica si trova a dover fare i conti con questa natura aporetica del male, ma anziché essere effetto di una riflessione filosofico-morale giunge a questo punto tramite una trasformazione costante e continua dello schema narrativo con cui si producono e si elaborano le avventure fumettistiche: ovviamente, il discorso è interamente focalizzato su una parte della produzione fumettistica, quella supereroistica e non include opere fumettistiche sui generis ritenuti da molti addirittura "letterarie", per cui l'idea di una schema codificato non solo è molto presente in questo genere di produzioni di fumetti, ma è una delle strutture portanti della stessa narrazione fumettistica.
Se si osserva il ruolo e la funzione del male nel fumetto tramite lo schema narrativo si evince perfettamente che al modificarsi di questo si trasforma il concetto stesso di male e la sua stessa percezione, il che a sua volta influisce in modo determinante la figura del supereroe medesimo. Si consideri, tanto per iniziare, l'idea che caratterizza le produzioni del fumetto contemporaneo classico. Qui, lo schema narrativo è molto semplice e a tratti ripropone la dicotomia manichea di scontro tra Bene e Male, premurandosi ovviamente, di caratterizzare in modo indubbio le qualità positive ed edificanti dell'eroe del racconto, ma anche le doti spregevoli ed orripilanti del villain che compare di volta in volta nelle avventure fumettistiche. Come si può intuire in questo schema classico non può sussistere alcuna ambiguità o peggio coabitazione tra Bene e Male e ciò in ragione di una precedente ed arcaica formulazione drammatica di questo rapporto che ha la sua fonte nelle tragedie eschilee, a.e.: il male subisce (e deve subirlo!) la legge del contrappasso, poiché quest'ultima come un inesorabile destino incombe fatalmente sulle esistenze di ognuno, per cui la via morale verso il Bene è la direzione inscritta nell'ordine necessario dell'Universo, da cui non è possibile sottrarsi. Dentro questo schema, il gesto eroico nel fumetto contemporaneo è pienamente inserito e diventa l'intervento necessario e necessitante che riafferma sia l'equilibrio cosmico delle cose, sia la loro posizione morale, insomma il supereroe contemporaneo viene a delinearsi come l'antica figura del deus ex machina, cioè del risolutore divino. In tal senso, la comparsa di un personaggio come Superman (1933) nel fumetto classico è la rielaborazione di un vero e proprio archetipo: in questo caso, tra l'altro, le somiglianze ad un modello ancestrale (mitologico) (*) sono così marcate che i tratti caratterizzanti dello schema narrativo descrivono l'Uomo d'Acciaio come una sorta di ibrido incarnato tra Mosè e Gesù Cristo.
In ogni caso, quest'idea di supereroe "alla Superman" esibisce caratteristiche che lo rendono perfettamente collocabile dentro questo schema gnostico, diversamente, la scarsa aderenza delle proprie caratteristiche allo schema narrativo impone una mutazione, pena l'inquadramento a fatica, se non addirittura l'estraneità, del proprio ruolo dal contesto narrativo creatogli intorno. Per molto tempo la struttura del fumetto supereroistico non ha subito grandi cambiamenti, se non quelli fisiologici relativi alle mutevoli creature supereroistiche che veniva ad aggiungersi allo schema già ampiamente codificato. Tuttavia, in seno a questo schema inizia ad incunearsi un'inedita innovazione che distruggerà l'arcaico ed ancestrale rapporto manicheo Bene-Male, quest'innovazione è introdotta dal personaggio di Batman (1939), l'altro grande eroe del fumetto classico dell'epoca d'oro della fumettistica americana (l'intera produzione della DC Comics). Rispetto allo schema qui presentato, il gesto eroico prodotto dall'Uomo Pipistrello non è guidato da un forte senso civico, come può ravvisarsi nel grande giustiziere alieno che è Superman, ma da un'ossessivo spirito di vendetta. La lotta contro il crimine è un atto di giuramento che Bruce Wayne ha formulato a se stesso per vendicare la morte dei propri genitori. In una certa misura, è vero, questo può ascriversi alla menzionata legge del contrappasso, tanto che troveremo quest'eroe a comporre la Justice's Leguae, ma ad analisi più attenta delle sue caratteristiche si rivela come rispetto all'archetipo rappresentato da Superman Batman descrive un modello che male si adatta allo schema narrativo della netta contrapposizione di Bene e Male. Batman anzitutto, non è un extraterrestre, non ha capacità sovrannaturali, ma esibisce uno straordinario talento per la lotta e per la scienza ed è equipaggiato con strumenti avveneristici, che lo mettono in condizione di combattere e di prevalere sul crimine: non è un dio in Terra come può esserlo Superman! Inoltre, rispetto al senso di giustizia, ciò che motiva quest'eroe non è l'adesione disinteressata al valore della giustizia, il formarsi in lui di una coscienza civica, ma l'ostinata volontà di avere soddisfazione personale dell'ingiustizia patita, tanto che agisce clandestinamente e per molto tempo la sua figura sarà associata dalle stesse istituzioni cittadine a quella di un qualsiasi altro criminale. In più, Batman ha un rapporto ambiguo con il mondo del crimine, perché più lo frequenta e lo combatte, più sente di appartenervi in qualche modo. Un aspetto quest'ultimo che mette in crisi la netta distinzione tra Bene e Male, perché ammette la possibilità che la variazione tra i due mondi sia solo un "fatto ottico", un diverso tipo di coloritura delle proprie azioni - non è casuale che The Joker sia la sua nemesi inquietante, oltre che il villain più controverso incontrato dal Cavaliere Oscuro.
La comparsa di Batman introduce, seppur implicitamente, una situazione inedita e distruttiva di osmotica relazione tra Bene e Male, ma quest'effetto disgregativo innescato dal personaggio non rivela tutte le sue conseguenze, perché l'Uomo Pipistrello opera in un contesto narrativo che fatica ad accoglierlo integralmente - infatti, la svolta editoriale del personaggio avverrà qualche decennio dopo assestandosi su quella cifra esistenzialistica che non lo abbandonerà più -, si dovrà attendere il rivolgimento operato dagli eroi della Marvel e soprattutto con uno di essi, Spiderman (1962). L'aporia narrativa lasciata comunque, irrisolta anche dallo stesso Batman consiste appunto, sulla qualità della motivazione che si trova a fondamento del gesto eroico. In Batman lo spirito di vendetta può ancora congiungersi con l'idea dello americano medio di trovare nella giustizia, se non nella stessa pena capitale, soddisfazione al male perpetrato, ma inizia ad affacciarsi un'altra caratteristica che lo stesso Uomo Pipistrello non è riuscito a gestire, vale a dire come stabilire il confine tra ciò che è giusto fare da ciò che non lo è: beninteso, non si sta parlando di stabilire cosa sia legale e cosa sia illegale, perché Batman non può produrre un simile ragionamento in quanto lui stesso opera in maniera del tutto arbitraria e quindi, al limite della legalità, almeno quando è sicuro di avere sotto controllo la situazione. Il problema che innesca la figura di Batman non ha più una natura morale, vale a dire che la lotta contro il male ed il crimine non può ricondursi a nessun imperativo morale assoluto, tanto che l'imperativo che guida l'azione dell'Uomo Pipistrello non è il dovere assoluto del Bene, ma è la vendetta. C'è arbitrarietà nell'azione eroica, c'è arbitrarietà nella definizione di cosa sia il male: cosa rende rende Batman diverso dai criminali che persegue, visto che la differenza di entrambi non si fonda più sul senso ancestrale di un ordine giusto?
La risposta la fornisce il noto personaggio inventato da Stan Lee e la risposta non è confortante, perché la differenza indicata da Spiderman non è la presenza di una coscienza civica del Bene e neanche una coscienza del Male, ma è molto semplicemente il prodotto di un atto di responsabilità assunto primariamente a livello individuale e poi, eventualmente anche a livello collettivo. Essere responsabili non significa avere perfettamente chiaro di quale sia il proprio dovere o quale sia il Bene collettivo che ha valore universale, ma significa prendere atto di essere in grado e capaci di assolvere un'azione come se fosse un dovere, anche se poi in fondo in fondo non lo è. Il mantra che campeggia sulle avventure dell'Uomo Ragno è posto in chiaro fin dal primo albo, "grandi poteri determinano grandi responsabilità", il che vuol dire che Peter Parker è a causa dei poteri che possiede incastrato da una morale di servizio altrui e da una logica disinteressata che vive con insofferenza. Ed infatti, la lotta contro il Male ed il crimine da parte dell'Uomo Ragno non è orientata alla affermazione della giustizia o del Bene, ma per soffocare il tremendo rimorso di coscienza che lui stesso si è autoprodotto: combatte il male perché così può acquietare quegli scrupoli morali che non riesce più a soffocare e che non lo lasciano tranquillo. Se poi, si aggiunge che da questa lotta al crimine trae anche opportunisticamente un vantaggio, cioè quello di poter realizzare fotografie dei crimini che sventa e di poterle vendere in esclusiva al tirannico direttore del giornale per cui lavora, allora è evidente che il problema morale è ampiamente superato in una morale eclettica e relativa. Qui, la responsabilità che incombe nell'azione di Spiderman non è un concetto astratto, ma è il senso di pentimento con il quale il personaggio cerca di trovare assoluzione per l'inedia e l'apatia dimostrata nei riguardi dei temi morali: la morte dell'amato zio è il motivo di questo fortissimo senso di colpa ed è questo sentimento che spinge l'eroe a cercare una giustizia, ma anche in questo caso questa ricerca ha una natura "interessata". Come si vede siamo molto lontani dall'idea iniziale di un'ancestrale senso della giustizia e di Bene.
Riassumendo, i punti fin qui evidenziati dimostrano:

  1. la classica contrapposizione Bene-Male inizia a sfumarsi e comincia a delinearsi un'indiscriminata osmosi che spariglia opinioni, posizioni e obiettivi. Ciò vuol dire che inizia a sgretolarsi sul piano pedagogico l'idea di riferirsi all'eroe come un modello morale, un esempio da imitare.
  2. Decaduta qualsiasi forma di semantica e di assiomatica, anche la natura del supereroe deve decidersi di modificarsi e di trasformarsi, ma questo processo mette fine all'idea tradizionale di giustiziere, che verrà con molta fatica riproposta dalla narrativa fumettistica e con alterne fortune.
  3. Distrutta la correlazione del Bene con l'ordine necessario del mondo, si delinea il problema narrativo di individuare una diversa origine del male, quest'ultimo non più come forma trasgressiva e sovversiva dell'ordine cosmico, ma come prodotto diretto dell'azione eroistica: in una realtà caotica in cui l'ordine è un fatto morale e non più una necessità strutturale del mondo, e con il peso della responsabilizzazione delle proprie azioni, allora è evidente che il gesto eroico non ha solo effetti positivi, ma produce a sua volta effetti negativi e l'eroe da risolutore degli eventi umani diventa un'ulteriore motivo apocalittico.

L'assenza di una netta identificazione del supereroe alla natura e agli scopi del Bene è una precondizione del suo totale snaturamento ed il suo inesorabile scivolamento verso la dimensione negativa dell'antieroe. Ora, se non era esclusa la conversione dei villain in eroi positivi, è pur vero anche che era implicita l'esclusione di una conversione dell'eroe verso orizzonti malvagi, tranne solo in particolari condizioni transitorie, il che è ovvio in un contesto narrativo in cui qualsiasi deroga di ambiguità oscillatoria tra i due termini assoluti della morale e della verità è negata. Pertanto, è solo quando la modificazione della natura e del significato del ruolo e della funzione dell'eroe che questa deroga non solo è concessa, ma a sua volta necessaria per dare credibilità all'azione del supereroe. Ci si accorge di questa mutazione se si osservano i cambiamenti di ruoli che recenti produzioni - orientate verso i giovanissimi per lo più - hanno dato alle tradizionali figure negative della letteratura gotica (su tutti la figura del vampiro). 
La conseguenza più importante non è solo il chiaro disorientamento dello stesso supereroe nella gestione della propria azione eroica, che come si è visto non ha o a perso un orizzonte morale di riferimento, ma è soprattutto l'incapacità di controllare gli effetti negativi prodotti dal suo gesto eroico. Adesso, dopo questa mutazione, la possibilità che il male possa derivare dal medesimo gesto eroico non è un effetto impensabile, ma è una possibilità realmente concreta, anzi in alcuni casi questa dimensione diventa il leitmotiv di tutte le avventure del supereroe, esempio Deadpool (1991) della Marvel. Tuttavia, interviene un'ulteriore variante a questa possibilità - eroe positivo, ma briccone - che è quella di possedere una natura intrinsecamente legata al male ed esibendo caratteristiche che in altre situazioni venivano ricondotte al villain di turno. In questi casi, l'eroe non è più il modello positivo edificante, ma è l'elevazione dell'antieroe a protagonista assoluto di una serie di vicende narrative: come si intuisce torna una qualità già definita da Batman, cioè di un eroe mischiato con il male da cui in qualche modo deriva, se non addirittura un vero e proprio rinnegato. Nel caso di Batman il travestimento è un modo per confermare questa dimensione di ambiguità, ma in alcuni personaggi recenti questa stessa funzione non è più assolta dal mascheramento e si presentano così come sono. In questo filone narrativo si inserisce il personaggio marveliano di Daimon Hellstrom (1973), un personaggio che ha avuto una gestazione che lo ha portato fuori dal gruppo dei Difensori per assumere chiarissime caratteristiche "esistenzialistiche": la lotta contro il male si intreccia con la ricerca della verità e con la lotta egemonica, spesso incerta e spesso con l'eroe perdente, che Hellstorm intraprende contro Satana, di cui è un'incarnazione, di cui è figlio. In questo caso, il crimine non è più materiale violenza e bestialità umana, ma ha un'ascendenza metafisica nell'oltremondo ed in alcune storie di Hellstorm addirittura come effetto di una partita a scacchi tra Dio e Satana; l'umanità in questo caso è in mezzo a questo scontro divino e la funzione di Hellstorm è semplicemente quello di poter intervenire a difesa dell'umanità in riferimento ai "valori" che guidano la sua azione: non c'è più dunque, alcuna giustificazione religiosa e metafisica a sostegno della buona azione compiuta dall'eroe, ma solo un relativistico "buon senso" e sensibilità individuale.
Si evince perfettamente che il supereroe non più incastrato da una morale del dovere assoluta che è da riferimento a lui come ad ogni altro (il lettore delle sue avventure in particolare) può abbandonarsi a scegliere di volta in volta se compiere un'azione giusta o se rimanere ignominiosamente disinteressato, ma stavolta se decide per l'inazione non subisce più il ricatto morale del rimorso come in Spiderman, perché ha compreso che il male non è evitabile neanche quando l'intenzione è buona o diretta unicamente verso il bene. Ciò determina un'altra conseguenza sullo scenario dell'azione supereroistica che assume insospettabilmente, ma quasi necessariamente uno scenario orrorifico dove il male, nel senso di crimine, s'intreccia opinatamente con l'orrore metafisico descrivendosi come prodotto non solo da menti malvagie, ma anche da spiriti dello oltretomba resuscitati, da demoni, da zombie, addirittura da esseri fantastici del folklore come i lupi mannari o gli uomini-donne lupo e le streghe. A tal riguardo, l'orrore, il macabro, l'inquietudine, la paura ancestrale e via dicendo sono caratteri che rendono versatile il paesaggio in cui si muove l'eroe e le finalità o gli scopi della sua azione supereroistica, ma indicano ancor di più quanto sia inquinata e contaminata l'antica idea di Bene e quanto ambigua sia la scelta eroica di ciò che è giusto poiché un fatto di sfumature, unicamente dipendente dalla sensibilità culturale dell'eroe.


sabato 27 ottobre 2018

O il post o la vita: il peso della libertà in rapporto al numero dei followers posseduti.

Che la mia giovinezza sia passata me ne accorgo non tanto dalle rughe sul mio viso, che ancora per fortuna non esibisco, ma dal continuo riformulare precedenti opinioni e modificare, addirittura aborrire vecchie convinzioni. Tra queste vi è anche la mia attuale visione della libertà, infatti comincio a chiedermi - ormai da molto tempo - quanto ci sia ancora di vero e di valido nell'ontologia limitata della libertà. All'epoca di quando facevo il liceo era di moda - in verità, lo credevo solo io - un inconsueto connubio, un'amalgama tra l'idea benjaminiana per cui la libertà per definirsi tale doveva riconoscere a se stessa un limite ed un confine invalicabile, soprattutto perché oltre quel limite iniziava la libertà altrui, e il valore collettivo e morale di kennediana memoria dell'azione individuale. Insomma, uno scenario in cui la libertà individuale e collettiva era regolamentata, anche moralmente e per di più responsabilizzata, pensando appunto che il proprio dovere non fosse solo quello di vedersi riconosciuti "cittadini" di una nazione, ma soggetto attivo di questo riconoscimento: una sorta di liberalizzazione di impegni possibili, ma necessari per una benefica convivenza e per il benessere di tutti, indistintamente.
Se quest'ideali possono sembrare oggi attuali - e forse qualcuno lo crederà, soprattutto tra alcuni nostalgici -, è pur vero che riferirsi saldamente a questo tipo di cornice è molto arduo, non perché non abbia una sua intrinseca validità - se per questo anche un convinto terrorista è un uomo in buona fede, almeno sul piano dell'ideale -, ma perché come si possa dissertare di "responsabilizzazione" individuale quando oggi più di ieri è prevalsa la prospettiva collettiva - o si appartiene ad un gruppo sociale oppure si è esclusi nel bene e nel male dai più consueti automatismi sociali - e soprattutto quando non esiste più come obiettivo sociale appunto la libertà: è un autoreferenzialismo che le strutture sociali e comunitarie di oggi sono poco disposte a pagare. Inoltre, a rendere la problematica di non facile soluzione interviene la tecnologia, perché sono proprio gli strumenti che si usano quotidianamente a creare e a configurare l'orizzonte ed i margini reali di questa stessa libertà. Ora, se l'uso di un qualsiasi mezzo tecnico influisce indifferentemente su scelte e stili di vita, allora interrogarsi su come si articola, meglio su come si dispiegano materialmente forme di libertà deve considerarsi anziché un sano esercizio di democrazia o di filosofia morale una consuetudine preconcetta: proprio quella che manca nei quotidiani dibattiti.
Fatta questa premessa, molto generica, molto orientativa, tanto per fissare un quadro di riferimento tematico, si consideri concretamente un esempio, a.e. la raccolta di "like" o di followers virtuali. Sono note le posizioni di chi vede in questo tipo di fenomeni qualcosa di cui diffidare e da considerare negativo, tuttavia, se ci si sforza di abbandonare posizioni oltranziste e conservatrici, il meccanismo qui menzionato è in fondo la "borsa valori" del futuro, il metro di giudizio del proprio valore professionale e del proprio reddito e benessere. Oggi, vi sono moltissime persone, alcune noti personaggi del jet-set nazionale ed internazionale che dimostrano appunto questa situazione; certo, ciò è chiaramente incomprensibile da chi non ha legato la propria fortuna professionale al consenso virtuale di iscritti a canali video o a profili, tuttavia volenti o nolenti queste stessi devono ammettere che pur essendo loro personalmente estranei da questo circuito in una certa misura ne subiscono una qualche influenza, ovviamente sotto forma di pubblicità sgradita e superflua, di programmazione comunicativa indesiderata e di fruizione di modelli educativi assolutamente opinabili. Eppure, non si può disconoscere che tutti questi effetti indesiderati siano in fondo, prodotti dal medesimo sistema comunicativo che è comune sia agli uni che agli altri. Meccanismi sociali entro cui viene a configurarsi appunto, l'astratta idea di libertà autoreferenziale verso cui troppo spesso la retorica pubblica rivolge il suo interesse.
Torniamo per un attimo all'idea di libertà menzionata all'inizio. In una situazione come quella appena descritta bisognerebbe chiedersi se sia proprio vero che la libertà individuale finisce dove inizia quella altrui, visto che quel limite astrattamente indicato - e lasciato volutamente indeterminato, tanto da non riuscire a quantificarsi concretamente -, è a ben guardare il margine su cui insiste uno spazio sociale condiviso e partecipato, uno spazio che ha già nella norma dello stato il perimetro limitante e che è più o meno esplicitamente accettato sia da chi ha una coscienza civica sia da chi non ce l'ha, ma non per questo può considerarsi un criminale o un delinquente. Se poi, pensiamo pure che questo dominio sociale oggi si è identificato con lo stesso sistema comunicativo, tanto che la libertà del cittadino è stata monopolizzata dall'informazione che è divenuta "libertà di parola", ergo di stampa come se solo gli operatori dei giornali fossero gli unici a possedere una coscienza critica e quindi, un diritto di opinione che un semplice cittadino esercita (sic!) esclusivamente nei salotti di intrattenimento televisivi - c'ha visto lungo Barbara D'Urso, complimenti! -, allora mi sembra altrettanto evidente che il racconto dominante, che è il pensiero sociale collettivo - in altre epoche qualcuno avrebbe parlato di pensiero unico -, è la struttura narrativa che configura autenticamente la libertà di tutti, compresa anche quella di chi subisce in quanto "pensiero subalterno" rispetto allo storytelling dominante o egemone.
La possibilità di produrre dissenso di qualsiasi tipo o semplicemente un'opinione diversa oggi passa per l'individuazione dell'origine stessa del racconto egemone - così ad un certo momento della mia vita iniziai a pensare -, ma questa stessa possibilità forse non è poi così risolutiva, cioè può non bastare, perché la struttura narrativa è in grado di produrre una serie di effetti collaterali ingestibili e non necessariamente correlabili al grado di responsabilizzazione che una comunità esibisce più o meno consapevolmente. Ed è quello che accade sovente nelle piattaforme social (es. Twitter), il che non vuol dire che ci sia mala fede o un comportamento doloso da parte dei fondatori di suddette piattaforme, ma che la struttura narrativa su cui fondano la loro attività interconnessa produce questi effetti, in quanto sfuggono dal controllo di chi inizia ed imposta un certo tipo di narrazione virtuale: il fatto che sfuggano non significa che sia un problema di competenza come molti credono, ma è un problema interno o intrinseco alla stessa struttura narrativa, in pratica al linguaggio ed al sistema comunicativo utilizzato. Un esempio, è proprio la vicenda dell'attrice pornografica August Ames, travolta da un'ondate di proteste poiché si era rifiutata di realizzare una scena di sesso con un attore di cui diffidava in merito alle sue condizioni di salute. Il comportamento tenuto dall'attrice (spiegando ed argomentando le proprie ragioni) era l'unico che poteva tenere, perché l'obiettivo era formulare una contro-narrazione imposta dalle critiche e dalle proteste, una narrazione opposta che è stata molto ragionevole, rivelando temi anche filosoficamente importanti come quello dell'autodeterminazione di un'attrice pornografica, ma il cui messaggio (vero e credibile) sembra non essere passato, tanto che molti correlano ciò con la decisione dell'attrice di suicidarsi.
L'unico dato certo, che è poi quello che si è voluto mettere in rilievo, è che l'intreccio tra narrazione e vita, che molti cultori trova tra i letterati visto che ha caratterizzato una precisa stagione della cultura europea, oggi viene formulato secondo i modi qui parzialmente descritti ed indicati e che se c'è qualcosa di inquietante esso è effetto dell'incapacità del nostro sistema attuale a più  livelli di produrre degli argini spontanei, il che vuol dire pure che se c'è una carenza non è solo un problema di "criminalizzazione" di un'intera società, ma forse l'effetto parossistico di una convergenza di piani (comunicazione e società) che rende difficile l'operare analiticamente; ciò non vuol dire essere "masochisti", ma ammettere che esistono alcuni piani che hanno una soluzione molto difficile, oppure molto semplicemente che non ammettono soluzione.


giovedì 25 ottobre 2018

Prolegomeni sulla possibilità: tra Heidegger ed il Triangolo di Tartaglia.

La riproposizione heideggeriana della categoria della possibilità nei termini di una categoria esistenziale è una trasformazione dell'antico concetto greco del dynaton (tò) o di endekoménon (tò) che presso la filosofia aristotelica aveva un'impostazione ed una formulazione prettamente epistemologica, tanto che Aristotele (IV secolo a.C.) legava la possibilità sia alla struttura logica del pensiero, e quindi anche al principio di non contraddizione, in quanto categoria logica o modale, sia al fondamento metafisico dell'analisi dicotomica. Da Aristotele in poi infatti, la categoria della possibilità sarà variamente presente ed assumerà via via caratteri differenti. La formulazione heideggeriana è una delle ultime tappe di questa storia, che formula questo nei seguenti termini
<< L'Esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere. L'Esserci ha già sempre in qualche modo deciso in quale maniera sia sempre mio. (...) L'Essere è sempre la sua possibilità ed esso non "l'ha" semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice-presenza. Appunto perché l'Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere o "scegliersi", conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo "apparentemente". Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell'autenticità, cioè dell'appropriazione di sè. (...) Questi due caratteri dell'Esserci, il primato dell'exsistentia sull'essentia e l'esser-sempre-mio, bastano a far vedere che un'analitica di questo ente si trova innanzi a un campo fenomenico del tutto particolare.>> (Martin Heidegger, Essere e tempo, §9, 1976, XVI ed., p.65)
La possibilità quindi, diventa il tratto caratterizzante dell'essere, ma anche il momento da cui partire per la definizione di una filosofia autonoma dai condizionamenti di tipo epistemologico, dove a prevalere sarà la dimensione della necessità condizionata, che è tipica del sapere scientifico, delle forme astratte del conoscere. Il ripensamento, che non è altro che la Destruktion dell'essere classico, dell'intera ontologia filosofica, realizzato con il superamento della fenomenologia (husserliana), non ha potuto evitare di dover porre una questione metodologica e gli assunti, pur muovendosi nell'ambito di una visione non più epistemologica, anzi addirittura antiepistemologica - la critica dell'essere tradizionale generale, universale ed astratto cos'è se non altro questo? -, non possono negare come la stessa rivelazione intuitiva sia un prodotto essa stessa di una costruzione dell'orizzonte tramite cui può compiersi l'analisi esistenziale dell'essere: certo, l'intento di Martin Heidegger (1889-1976) è di trovare oltre quest'analisi quella dimensione metafisica che fonda tutto e che semplicemente allusa e non pienamente rappresentabile a causa delle restrizioni imposte dal linguaggio all'apertura dell'essere nel mondo, il suo fiorire ed esteriorizzarsi fenomenicamente. Di qui, il legame stretto tramite l'ontologia del linguaggio tra la verità preservata nelle forme figurative (poesia) e la Verstehen ermeneutica che si dispiega esistenzialisticamente nella parola del Dasein, dell'uomo che ha intuizione di sè (cosciente) in quanto si trova nel mondo (finitudine) e di vivere in una trama di relazioni partecipative con altri Dasein simili a lui che comprende e che lo aiutano a non cedere alla solitudine ed alla morte, che ne hanno "cura".
Appare evidente che l'operazione heideggeriana - qui presa a modello di un'impostazione abbastanza tipica nella metafisica novecentesca - ha implicitamente accettato il presupposto aristotelico per cui la possibilità è sì una caratteristica ascrivibile alle qualità dell'essere, ma non è quella determinante, perché correlata al divenire della realtà sensibile e soprattutto irrappresentabile (vedasi l'idea aristotelica di infinito!) pena l'ammissione della contraddizione nella struttura profonda dell'essere, il che ovviamente non è tollerato né da Aristotele, né da gran parte del razionalismo antico e posteriore.
Certo, la proposta che si sta facendo presente sì la possibilità, ma non nei termini filosofici qui succintamente indicati. Ci si sta muovendo sul piano matematico e la possibilità assume l'aspetto della probabilità, un concetto dal valore semantico e filosofico addirittura antitetico a quello della possibilità esistenzialistica, che diventerà in varie forme un fattore indeterminabile e quasi emancipativo sul piano morale, perché opposto all'idea di sistema, di apparato, di istituzione culturale (nel senso più retrivo e conservatore) come dimostrerà la Nietzsche renaissance degli anni Settanta del secolo scorso. Dal punto di vista matematico, si può assegnare alla possibilità un valore, un numero, è possibile quantizzare il rischio correlato ad essa, si può rappresentare, seppur in via ipotetica e statistica - ciò significa relativismo e complessità, concetti aborriti da metafisici e teologici -, il margine entro cui questa stessa possibilità è ragionevolmente una certezza convincente e razionale.
Non si vuole proporre una dissertazione sui fondamenti filosofici, temi che occupano un dibattito culturale avvincenti per alcuni, ma parecchio complicato da esporre qui, per cui i si limita a rimanere su quel piano "fenomenico" ricusato dall'esistenzialismo e dalla metafisica del secolo scorso e collocando ogni considerazione sul piano di una teoria dei giochi, sia perché si rende accessibile i temi trattati, sia perché la stessa riflessione probabilistica nasce da un'apparente insignificante discussione sulle quote o sulle possibilità di vincere una partita a dadi. I primi ad interrogarsi su questi temi furono il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) ed il grande matematico portoghese Pierre de Fermat (1607-1665).
Qui si vuole proporre solo una differente modalità di ragionare filosoficamente, un piccolo accenno che può essere uno stimolo a curiosare, forse ad appassionarsi.
La natura imponderabile degli eventi ha sempre conferito alla conoscenza filosofica un limite spesso insuperabile, tra questi l'idea dell'indeterminabilità degli eventi (Destino o Fato) e quindi, il profilarsi di un'irrimediabile rinuncia nel provare ad anticipare, a prevedere l'accadimento, trasformare per così dire l'accaduto in avvenimento, cogliere l'evento nella sua dimensione in fieri. Questa urgenza previsionale diventa fondamentale se applicata nella determinazione delle possibilità che vengono a delinearsi durante un turno di gioco o nella composizione di una decisione che produca poi la mossa da effettuare. Una previsione che non ha alcun valore di certezza assoluta, ma che circoscrive i margini e l'ambito ipotetico entro cui poter massimizzare la mossa che si vuole compiere o la puntata della scommessa. Ecco allora, delinearsi il concetto di probabilità, che si definisce come il rapporto numerico tra i casi favorevoli - quelli che portano alla vincita - ed i casi possibili - l'insieme degli eventi e delle situazioni che possono accadere durante un turno di gioco -. Il valore numerico che definisce questa possibilità oscilla tra 1 (uno) e 0 (zero). Se il rapporto è uguale ad uno, allora la vincita è realizzata; se invece è uguale a zero, allora la vincita non è per nulla realizzabile o realizzata.
Tuttavia, poiché ci si muove entro questo intervallo numerico, molto piccolo come si può intuire, il valore della probabilità si determina all'interno di questo intervallo, cioè tra uno e zero, quantificando quei casi che si approssimano ad uno e quelli che si approssimano a zero. La direzione verso cui si sposta la probabilità stabilisce la situazione di gioco, vale a dire se è vincente oppure perdente. Poiché i numeri in gioco appartengono all'ordine dei decimali, è evidente che la probabilità così descritta reca in sè un grado più o meno elevato di incertezza: è su questo grado che si effettua la stima per le scommesse al botteghino o presso i centri scommessa - si tenga presente che una scommessa presso un centro che le raccoglie formula la possibilità con un meccanismo molto diverso, qui ci si sta limitando a dare un'idea generale ed un'opinione di concetto -. Per questa ragione l'analisi dei casi probabili finisce per essere un semplice conteggio dei casi favorevoli e di quelli possibili. I casi possibili possono essere determinati dal calcolo combinatorio e ciò è normale che sia così, perché i casi possibili possono descriversi come vere e proprie combinazioni e in riferimento alla situazione di gioco è possibile selezionare tra tutti questi casi quelli che permettono ad un giocatore di vincere. Tecnicamente queste combinazioni sono in genere numeri molto grandi, per cui il loro conteggio può effettuarsi scomponendo o estraendo da questi numeri una sequenza costante, che finisce per identificare la combinazione come il numero multiplo della sequenza trovata. Nello specifico ci si rivolge ai coefficienti binominiali, perché si sono dimostrati validi strumenti con cui semplificare problemi molto complicati come sono appunto quelli relativi la costruzione di una combinazione numerica.
Credo che sia facilmente intuibile che la possibilità descritta dalla matematica sia tutt'altro concetto rispetto alla verità "imponderata" dell'Esserci heideggeriano, in quanto riguarda la "qualità" dell'esistenza e non la "quantità" relativa all'accadere, all'ipotesi che qualcosa possa essere (esistere) senza che non sia ancora essere, senza che non sia né "mio", né "presente".