martedì 29 ottobre 2019

Spunti di riflessione #1


#SpuntiDiRiflessione, #Scienza

Cosa vuol dire trovare una soluzione, soprattutto ad un quesito posto dall’esistenza? Cosa significa ridurre la stessa realtà sensibile ad un’astrazione matematica? La storia del pensiero scientifico europeo ed occidentale in genere ha una serie di episodi, di aneddoti, di situazioni che collocate in una specifica cornice teorica o più semplicemente in un paradigma concettuale hanno costituito soluzioni o semplicemente metodi di soluzioni a quesiti che in seguito verranno catalogati esclusivamente come “problemi matematici”. La stessa forza di gravità formulata da Galileo Galilei può ascriversi entro questo segmento, in quanto quest’idea che la gravità terrestre potesse essere uniforme in ogni punto dello spazio terrestre è in fondo, un’estensione di una visione geometrica, in particolare di una geometria dei cerchi, il tentativo di applicare schemi e tecniche aliene alla stessa realtà fisica, alla stessa intuizione sensibile.
Questo è il punto. Quando si ragiona sul progresso delle conoscenze, spesso il poter spostare il confine di ciò che è noto da ciò che non lo è, di estendere il dominio delle stesse certezze che compongono le definizioni delle proposizioni scientifiche e non solo non è solo (e sempre) un accumulo di nuove esperienze, di nuovi dati compresi, ma è per lo più la capacità creativa dell’essere umano di adottare ( e di adattare) formule della realtà astratta a quello scenario così concreto, così materiale che è l’esistenza. Una capacità che ammette in via preventiva la traduzione della stessa esistenza in un “problema” che chiede di essere risolto, in una questione che chiede di essere emendata (cfr. Antonio Banfi e il Problematicismo), ma per fare questo significa avere anzitutto, la capacità di convertire le forme in qualcosa di inatteso, non necessariamente in qualcosa di sorprendente, insomma in una forma controintuitiva.
È su questa profonda ed intrinseca realtà del sapere che la filosofia ha trovato la sua origine, cioè nella stessa attitudine umana verso un’esteriorizzazione aliena, tremendamente e sconvolgentemente lontana da tutto ciò che viene registrato dalla conoscenza sensibile, da tutto ciò che è intuizione sensibile. Così si è mosso l’antico razionalismo greco con l’individuazione di quella regione trascendentale che è la Seconda Navigazione dello ateniese Platone; così è stato le sconvolgenti e non facilmente accettati argomenti dello Scetticismo di epoca tardo antica e di epoca moderna; così è successo alla stessa Teoria della relatività di Albert Einstein.
Ora, se le proiezioni geometriche sono forme astratte che definiscono di per sé uno spazio estraneo, se non addirittura antitetico alla stessa intuizione sensibile, la storia del pensiero scientifico non è solo la narrazione costante di un dissidio insanabile tra l’intuizione dei sensi e la modellizzazione teorica, ma è soprattutto una lotta costante del genio umano alla refrattarietà della realtà a piegarsi alla forma modellata dall’astratto intelletto. La via infatti, indicata in epoca illuministica dalla filosofia di Immanuel Kant è il tentativo di sanare, stavolta in via definitiva, quest’intrinseco dissidio riportando la stessa metafisica ad essere quel piano di realtà che l’antica filosofia le aveva assegnato, facendo coincidere le forme dell’intuizioni sensibile con le due forme fondamentali predeterminate della stessa intuizione sensibile, vale a dire le forme pure (a priori) di spazio e tempo. Poiché la realtà sensibile è effetto del modo con cui il soggetto di un’esperienza descrive e vive questa stessa esperienza, la base di questa esperienza è quest’immagine che dà forma ad una materia bruta, che diventa a sua volta comprensibile dopo un trattamento sintetico di forme che la spazializzano e che la temporalizzano.
La conseguenza principale di ciò è abbastanza evidente, indica cioè che il fondamento della realtà sensibile ha una dimensione che è estranea alla stessa intuizione (come avevano detto gli antichi filosofi), ma per di più lo esito kantiano di identificare le basi dell’intuizione con alcune strutture dell’astrazione ha imposto un’identità tra realtà ed astrazione formale dove il discorso scientifico è un prodotto condizionato, poiché legato alle stesse forme che descrivono oggettivamente la realtà intuita.
Cambiare paradigma dunque, ha voluto significare nella cultura scientifica del dopo XIX secolo intraprendere un percorso controintuitivo, la formulazione di teorie sempre più astratte e che mal si accordassero con gli esiti ordinari dell’intuizione quotidiana. Un viaggio che rivela sempre più l’esposizione della scienza allo stato di incertezza, alla probabilità statistica, alla rarefazione (se non addirittura all’assenza) di prove scientifiche, per lo più “prove di laboratorio”, a conferma di teorie e di leggi e tutto ciò senza il conforto di metafisiche meccanicistiche.
Questo procedere senza salvagente, che in termini più espliciti significa procedere (o dover procedere) lungo la china di un formalismo estremo non è effetto di un divorzio dalla realtà sensibile come la controintuizione sembra suggerire, ma è effetto proprio del legame che è stato rinsaldato con la stessa realtà empirica. Il realismo che è stato per molti secoli alla base delle diffuse e note convinzioni scientifiche è prodotto sì da una sovrapposizione metafisica del piano di realtà con quello ideale, ma è stato soprattutto conseguenza di una filosofia scissionista, fondata sulla netta separazione tra realtà sensibile ed intuizione. La possibilità della realtà si è identificata con la capacità delle forme astratte di rappresentare e di descrivere questa stessa realtà materiale, di qui la convinzione, in seguito smentita dalla logica dell’assurdo di Carroll Lewis e del suo Wonderland, di una commistione tra logica e realtà, che i fenomeni empirici seguissero e si accordassero con le leggi ferree della razionalità umana, del categorismo aristotelico o dell’esclusione della contraddizione del logicismo più ortodosso.
Le contraddizioni cumulate dal discorso scientifico e da parte della scienza spingono a gettare l’imbardatura dell’antico sapere e a tal riguardo, il pensiero è costretto non a riconquistare quell’antica signoria perduta (e forse mai avuta), ma provare a creare qualcosa che sia per sua intrinseca natura senza fondamento, relativo e drammaticamente incerto. Incerto e terribile, al di fuori di schemi misericordiosi già fissati e con la stessa consapevolezza che ogni scelta è solo un’opportunità probabile e non salde verità.

                              Porto Empedocle, 29 ottobre 2019

lunedì 30 settembre 2019

Chernobyl, un problema di colonizzazione dell’immaginario e tema storiografico della fine della Guerra Fredda. Breve annotazione.


#Chernobyl, #HBO, #Legasov, #nucleare, #energia, #GuerraFredda



Foto storica dell’impianto, realizzata prima degli anni Ottanta.






Questo post prende spunto dalla visione della serie televisiva della statunitense HBO dedicata al disastro di Chernobyl, consumatosi nell’aprile del 1986 presso la centrale ad energia atomica Nicolaj Illiac Lenin (IV) sita nei pressi della cittadina di Pripy’at, in Ucraina. La docu-serie ricostruisce i momenti e le decisioni che hanno condotto alla distruzione del reattore nucleare del blocco 4 dell’impianto, incentrando il racconto dei fatti sulle omissioni denunciate dall’audio testamento del fisico sovietico Valerij Alekseevic Legasov, morto suicida nel secondo anniversario del disastro (26 aprile 1988).

Sulla serie americana si sono pronunciati in moltissimi, opinioni che non è mia intenzioni riprendere, né amplificare, tuttavia un giudizio mi sento di affermare e cioè che sebbene il racconto s’ispiri al documento di Legasov alla fine sembra riproporre la versione ufficiale del governo sovietico dell’epoca, prima intento a voler insabbiare le molte informazioni imbarazzanti, per poi abbracciare la tesi di Legasov delle criticità e del difetto di progettazione del reattore, oltre l’ovvio scaricamento delle responsabilità del disastro alla colpevole condotta degli operatori e degli amministratori della centrale.

Non voglio discutere sulla vicenda giuridica, oggetto di svariate inchieste giornalistiche, di documentari e di ricostruzioni storiche, compresa di una diffusa letteratura sul tema e sugli effetti catastrofici del disastro. Il mio scopo è più didattico e soprattutto orientato ad evidenziare come il fatto di Chernobyl rappresenti e, a mio avviso, descrive il primo vero grande evento che segna di fatto la fine della Guerra Fredda e l’inizio della nuova era della Globalizzazione. E soprattutto, Chernobyl segna una questione di estrema importanza e che ancora adesso non ha trovato una soluzione soddisfacente, figurarsi una soluzione definitiva, che è quella che riguarda la sussistenza del tradizionale sistema (o modello) energetico basato sulla centralità dei derivati dal carbon fossile.

Al netto di tutte queste questioni, mi limito a segnalare alcuni elementi, in parte presentati nella mini-serie sopra menzionata, in parte rintracciabili nei servizi giornalistici dell’epoca. Il più eclatante di questi elementi è quello fornito da uno speaker della televisione di stato sovietica durante una cronaca girata tre giorni dopo il disastro.

(Il brano a cui mi riferisco lo si può trovare al minuto 2’:20”- 2’:40” nel filmato, Compilation of Rare 1986 Videos of Chernobyl Disaster (English), presente sul canale di NewsFromUkraine)

Da quel che emerge dalla traduzione inglese del servizio, lo speaker sovietico tende a minimizzare la gravità del disastro, fornendo al contempo una piccola panoramica dell’ambiente intorno alla centrale, affermando che gli effetti del disastro non inducano ad alcun tipo di preoccupazione, perché gli effetti dell’esplosione non sono assimilabili a quelli di un’esplosione atomica tradizionale, vale a dire quella classica prodotta da una bomba vera e propria (con l’immensa fiammata e relativo fungo di polvere che si solleva da terra). Insomma, dalle immagini della televisione nulla intorno alla centrale lascia intendere che a Chernobyl potesse essersi verificata una situazione assimilabile al rullino di immagini relative alle esplosioni nucleari. Certo, quanto affermato dallo speaker sovietico può considerarsi il solito tentativo di (auto)censura dinanzi ad un episodio imbarazzante per il proprio governo nazionale, ma può essere anche il segno più evidente di un automatismo, di una colonizzazione dell’immaginario compiuta proprio dalla vasta campagna di disinformazione che faceva leva sulla paura dell’atomica: Chernobyl da questo punto di vista presenta il conto di queste ansie e paure presentando una situazione che è sì drammatica, ma lo è ancor più perché suggerisce uno stato di cose che non è quello che è realmente accaduto in quell’occasione.

L’esplosione nella centrale di Chernobyl non è stata un’esplosione atomica, ma una violenta deflagrazione tradizionale. Nulla, ma proprio nulla che possa ricondurre a quelle immagini - a cui mi riferivo - diffuse dalla propaganda militarista durante la Guerra Fredda. Gli effetti psicologici prodotti da questa colonizzazione si palesano in modo spontaneo e non necessariamente indotti da una logica di repressione dell’opinione, che in ogni caso c’è stata da parte del governo sovietico. In tal senso, il “minimizzare” dello speaker sovietico ha un doppio senso:
  •      effetto positivo: interrompere il tradizionale circuito immaginifico che la propaganda militarista dei decenni precedenti ha definito ed alimentato sotto forma di varie psicosi ed ansie terroristiche;
  •      effetto negativo: proprio questa tentativo di censura rivela non solo l’azione di insabbiamento condotta dal governo, ma soprattutto quanto e a che livello si sia protratta la colonizzazione dell’immaginario dell’opinione pubblica, anzitutto sovietica e più in generale di quella europea.


Ciò significa che nessuno all’epoca del disastro aveva una chiara idea di cosa volesse dire un disastro nucleare e nel comprendere quanto stava accadendo, ovviamente ci si rifà alle nozioni acquisite o ai luoghi comuni che si sono sedimentati nell’opinione privata e pubblica. Solo in seguito, a distanza di alcuni anni, si è avuto una netta percezione di cosa fosse accaduto in quel sito, ma il fatto che si fosse del tutto impreparati a gestire una emergenza di quel tipo, non solo sul piano scientifico, anche sul piano culturale dimostra quanto il disastro di Chernobyl rappresenti un fondamentale momento di svolta storica sia nel rapporto con l’energia atomica, sia nel rapporto globale con le tematiche ambientali: la gravissima contaminazione dell’ambiente è il primo vero evento che pone innanzi all’opinione pubblica europea e mondiale l’urgenza di una migliore e più oculata gestione dell’ambiente.

In ogni caso, pochi nell’opinione pubblica dell’epoca avevano gli strumenti per capire cosa stava accadendo in quella parte dell’U.R.S.S. e l’ansia prodotta dalla disinformazione sovietica aggravava ancor più lo stato d’animo dell’opinione pubblica, incapace a comprendere, perché non aveva alcuno strumento per capire la evolversi della situazione. A riguardo, proprio in seguito alla vicenda di Chernobyl la IEAA, cioè l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, produrrà uno strumento di valutazione degli incidenti nucleari rivolto proprio all’opinione pubblica, che è dato dalla Scala INES, fornendo così un metro con cui misurare la reale gravità dell’evento atomico, foss’anche un fatto non direttamente collegato alla produzione industriale.

La svolta che il disastro di Chernobyl imprime nelle coscienze dell’opinione pubblica è anzitutto, la presa d’atto della necessità di decolonizzare il proprio immaginario con conoscenze e nozioni più precise sul tema ed in fondo, la vasta eco che il disastro di Chernobyl ebbe è il segno inequivocabile di quest’urgenza che bisognava soddisfare.

A conclusione, di questo breve intervento, vorrei aggiungere che dopo il disastro di Chernobyl vi è un altro grave disastro nucleare, quello realizzatosi nel complesso industriale di Fukushima Daichii in Giappone nel marzo del 2011. Il disastro nucleare giapponese ha prodotto varie conseguenze gravissime, tanto che nella Scala INES è considerato, al pari di quello di Chernobyl, catastrofico, cioè il grado massimo che un evento nucleare può e deve raggiungere, tuttavia nel nostro immaginario di europei il disastro nella centrale ucraina conserva un qualcosa di iconico, perché Chernobyl a differenza di Fukushima ha realmente descritto una svolta, un vero cambio di epoca proiettando anzitutto l’Europa, ma poi un po’ tutto il mondo verso l’era della Globalizzazione. È abbastanza sorprendente osservare che gli eventi che hanno annunciato l’inizio di questa era siano state il disastro nucleare a Chernobyl e la conseguente contaminazione ad opera della nube tossica sviluppatasi dall’evaporazione dell’acqua presente nel reattore, e poi il contagio finanziario causato dalle crisi finanziarie in Asia ed in Russia (1989 e 1991). In entrambi i casi l’orizzonte che questi due eventi hanno posto dinanzi all’opinione pubblica mondiale non è più quello regionale tipico della Guerra Fredda, ma quello di un pianeta interconnesso economicamente, commercialmente, ecologicamente. A riguardo, è più decisiva la data del 1986, che anticipa di pochi anni ciò che nell’attuale immaginario assegniamo alla data del giugno 1989, cioè a quel cambio di epoca che per l’Europa la storiografia fa coincidere con l’unificazione territoriale della Germania. A mio avviso, questo cambio va retrodatato di un paio di anni…
Porto Empedocle, 30 settembre 2019

domenica 29 settembre 2019

L’algoritmo dei giorni della settimana

#matematica, #GiuseppePeano, #calendario, #algoritmo, #FedericoPieretti, #JohnConway, #complessità, #gioco


Giuseppe Peano (1858-1932)





 Intro

Il motto “semplicità e chiarezza” descrive pienamente la figura del matematico italiano Giuseppe Peano, che ha finito per caratterizzare tutta la sua opera di studioso e di uomo di scienza, ma soprattutto di insegnante. Sì, perché per il grande matematico piemontese la didattica non è e non poteva considerarsi un momento meno rilevante rispetto all’invenzione o la scoperta di nuove strutture formali. Il progresso delle conoscenze infatti, passa anche dalla capacità di saper bene applicare quanto nel frattempo viene a sedimentarsi nel sapere, ecco perché nasce l’esigenza di mettere un punto, più o meno definitivo, a quello che la ricerca pura ha nel frattempo acquisito. Su quest’esigenza nasce una delle opere più importanti di Peano, il Formulario di matematica, la cui prima edizione è del 1908, un opera che accompagnerà per tutta la vita il matematico e che finirà per assumere anche carattere collegiale, tanto che gli aggiornamenti e le rivisitazioni saranno frutto di varie collaborazioni in campo scientifico.

In ogni caso, il Formulario di matematica è un’opera enciclopedica, lo strumento con cui si vuole dare ordine e compiutezza a quanto era stato nel frattempo acquisito dalla teoria pura, tuttavia proprio in virtù di questa urgenza di sintesi e di schematizzazione (o economizzazione) delle conoscenze acquisite, scaturisce un altro tema che caratterizzerà l’opera del grande matematico italiano, quella di formulare un adeguato sistema di rappresentazione (notazione simbolica) e di un vero e proprio linguaggio con il quale dare corretta espressione alle proposizioni matematiche. Scaturisce così, l’esigenza leibniziana di costruire una lingua che possa essere una mathesis universalis, ma anche quel progressivo orientamento verso la logica matematica, evidenziato da Bertrand Russell nella premessa ai suoi Principi di Matematica, orizzonte che Peano ha sempre escluso come suo diretto interesse di studioso.


“In matematica debbo moltissimo a Giorgio Cantor ed a Giuseppe Peano”
                                                                                              (B. Russell, Principi di matematica)


L’idea di matematica che raccoglie il grande logico e matematico inglese è perfettamente ritrovabile in Peano e cioè nella sua convinzione che la matematica non sia solo un’attività astratta, ma potesse essere quel gesto di riflessione sulla realtà da cui trarre schemi e strutture costanti con le quali organizzare l’intera esperienza umana in una sorta di razionalismo che ricorda moltissimo la teoria matematica antica. Tuttavia, quest’idee non guidano solo la dimensione della ricerca pura in senso stretto, ma anche quell’ideale di impegno sociale che finirà per caratterizzare tutti i suoi sforzi di scienziato. La rinuncia di una visione autoreferenziale della matematica permette a Peano di poterne affermare l’importanza pubblica, da cui deriva la rilevanza del suo corretto insegnamento. L’attenzione alla didattica della teoria matematica sarà un tratto qualificante del suo lavoro di saggista e proprio alla didattica è rivolto un’opera, che appare minore rispetto agli altri saggi, ma per neofiti e studenti è qualcosa di incredibilmente stimolante, mi riferisco all’opera del 1924, Giochi di aritmetica e problemi interessanti.

Il tema non riguarda l’opera in sé, ma una delle applicazioni che Peano propone delle strutture matematiche, in particolare quella proposta nel capitolo 3 dell’opera, dedicata alla lettura del calendario. In queste pagine il matematico italiano evidenzia come nella composizione, ma anche nella lettura del calendario intervengano semplici operazioni elementari, che rivelano a loro volta l’individuazione di uno schema aritmetico con il quale spiegare l’andamento delle date che compongono la calendarizzazione in questione. Ciò ricorda l’idea pitagorica dell’assolutizzazione del numero su cui a sua volta si fonda la tradizionale meccanica celeste basata su un armonico sviluppo di rapporti numerici: basti pensare all’intuizione di Keplero di congiungere lo studio del cosmo con la musica. Tuttavia, questa lettura del calendario non la osservo guardando quanto dice Peano, il cui argomento è alquanto complesso, almeno per me, ma attraverso la rielaborazione successiva che altri hanno fatto di questo stesso tema.

Nel suo libro intitolato Matematica per gioco pubblicato nel 2012, Federico Peiretti fa esplicito riferimento a questo capitolo dell’opera di Peano, sottolineandone nel contempo anche gli intenti didattici, e di cui fornisce una spiegazione estremamente comprensibile, riportando però una versione leggermente modificata dello originario argomento di Peano.



Dimmi che numero hai e ti dirò che giorno della settimana è

La lettura del calendario che Peano svolge in uno dei capitoli di Giochi matematici e problemi interessanti ha come detto, l’intento di mostrare il tipo di algoritmo che sussiste nella composizione dei mesi e degli anni per la calendarizzazione. Tuttavia, dal suo discorso non emerge solo questo dato, che può apparire ai più anche decisamente sorprendente, ma ne rivela un altro, quello di una ricorsività dei giorni dell’anno, vale a dire dell’esistenza di uno schema intrinseco che una volta individuato tende a ripetersi. Una sorta di ciclicità che ritorna – parafrasando malamente una delle convinzioni del filosofo tedesco Nietzsche – che però non ha il valore storiografico vichiano di ripetersi sempre diverso (il famoso tema dei ricorsi storici), né ha il valore filosofico di una mutazione valoriale delle forme esteriori, quest’ultime perennemente immutate, al modo delle Idee platoniche, ma ha semplicemente il valore di evidenziare una struttura costante nell’andamento del tempo lineare, del sistema numerico che fonda il tempo descritto dal calendario appunto.

L’andamento algoritmico delle date di un calendario, afferma Peano, rivela uno schema pressocché costante e che rivela una ricorsività che, una volta appresa, può facilmente essere ricordata. Ora, nella storia della filosofia molti si sono adoperati per inventare vari metodi mnemonici, in questo caso basta semplicemente prendere confidenza con un algoritmo, altrettanto semplice e non difficile da capire. L’algoritmo infatti, non solo propone uno schema essenziale delle operazioni matematiche che dobbiamo compiere per avere il risultato che stiamo cercando, tra l’altro utilizza alcune delle operazioni elementari, ma rivela quell’idea di regolarità che è implicita nell’argomento di Peano sul calendario.

Pieretti a riguardo, propone la versione semplificata elaborata dal matematico statunitense John Conway. Il tratto caratterizzante questo algoritmo è la ricorsività di alcuni giorni della settimana, che è costante per il periodo di tempo che si sta considerando: ciò significa che se il nostro obiettivo è determinare il giorno della settimana relativo al secolo XX, esiste un giorno che definisce e caratterizza appunto quel secolo. Nel caso del XX secolo è il giorno del mercoledì.
Questi giorni fulcro sono sempre gli stessi per quanto riguarda il secolo che interessa, ma variano ovviamente con il cambiare del secolo di riferimento. Conway chiama questi particolari giorni del calendario Doomsday, cioè Giorno del Giudizio.

Ora, per chiarire meglio il meccanismo dell’algoritmo di Conway considero come esempio pratico la mia data di nascita, 21 aprile 1976. Ciò detto, se volessi sapere (anche se lo so già!) in che giorno della settimana cadde la mia nascita, devo produrre il seguente ragionamento.

Anzitutto, bisogna memorizzare alcuni semplici rapporti numerici, i quali indicano appunto, queste date fisse con le quali può dispiegarsi l’algoritmo da lui elaborato. Per i mesi pari dell’anno i rapporti sono i seguenti:

4⁄4, 6⁄6, 8⁄8, 10⁄10, 12⁄12,

mentre per i mesi dispari dell’anno i rapporti sono i seguenti:

9⁄5, 5⁄9, 11⁄7, 7⁄11.

Come si può facilmente osservare ogni rapporto è regolare ed esprime una differenza costante uguale a 4. Ovviamente, si deve ammettere un’eccezione per il mese di marzo, il cui rapporto è 0⁄3, che non esiste, in quanto il primo giorno di marzo risulta essere zero, il che non è vero, ma il rapporto descrive quel particolare giorno che è l’ultimo giorno di febbraio, che come si sa può variare a seconda della bisestilità dell’anno. Di conseguenza, meno regolari sono i giorni relativi appunto ai primi due mesi dell’anno, perché per gli anni ordinari il rapporto è 0/2 e 0/3, mentre per gli anni bisestili sono 4/1 e 1/2.

Tenendo come esempio la mia data di nascita dunque, si può osservare che essa cade entro il secolo XX, per cui ai fini del conteggio le cifre che interessano sono semplicemente quelle finali del numero che descrive l’anno, cioè 76. Ecco in questa i calcoli da effettuare:


  • Anzitutto dividere il numero per 12, per cui 76÷12=3,8. Si tengano il Quoziente in questo caso 3 (senza alcun arrotondamento) ed il Resto, che è 4;
  • dividere il Resto per 4, per cui S=4÷4=0;
  • sommare Quoziente, Resto e Somma. Indichiamo con T il risultato, per cui T=Q+R+S=3+4+0=7;
  • contare infine numero T giorni a partire dal Doomsday del secolo, che come detto è mercoledì e quello che si ottiene è appunto, il Doomsday dell’anno. Nel mio caso, essendo T uguale a 7, il mio Doomsday è proprio mercoledì.

L’algoritmo così esposto riguarda l’attuale sistema del calendario, che come è noto è il risultato della riforma gregoriana, per cui se il calcolo riguarda una data diversa dal secolo XX, es. la data della presa della Bastiglia, avvenuta il 14 luglio 1789, si devono tenere in mente alcuni accorgimenti. Anzitutto, i Doomsday variano nel corso dei secoli e a tal riguardo, Pieretti propone il seguente prospetto:

15du – 19du – 23du – 27du Doomsday: mercoledì
16du – 20du – 24du – 28du Doomsday: martedì
17du – 21du – 25du – 29du Doomsday: domenica
18du – 22du – 26du – 30du Doomsday: venerdì

Come si evince, lo stesso Doomsday si ripete ogni quattro secoli, per cui deve tenersi a mente la variazione sopra indicata.

Per facilitare la comprensione, facciamo riferimento alla data menzionata, una tappa fondamentale nella storia della Rivoluzione francese e della Francia attuale. Seguendo infatti, le operazioni sopra descritte, si eseguono passo passo lo stesso algoritmo, per cui si avrà che Q=89÷12=7, R=5 e S=1; quindi, il valore di T è uguale a T=Q+R+S=7+5+1=13. Il Doomsday del secolo XVIII è la domenica, quindi il calcolo di T è 13 giorni dopo domenica, cioè sabato. E così per quanto riguarda qualsiasi altra data.



Conclusioni

Nel suo capitolo su Peano Peiretti aggiunge un’ulteriore spiegazione per quanto riguarda il calcolo del giorno in riferimento al calendario romano, in particolare il calendario in uso durante l’epoca di Giulio Cesare, che qui ometto e chi vuole può visionare consultando il testo del matematico italiano.
Quanto detto fino a qui mi sembra più che sufficiente ad evidenziare anzitutto, una divertente curiosità che può diventare anche un simpatico esercizio per la memoria, con cui prendere da un lato confidenza con due delle semplici operazioni elementari, quali la divisione e l’addizione, ma soprattutto a fissare concettualmente l’idea razionalista per cui la realtà possa spiegarsi tramite l’individuazione di schemi semplici.

Questo tipo di semplificazione rivela la propria efficacia sul piano didattico, come appunto fa Peano, tuttavia ciò non vuol dire che si possa procedere altrettanto agevolmente in direzione di un’assolutizzazione di questa visione dal sapore antico. Voglio dire che la direzione della ricerca teorica più recente è diametralmente opposta a quella a cui fa riferimento il matematico italiano e ciò perché da un lato è cambiato il modello di riferimento, e dall’altro lato perché certi sviluppi non possono riassumersi in formule semplici e definitivi, in quanto le grandezze che agiscono in un evento fisico variano rendendo l’analisi stessa più complessa. Tuttavia, ciò non toglie la validità sul piano didattico della posizione di Peano.

In uno scenario scientifico dominato dalla complessità e dagli andamenti statistici la lettura del calendario di Peano appare quasi un ludico passatempo (che è in parte quello che intendeva lo stesso matematico), ma che ripropone sotto mentite spoglie un’idea di realtà che non fa parte dell’attuale orizzonte scientifico e culturale. La dimensione complessa degli scenari scientifici attuali è tale che richiede la creazione di una o più piattaforme sinergiche tra discipline eterogenee, in modo da osservare uno stesso fatto “simultaneamente” da prospettive analitiche diverse, per cui non basta più individuare lo schema portante con il quale descrivere in modo regolare il comportamento di un fenomeno, ma si deve ammettere una natura congetturale ed ipotetica della stessa conoscenza prodotta; e ciò influisce ovviamente, nel modo di comporre le meccaniche, gli studi sugli enti materiali, foss’anche esseri viventi e così via.

Porto Empedocle, 28 settembre 2019 
(rivisto e modificato il 29 settembre c.a.)

domenica 15 settembre 2019

BDSM e vari amori soggiogati. La dominazione della sfera affettiva, l'Aftercare


#Canovaccio, #BDSM, #Aftercare
Avvertenza. Il presente scritto si presenta come un canovaccio, perché originariamente doveva essere il testo di un piccolo video che per una serie di ragioni tecniche non ho potuto realizzare, ma poiché il tema mi sembra interessante e soprattutto, il legame che evidenzio tra l’attività dell’Aftercare ed una certa rappresentazione idealistico-romantica della sfera sentimentale, che non posso esimermi dal non darvi almeno una certa visibilità. Pertanto, questo scritto per quanto schematico e poco letterario possa apparire, spero che possa interessare e lasciarsi apprezzare per le eventuali intuizioni che possa suggerire.






A mio cugino Alfonso


L’Aftercare non è un’attività in senso stretto, ma crea le condizioni essenziali per alcune attività BDSM
 più caratteristiche quali appunto la Dominazione. (immagine tratta da una chat)



L'Aftercare è una specifica attività del BDSM. Apparentemente anomala e per nulla attinente alla stravaganza delle varie attività che si raccolgono intorno al tema BDSM, in realtà è un'attività che ha un proprio spazio ed in particolare una sua funzione a tratti veramente decisiva nell'economia stessa delle attività BDSM.
L'attività è spesso direttamente correlata all'attività di dominazione ed a quella delle punizioni, in particolare dello spanking. L'attività dello spanking crea le condizioni fisiche ed emotive entro le quali s'insinua l'attività dell'Aftercare, che in inglese equivale al termine italiano di "assistenza". In questo caso il valore semantico equivale al concetto di "cura medica", in quanto il Dominatore si premura di medicare, di alleviare il dolore provocato dalle lesioni e dai graffi, dalle escoriazioni sul corpo derivanti dall'attività punitiva.
Il concetto italiano di "cura" infatti, che può apparire equivalente, è fortemente fuorviante, perché implicitamente suggerisce un qualche coinvolgimento emotivo e/o affettivo del Master, in realtà l’Aftercare indica una precisa condizione di obbligatorietà che vincola il Dominatore all'esercizio di una qualche forma di assistenza fisica (appunto, l’equivalente dell’italiano cura) e all'attività di Health, cioè di "cura medica" vera e propria, ma quest’obbligo non è un vincolo morale o sentimentale - se questo vincolo viene a prodursi è al limite un'illusione indotta nella figura del Sottomesso/a -, bensì un obbligo "istituzionale", cioè un vincolo derivato dal rapporto di dominazione, che è un rapporto ovviamente di subordinazione.
La semplice presentazione dei principi che regolano l’attività dell’Aftercare rivela come la sua azione sia intrinsecamente diretta alla manipolazione della sfera emotiva; un’azione che fa leva più sul sistema di gesti, cioè sulla codificazione gestuale, ascritto alla realtà degli affetti e dei sentimenti, anziché sul sentimento vero e proprio. Questo formalismo gestuale descrive quindi, non solo regole e norme, ma il piano stesso su cui si definisce la relazione stessa tra il Master ed il Sottomesso/a, una dimensione configurata più dal rigore raziocinante, da una regia sapientemente realizzata dal Master, che una spontanea emozionalità da parte del Dominatore. E tuttavia, il ricorso a quel codice di affettività introduce l’illusione, suggerisce al Sottomesso/a che dietro la convenienza razionale del gesto vi sia sentimento, addirittura amore.
La normativa dell’Aftercare si compone di questi principi generali, che di fatto nella pratica possono essere numericamente di più o variare il loro numero a seconda delle esigenze determinate nell’ambito del rapporto BDSM.

1.        coccole e conforto
2.        lozione lenitiva
3.        un buon drink.

L’intera attività dell’Aftercare nei fatti viene configurata da questi tre principi generali e il modo di gestirli definisce la qualità del rapporto BDSM, in linea generale l’attività risulta efficiente se è adeguatamente alternata a ciò che viene indicato con l’espressione "Cool Down", e nonostante la forte stretta subordinativa che l’attività realizza a danno del Sottomesso/a, tanto che quest’ultimo ne risulta soggiogato, custodito, dipendente, l’attività prevede sistemicamente di garantire e lasciare alla vittima un suo spazio, una specie di libertà di movimento che illude sulla paritarietà del rapporto, se non peggio ad un masochismo rovesciato, i cui limiti sono apparentemente descritti dal Sottomesso, ma in realtà vengono preventivamente definiti dallo stesso Dominatore. L’Aftercare è una attività che esige di non sottovalutare l’oggetto della propria dominazione, soprattutto in quegli aspetti intimi che possono fare la differenza sul controllo della volontà, dell’immaginario, delle attitudini spirituali.
Il sistema del Cool Down prevede dunque,

·         petting gentile e/o piacere
·         angolo tranquillo
·         breve pisolino

L'Aftercare integra e rafforza il legame di dipendenza (Dominazione) soprattutto affettiva ed emotiva del Sottomesso/a che è alla base della stessa relazione di Dominazione. Molte attività del BDSM, più o meno collegate alla Dominazione maschile e/o femminile (Maledom e Femdom), quali il bondage, le punizioni (spanking), le umiliazioni pubbliche, l’oggettivizzazione, la mummificazione, le costrizioni, le sevizie corporali e psicologiche, la marchiatura, la femminizzazione sono attualmente impensabili, senza un’adeguata e mirata attività di Aftercare, ovviamente tesa a plagiare l’anima dello Slave senza che tutto questo appaia una gratuita ed ingiusta lesa di dignità individuale: la condivisione emotiva non è uno scopo dell’attività, ma può divenire uno strumento, più o meno valido, per creare complicità, intimità, dominio e subordinazione.
Conclusione: E' una pratica di grande interesse, perché rivela l'attitudine ed il potere del BDSM di condizionare quella sfera dell'essere umano che in una certa rappresentazione diffusa s’intende sottratta ad una regolamentazione di tipo razionale, ergo protocollare. La stessa cultura post-romantica, gotica e neo-decadente dei nostri tempi perviene molto facilmente alla idea che l’amore ed il sentimento siano sfere immuni da qualsivoglia forme di colonizzazione razionale ed ogni tentativo di intervenire su di essi è descritto come un abuso ed una violenza gratuita certamente, ma espressione di un’arcaicità intollerabile. Ecco, l’attività dell'Aftercare impone una radicale riflessione in merito a queste convinzioni, non solo perché come la sfera erotica ha dimostrato di subire colonizzazioni di tipo ideologico e dominante, anche la stessa realtà affettiva subisce questo stesso processo di colonizzazione ideologico, che non è solo culturale, spesso amplificato proprio dalla formazione e dalla educazione. In questo caso, infatti, cambia la sfera che è quella del privato, spesso del rapporto di coppia e per tale ragione può facilmente confondersi con quello equilibrio di coppia o con la struttura dei rapporti (finanche degli stessi nuclei familiari: psicologia di gruppo) che i due partner compongono tra loro.
 (Porto Empedocle, 15 settembre 2019)






giovedì 28 marzo 2019

Citazione #1 - Il ruolo della peste manzoniana nell'opposizione segno-nome


Qualcuno vede per la prima volta un bubbone. Qui il significante dovrebbe richiamare, per forza di assodata tradizione sintomatologica, il suo significato proprio. Ma del bubbone, visto da pochi, i molti ne odono solo parlare. Gli editti fanno confusione verbale. Le notizie arrivano in modo insufficiente.
Inizia qui un processo che un epistemologo attribuirebbe all'intrinseca debolezza di ogni metodo induttivo (quanti casi sono necessari a giustificare la formulazione di una legge?), ma che di fatto mette in gioco un'insicurezza retorica, una perplessità su quanto una parte debba essere consistente onde rappresentare per sineddoche il tutto, o evidente un effetto per esser buona metonimia della sua causa. In ogni caso, di fronte all'incertezza circa i sintomi, i medici hanno pronto un buon artificio verbale. Attribuiscono ai sintomi imprecisi "nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare, con un qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso". L'opposizione tra sintomi-segni e nomi è evidente. Il significato visivo e naturale viene occultato da un significante verbale che ne impedisce il riconoscimento.
Ci sono uomini che tuttavia sanno " veder" venire avanti il flagello. E sono marchiati col "nome" di nemici della patria.
Scatta a questo punto una sorta di nuova figura retorica, che articola l'universo della semiosi naturale. La morte di persone note (per antonomasia) diventa più convincente delle morti già sapute. In qualche modo ciò che era stato "detto" ora viene obbligatoriamente "visto", se non altro sotto la forma di un'assenza vistosa.
" Nell'ora del maggior concorso in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cavalieri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, su un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. La peste fu più creduta".

                 da "Il linguaggio mendace in Manzoni" in Umberto Eco, Tra menzogna e ironia, 2016 RCS MediaGroup S.p.A., Milano, pp.47-8.

venerdì 22 febbraio 2019

Sulla divisione euclidea come metafora della mentalità capitalistica

#Rubricando
[Provo a giocare con alcune nozioni di matematica, mettendo in rilievo le affinità, le implicazioni e le varie conseguenze sul piano filosofico. Un modo forse, che ripristina quell’antico legame epistemologico che la teoria filosofica contemporanea sembra non voler ricordare o accettare chissà, oppure che vuole confinare (e non ha tutti i torti) esclusivamente alla dimensione della scienza.
Insomma, un altro modo di giocare e forse di ragionare.]

Risultato immagine per world trade center
New York City con sullo sfondo la nuova torre del World Trade Center.



Sulla divisione euclidea come metafora della mentalità capitalistica

  Ecco questa piccola operazione elementare, 30 diviso 7 uguale 4 con resto di 2. Beh, sono o non sono un grande capitalista?
  La contemporaneità ha ampiamente codificato il concetto di “capitalismo”, fissando l’idea vera che il sistema economico del capitalismo sia una struttura materiale (e giuridica da quando si è imposta l’economia mista) incentrata sull’accumulo del capitale e sulla definizione della proprietà privata, soprattutto dei mezzi di produzione, tanto che per capitalismo non pensiamo più al modo di cumulazione delle risorse, ma al netto accentramento in mani limitate degli stessi mezzi di produzione. Possesso tutelato appunto dall’istituto della proprietà privata.
  Una visione del capitalismo interessata ovviamente, ma intrinsecamente corretta, perché oggi essere o non essere capitalisti dipende esclusivamente non tanto dal possesso “materiale” di una rendita o proprietà (oggi cartolarizzata e facilmente vaporizzata dai movimenti finanziari globali), ma dal possesso privato o partecipato (cfr. l’istituto della cooperativa) di un qualche mezzo di produzione, fosse anche qualche esiguo attrezzo di lavoro. Per tale ragione, la via intrapresa negli ultimi decenni dalle economie mondiali (almeno quelle più ricche) di una diaspora della proprietà privata (intesa appunto come istituto giuridico) è sì uno effetto dell’eccessiva finanziarizzazione delle economie locali (qualcuno dirà “economie reali” o “regionali”), ma un evidente segno del mutamento del sistema capitalistico, più camaleontico di quel che alcune storiche figure del comunismo contemporaneo pensavano e così facendo rinnovandosi continuamente ed in fondo senza un preciso scopo, tranne quello vitalistico di sopravvivere, come l’essere umano.
  Tuttavia, alcune stagioni culturali passate, precisamente a cavallo tra il XIX secolo ed il XX secolo inizia una ampia riflessione sulla natura del capitalismo (in realtà, già iniziata con la filosofia sociale degli utopisti socialisti e poi dal materialismo storico marxista) e soprattutto sulla sua origine. Alcuni saggisti tra cui il filosofo e saggista e antropologo Georges Bataille, riferendosi in particolare alle culture arcaiche dell’America precolombiana, pensa che alle origini del capitalismo vi siano i riti del potlatch, incentrati sul dispendio o sullo spreco delle risorse accumulate e sottoposte a riti di mera distruzione in quanto offerta votiva al proprio pantheon religioso. Il tema del dono e del sacrificio (umano in particolare), ancora legati ad una mentalità primitiva, istruiscono un sistema sociale che è anzitutto culturale e solo in seguito economico, almeno nel modo in cui intendiamo noi oggi la parola “economia”.

Risultato immagine per georges bataille

  In questo scenario è del tutto evidente che la matrice pre-capitalistica sia proprio ciò che un certo pensiero anticapitalista denuncia (antiglobalismo socialista), appunto lo spreco e l’insensata distruzione delle esigue risorse naturalistiche ed economiche. Ed in un certo senso è vero, ma è un’interpretazione che mira ad addossare troppo facilmente al capitalismo gli effetti di una condotta tipicamente umana e che consiste appunto nella distruzione: la civiltà umana è progredita proprio inseguendo il suo istinto predatorio e ademico producendo o esasperando da un lato tutte le contraddizioni che derivano da questo istinto e dall’altro lato risolvendo tramite un esasperato sviluppo tecnologico i problemi da essa innescati. Tuttavia, in questa corsa verso l’autodistruzione l’intervento del capitalismo è quello tuttosommato di un regolatore e di un metodo razionale di condotta e di istituzione del rapporto umano con l’ambiente e la natura.
  In tal senso, l’azione capitalistica di accumulazione di un capitale non è solo la famelica insaziabilità umana - certo, anche questo -, ma è anche il tentativo credo in buona parte riuscito di preservare dallo spreco quella quantità estratta dall’uso delle risorse e che è stato oggetto dell’azione distruttrice dei riti di fecondità indicati da Bataille. In ciò la semplice divisione euclidea può considerarsi un monito e forse la miglior prova della evoluzione della civiltà umana.
  Per divisione euclidea intendo ovviamente la semplice operazione aritmetica che i vari maestri di scuola elementare insegnano ai bambini. È noto cosa sia la divisione, meno consueto è guardare a questa operazione aritmetica come lo schema di un algoritmo, cioè l’insieme di alcune operazioni con le quali mettere in relazione due quantità. Infatti, la divisione di 30 monete per 7 persone produce un quoziente di 4 monete ed un resto di 2 monete. Ciò significa che delle 30 monete totali in mio possesso solo 4 di esse spetterà a testa alle 7 persone o bambini a cui le distribuisco. Tuttavia, di quel totale di monete solo 2 rimangono indivise, a meno che utilizzassi i centesimi ed iniziassi una distribuzione anche dei vari centesimi: è una idea, ci penserò..
  Il nostro argomento comunque vuole focalizzarsi sul destino delle 2 monete non distribuite. Infatti, se io volessi privarmene la teoria matematica antica mi offriva due possibilità:
  1. implementare le monete totali in modo che all’atto della divisione il quoziente risulti più alto ed in ogni caso senza che sia prodotto alcun resto;
  2. cumulare o distruggere le 2 monete rimaste, perché le quote decimali diventano rilevanti, cioè significative solo se diventano grandezze intere.


  L’accumulazione, o per usare una terminologia più politicamente corretta il risparmio, può intendersi proprio come la difesa culturale prima e giuridica poi, appunto di questa quantità, cioè del resto di una semplice divisione aritmetica. Infatti, il modo in cui una intelligenza è capace di trattare quantità descrive idealmente anche l’evoluzione o il progresso culturale e materiale compiuto. Nel momento in cui l’essere umano comprende che la quantità per quanto piccola possa essere non è necessariamente sprecabile (tranne ovviamente nella misura in cui si accetta lo spreco come uno stile di vita: è l’idea di Bataille), ecco che cambia anche il modo in cui si può operare su queste quantità. La divisione euclidea non tiene conto del fatto di poter dividere ulteriormente le quantità in unità più piccole - si chiama fattorizzazione -, tuttavia rivela un problema che è anzitutto aritmetico, ma che diventa una sorta di metafora filosofica con la quale leggere un certo sviluppo della storia umana.
  In questa linea storica grande interesse avrà la scoperta di classi numeriche diverse da quella degli interi a.e., l’invenzione di una metodologia di calcolo che permetta di operare su intervalli numerici addirittura più piccoli degli interi e così via. L’aritmetica elementare insomma, per quanto semplice possa apparire, può essere un valido modo per stimolare a ragionare in modo rovesciato ed in fondo, abituare noi tutti ad un pensiero arroccato sulle sue posizioni consuete.

sabato 26 gennaio 2019

Su fine della storia, Postmodernismo e tatuaggio

Tatuaggio utilizzato tra le popolazioni del Borneo (immagine tratta da www.riflessioni.it di Tiziana Ciavardini)

   L'approccio storicistico della nostra epoca guarda molti dei fenomeni della contemporaneità in un rapporto di continuità storica e semantica, credendo che le fratture temporali siano solo un momento riassumibile nelle varie categorie storiche; insomma momenti di varietà rispetto ad una linea ben precisa e ben determinata.
   Sì, in effetti lo sguardo retrospettivo conferisce agli eventi questa natura temporale. Se poi si fa coincidere questa natura con la struttura narrativa dei ricordi e della memoria, allora è del tutto evidente che la storia dell'uomo è veramente una lunga cavalcata verso la civiltà, il progresso, la scienza ed il benessere, mentre le guerre, le pestilenze e le crisi siano semplici incidenti lungo questo fulgido cammino.
   Si può credere a questo paradigma; lo si può accettare come verità rivelata, soprattutto se come pensava #AlessandroManzoni la storia fosse l'espressione umana della provvidenza divina e quindi, espressione in un certo senso di una razionalità sovrannaturale, tuttavia la via alla civiltà, anzi questa via umana, troppo umana, che è la civiltà è un percorso più accidentato, meno determinato di quel che si creda, anche se si possono fissare come valori assoluti scopi e finalità universali e sovrastoriche. Una via da cui non è esclusa anche la fine, come ci raccontano provocatoriamente alcune pubblicazioni dello storico statunitense #FrancisFukuyama. Una fine che solo nel pensiero benpensante ha i toni dell'Apocalisse, ma del tutto possibile e soprattutto inevitabilmente ciclica: come i calendari maya o come il #bigbang dell'Universo, chissà.
   Fine della storia e continuità storica del passato non sono polarità di una contraddizione irrisolvibile, almeno per la nostra epoca che ha conosciuto il #Postmodernismo, la fine delle Grandi Narrazioni e lo sfaldamento della nostra Storia in tante, tantissime piccole storie; meglio, in storie dall'estensione limitata e dall'influenza confinata ai fatti di una quotidianità intima e privata, in ogni caso in un ordine di grandezza del tutto estraneo ai criteri della macrostoria dei popoli, delle nazioni, della politica. Insomma, dell'io collettivo riconvertitosi in un "noi" con l'annessa ontologia sociale. La distruzione, o come sostiene la filosofia di #JaquesDerrida la decostruzione della storia, della sua immagine in particolare in quanto metafora estetica di un senso di appartenenza adulterato non ha comportato la fine della storia, né materialmente, né concettualmente, visto che ancora adesso dissertiamo di storia (e non so con quanta legittimità!), ragioniamo sugli eventi di cronaca ricorrendo alle grandi categorie storiche e via dicendo. Tuttavia, la stagione postmodernista non è passata inutilmente tra le pieghe della cultura europea, tanto che in fondo alcune utopie borghesiane di un sapere definitivo, di biblioteche sterminate sono a loro modo un prodotto della bordata lanciata dagli anni Settanta all'illusione della compiutezza dell'essere, amplificando rendendolo più distruttivo quel relativismo già impostosi con l'epistemologia scientifica.
   Accorgersi di vivere in una complessità relativa è sconvolgente certo, ce lo dice chiaramente la dura reazione del pensiero cattolico su questi temi, ma sul piano morale questa presa di coscienza si traduce in un'accorgersi che la libertà dell'uomo non si configura solo come libero arbitrio tra bene e male, ma soprattutto come un faticoso esercizio di chiarezza e definizione, assolutamente incerto, rischioso e probabilistico degli obiettivi per cui la volontà agisce, per cui esiste un'azione. Diceva bene #MartinHeidegger quando ragionava sull'azione nei termini di una negatività irriducibile all'essenza positiva dell'essere, di quella verità intima da esplicitare ermeneuticamente, ma è quanto diceva lo stesso #Hegel nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche, cioè il negativo come un fatto esterno ed estraneo alla normatività soggettiva dello spirito, quindi indomabile ed incerto: la presupposizione diventerà in filosofia come in morale una strategia piuttosto che un principio, un contenuto che deve trovare dati ed elementi di conferma e che deve verificarsi di volta in volta.
   Ciò detto, appare a volte semplicistico, antirazionalistico ed indulgentemente inattuale la convinzione di avere o di cercare un nuovo realismo nella descrizione di arcaici sistemi antropologici e di semantiche primitive. Un'idea che sfocia nel fanatismo ideologico, anche se comprensibilmente correlato alle attuali costruzioni ideologiche, che sottolinea una necessità, quasi un bisogno insopprimibile e soprattutto un'urgenza di orientamento: fanatismo indotto, compatibile con il pensiero sociale (di ogni colore) dominante, con quella logica marxistica di dominio culturale delle elités di potere. In questo scenario ogni fatto di costume assume sfumature cromatiche più o meno intense nella misura in cui alcune delle sue strutture di senso reagiscono virulmente in certe situazioni che ne catalizzano l'azione. Ciò vale per la religione, per il terrorismo, per l'economia, come per il costume di una società.
   La pratica del tatuaggio, diffusa ormai da diversi anni, è un residuo, un lascito di una contemporaneità anarchica ed intellettualmente autarchica anziché una forma di resistenza culturale come molti si ostinano a presentarla, a descriverla. Una resistenza, se mai lo è, che ha ampiamente rielaborato il proprio naturale universo di riferimenti, quella che i linguistici definiscono come semantica e ripropone forme arcaiche che chissà come a causa della storia e della memoria storica ha attraversato il tempo per fissare concetti, idee o semplicemente dei gusti sociali in un contesto umano differente, che non riconosce (né vuole farlo) tutte le antiche conseguenze ed implicazioni istituzionali che rappresentano: tatuaggi come segni di un rito di passaggio, di una commemorazione dall'alto valore sociale, di una condanna pubblica e via dicendo. Per le ragioni che l'antropologia ci descrive è molto difficile accettare il riuso o riattualizzazione di questa pratica, visto che oggi quelle forme veicolano sensi opposti ed in buona parte incompatibili con il paesaggio umano che li ha definiti, utilizzati, imposti.
   A tal riguardo, una riflessione estetica ci aiuta a cancellare la costruzione metaforica che letteratura e storia ci offrono degli eventi umani, per ragioni di necessaria ricostruzione ideologica del passato, per agevolare noi stessi nel decidere e nell'agire ovviamente. E per quanto riguarda la pratica tatuistica che il costume odierno ha dato una sua ordinaria dignità ha un valore se il realismo che sottende non è quello di una civiltà sopravvissuta, ma quella di una civiltà, quella attuale, di ritrovarsi in uno specchio mendace, ma che ci racconta di continuità e di resistenze culturali, sol perché rivogliamo avere nuovamente l'antica fiducia metafisica di rappresentare la realtà circostante in uno schema teleologico e indirizzato verso il meglio (ottimismo progressista).
   La pratica del tatuaggio può rinviare nello specifico al #bodypainting, per via soprattutto di voler "disegnare" sul proprio corpo segni, simboli o semplici forme. Tuttavia, gli esiti concettuali a cui si approda con questa pratica del tatuaggio ha un valore meno giocoso e non propriamente "decorativistico". E' il tentativo di intercettare nella cultura quegli elementi di stabilità che inscrivono tutto il proprio essere dentro un sistema di riferimento, in un universo di significati codificato e che rende la nostra stessa esistenza meno alla deriva di quanto in effetti sia o di come è stata definita dalla filosofia.
24 gennaio 2019