lunedì 8 giugno 2020

Sulla simmetria tra Martin Gardner ed Umberto Eco

Ci sarà certamente, qualcuno che leggerà queste righe che avrà confidenza con alcune applicazioni presenti in molti smartphone attuali, soprattutto con quelle che hanno funzioni di editing fotografico e video. Nel mio smartphone a.e., posso aggiungere alcuni effetti visivi (maschere video per lo più) che vanno a sovrainscriversi alla mia immagine, per cui a seconda della maschera scelta sembro uno zombie oppure una renna, in ogni caso produco un’immagine che non è la mia rappresentazione ordinaria. Nelle piattaforme social come IG è possibile applicare nelle Stories del proprio profilo un effetto deformante, molto simile all’effetto che ho appena indicato e che hanno la struttura delle immagini degli specchi deformanti, per cui il profilo del volto viene deformato a tal punto che si ottengono risultati divertenti – almeno molti li utilizzano in questa funzione – e per impersonare (per gioco) qualcosa o qualcuno che non si è effettivamente. In altri termini, si creano o si vogliono creare illusioni, in questo caso virtuali e quindi, per definizione irreali ed inesistenti.

La storia della filosofia ci consegna un costante pregiudizio sulle forme illusorie, dettato per lo più da uno scetticismo diffuso sulle capacità degli strumenti di rappresentazione umana nel descrivere in modo coerente ed adeguato la realtà empirica. Uno scetticismo che viene risolto rinviando a strutture immateriali ed astratte le ragioni del divenire degli enti, delle contraddizioni apparenti della realtà, del corso lineare del tempo e via dicendo. Una storia che è più che altro il racconto dello sforzo del pensiero a dare coerenza alle proprie formulazioni che non un’effettiva costruzione della realtà empirica, la quale rimane “indifferente” alla stessa attività gnoseologica umana. E tuttavia, esistono situazioni empiriche e forme reali che contraddicono sovente la struttura del pensiero, ne rivelano limiti e aporie, ma soprattutto confermano ciò che i filosofi di epoca medievale affermavano risolutamente, cioè che la conoscenza assoluta è il limite massimo dell’attività del pensiero, un limite a cui ci si può approssimare, ma mai raggiungere in quanto gli strumenti di conoscenza umani sono de iure difettivi ed insufficienti: di qui, l’affermazione sostenuta da alcuni come Nicola de’ Cusa di rivolgerci non al sapere, ma alla sapienza, ma questa è un’altra storia.

Un capitolo interessante della matematica ricreativa riguarda appunto, le «illusioni ottiche», cioè «immagini, oggetti o eventi che non sono in realtà come appaiono alla percezione umana»,[i] che compongono una categoria assortita di situazioni e forme che si collocano chiaramente entro lo spazio intuitivo, ma che hanno il gusto di contraddire molte delle convinzioni logiche e gnoseologiche che proprio la filosofia ha formulato e diffuso come sapere fondamentale acquisito. Ora. l’effetto che provocano le illusioni è sempre scandaloso, ma nella fase di civiltà attuale lo è ancora, seppur in un ordine epistemologico molto diverso da quello che ha dominato le passate generazioni. Si tenga conto che la svolta empiristica imposta dalla filosofia moderna, soprattutto con l’adozione del metodo sperimentale colloca ogni ragionamento filosofico entro un preciso orizzonte che è quello materiale della sensibilità, ritenuta fonte principale delle conoscenza fisiche e non solo. Un cambio di pensiero epocale determinato dalla crisi dell’antico modello realistico incentrato su sistemi astratti e su teorie che mal si accordavano con i fenomeni empirici: di qui, la riconosciuta prevalenza dell’empiria sull’astrazione la quale viene demandata solo ai fatti psicologici, ai fatti della morale ed in qualche caso a quelli del diritto e della cultura in genere. E tuttavia, l’antico modulo deduttivo era sì una modellizzazione teorica dell’astratto e dell’invisibile, ma traeva dall’empiria la materia bruta da trattare e che il concetto o l’idea spiegava, organizzava e selezionava. In virtù di questo modello ogni evento che non potesse incasellarsi adeguatamente entro questi schemi di ragionamento (vedasi la logica aristotelica) era irrilevante, oppure inesistente, quindi falso e appunto illusorio, come gli effetti video sopra indicati. 

La metafisica filosofica viene elaborata dai filosofi per risolvere appunto, le contraddizioni derivanti dalla relazione che l’uomo intrattiene con la realtà, ma le recenti scoperte sperimentali ripropongono e confermano che la struttura microscopica di questa stessa realtà induce su queste contraddizioni ed apparenze, rendendolo non un fatto bizzarro del pensiero, ma la forma stessa che esteriorizza la natura discreta della materia (basti pensare alla parità delle particelle). Insomma, le illusioni ottiche come negli effetti menzionati non rinviano ad una struttura materiale e discreta differente da quella che caratterizza, per così dire, le immagini vere, quelle che i sensi ci descrivono come il piano ontologico ed empirico della realtà. Si consideri a.e., la figura qui riprodotta che mostra il «monumento indeciso» di Roger Hayward, oppure lo «specchio magico» dell’incisore e grafico olandese Maurits C. Escher o qualsiasi altro artista dell’Optical Art, ma anche gli ipercubi di Salvador Dalí sono tutte forme che suggeriscono una natura illusoria, cioè una collocazione aliena rispetto alla realtà, tanto che sono diffusamente accettate come divertissement e non come forme direttamente correlate alle strutture profonde della realtà, come in effetti sono.

Visto che le ho menzionate, una categoria diffusa di illusioni visive sono appunto, le riflessioni speculari. Ognuno ha esperienza del fenomeno della riflessione quando si trova dinanzi ad una superficie riflettente, in particolare se questa superficie è uno specchio. Lo specchio è un oggetto che ha avuto una diffusa trattazione negli studi antropologici, soprattutto per il suo significato simbolico che è mutato nel corso della storia umana. In genere, anticamente si credeva che esistesse una qualche relazione magica tra ciò che si riflette e l’immagine riflessa e che il potere dello specchio fosse quello di trattenere l’anima dell’uomo in una dimensione dello invisibile pregiudicandone l’accesso al mondo dell’aldilà. Un significato che rivela l’esistenza di una struttura estranea alla consueta configurazione della realtà nelle sue strutture fondamentali e che, in vari modi, lo si ritrova in tutte le epoche della civiltà umana ed in ogni civiltà (cfr. AA.VV., L’Universale – Simboli, 2004 Garzanti). Ammesso e concesso quest’interpretazione dell’oggetto “specchio” è evidente che le sue proprietà suscitano stupore e meraviglia e suggeriscono come le forme che vengono a configurarsi in esso siano di “altra” natura rispetto alle ordinarie immagini sensibili. Ciò ingenera la convinzione, poi tematizzata in quesiti filosofici veri e propri, che esiste un doppio livello della realtà con rispettive strutture autonome (cultura magica) e che lo specchio abbia una collocazione estranea al piano della percezione ordinaria. Infatti, dinanzi allo specchio si può avere la sensazione che gli elementi che compongono l’immagine riflessa appaiono ribaltati, se non rovesciati rispetto alla visione diretta di cui normalmente si ha dell’oggetto e/o dell’essere che si specchia. Martin Gardner nel suo Enigmi e giochi matematici (ed.it.: 2014) ricorda l’interrogativo di Immanuel Kant sulle immagini allo specchio: il filosofo settecentesco avvertiva chiaramente che l’immagine riflessa contenesse in sé una ambiguità formale, di cui coglieva anche la natura aporetica, perché la mano riflessa sullo specchio era sì la propria mano e tuttavia non era la stessa mano, in quanto la mano destra allo specchio diventava la mano sinistra e viceversa. Prima di Kant, anche Platone nel Timeo e Lucrezio nel De rerum natura citavano gli effetti sbalorditivi degli specchi di forma concava; infatti, piegando una superficie riflettente con una curvatura leggera, tanto da fargli assumere un profilo concavo, l’immagine riflessa a.e., della mano destra viene restituita con il pollice opponibile a destra (!) e non a sinistra in uno specchio normale. Lo stesso effetto lo si ha se si incrociano due superfici riflettenti.

Questi effetti stupiscono perché contraddicono (apparentemente) la convinzione ordinaria relativa alla natura simmetrica delle immagini sensibili, una convinzione che deriva dal fatto che si “assolutizza” inevitabilmente la dimensione ordinaria che viene registrata dai sensi, in quanto la viviamo direttamente in prima persona, per cui l’utilizzo di un oggetto come lo specchio può disorientare perché introduce nel rapporto consueto con la realtà dimensioni ulteriori, cioè delle variazioni, che sconvolgono i normali assunti del nostro pensiero. Es., se in un grafico vettoriale sommo una serie di vettori tutti uguali tramite la tecnica del punta-coda si dirà che l’andamento per cui si avrà il vettore somma è costante, cioè simmetrico, perché i segmenti sono tutti uguali. Se però, i vettori hanno una lunghezza diversa ed accosto un vettore ad uno più lungo, si avrà la percezione che l’andamento della somma non è costante, ma vario, dunque asimmetrico. Ciò accade perché l’unità di riferimento della lunghezza dei vettori non è uguale per tutti e questa disuguaglianza ingenera l’idea che la forma non sia simmetrica, che non sia proporzionale, che non sia regolare. Insomma, che la forma si mostra “diversa” da quella che dovrebbe essere o che ci si attenda che debba essere: non è somigliante. Ora, esistono varie forme che inducono a questo tipo di ragionamenti e a seconda dei casi stupisce il fatto che non si realizzi la simmetria formale, oppure che la si realizzi come nel caso delle parole palindrome o dei numeri palindromi. Sul piano culturale e filosofico questo genere di situazioni ingenerano il concetto di illusione, di miraggio visivo e di mendacità.

Nel suo libro del 1964, L’Universo ambidestro, pubblicato in Italia da Zanichelli nel 1984 Gardner compie una rassegna delle varie forme di simmetria che possono trovarsi in natura ad ogni livello di realtà, cioè dal piano macroscopico a quello particellare. L’argomentazione di Gardner consiste essenzialmente nel rivelare come, contrariamente alla vulgata relativa alla bizarrìa formale legata alle immagini speculari e alla simmetria, tutte queste forme fanno riferimento ad un’unica struttura e che l’ambiguità che deriva dallo straniamento che si prova è solo un fatto legato ai sistemi convenzionali della cultura, degli strumenti di rappresentazione e via dicendo. A riguardo, esemplificativo è la convenzionalità legata al privilegiare la scrittura da sinistra a destra e l’uso della mano destra, anziché scrivere con l’orientamento inverso (da destra verso sinistra) o l’uso della mano sinistra. Alla base dell’argomento di Gardner vi è il concetto delle «enantiomorfe», cioè di quelle forme che esibiscono in natura una propria forma speculare, da cui differisce solo per l’orientamento spaziale o per la disposizione di alcuni componenti: questo tipo di ragionamento si appoggia su un’idea di simmetria che non è da confondersi con l’equivalente formulato dalla comunicazione ordinaria. La simmetria enantiomorfa è un ordine molto diffuso in natura, lo si ritrova a vari livelli e configurato variabilmente negli eventi fisici e naturali in genere (es. in biologia molecolare la combinazione delle basi azotate che compongono il DNA cellulare si configura secondo un ordine simmetrico).

Il fine perseguito da Gardner è quello di rivelare che ad un’attenta analisi epistemologica di alcuni eventi legati alla simmetria è possibile dimostrare l’irrilevanza di alcuni concetti ben presenti nel sistema culturale filosofico come appunto quello di illusione ottica o di miraggio, nel senso che in termini scientifici il fatto che esista o possa esistere una variabilità percepita come non convenzionale ed inusuale non autorizza a discriminare questa varietà come illusoria o priva di significato, perché questo giudizio deriva da alcune convenzioni assunte come linee guida con cui regolare il rapporto ordinario con la realtà (orientamento). Questa convenzionalità influisce, spesso in modo ambiguo e negativamente, nella comunicazione ordinaria e scientifica dei fatti che si vogliono chiarire e spiegare. Ciò coinvolge una parte della storia della filosofia, che proprio su come poter formulare affermazioni oggettive e dal valore universale si è interrogata spesso. A tal riguardo, Gardner indica un tema, quello dell’incomunicabilità a culture aliene di forme, simboli e concetti basati sulla nostra ordinaria formulazione di simmetria. Nel capitolo 18 del libro sopra citato dal titolo «Il problema di Ozma» offre la descrizione di una situazione ipotetica, ma concretamente possibile, cioè se sia possibile interloquire con una civiltà extraterrestre ricorrendo non solo a sistemi di rappresentazioni eterogenei, se non incompatibili, ma facendo riferimento anche ad un apparato concettuale che utilizzi l’ordinario tema (intuitivo) della simmetria che ricorre nella comunicazione scientifica umana. La risposta di Gardner è abbastanza netta, ciò non può realizzarsi, a meno che si raggiunga un’intesa di senso tra la civiltà umana e l’eventuale civiltà extraterrestre su cosa e come intendere la relazione simmetrica.

Questo tema trova interesse in occasione del programma spaziale della NASA Pioneer, cioè durante quella serie di missioni spaziali realizzate per l’esplorazione del sistema solare. Di questo programma due sono le missioni che pongono questa questione (cfr. placche d’oro), quelle relative alle sonde Pioneer 10 e Pioneer 11, l’una indirizzata rispettivamente verso Giove e l’altra verso Saturno.[ii]   

Nel 1972 infatti, viene lanciato nello spazio la sonda Pioneer 10 con la missione di raccogliere dati durante il passaggio orbitale intorno a Giove. Missione che viene compiuta il 6 novembre 1973 con l’invio a Terra di alcune fotografie del pianeta. Assolto questo compito la sonda venne fatta uscire dal sistema solare utilizzando la velocità di fuga del pianeta.[iii] A bordo della sonda è stata collocata una placca commemorativa in alluminio anodizzato ed oro sulla cui superficie sono stati scolpiti dei simboli; lo scopo è di trasformare la sonda in un messaggero spaziale nel caso in cui il dispositivo fosse intercettato da qualche civiltà extraterrestre.[iv] L’iniziativa viene ripetuta con un’altra sonda, il Pioneer 11 (1973). Ma è nel 1977 che il tentativo di impostare un vero e proprio contatto extraterrestre trova realizzazione in uno specifico programma spaziale, quello relativo alla sonda Voyager, che contiene al suo interno il Voyager Golden Record, un disco che contiene suoni e filmati. Ai fini del discorso che si sta facendo, la scelta del simbolismo delle placche Pioneer è di un certo interesse, perché:

  1. nell’angolo superiore sinistro viene rappresentato in forma di schema la “Transizione iperfine per inversione di spin” dell’idrogeno neutro. In questo schema sono contenute alcune informazioni ritenute “assolute”, vale a dire il valore dello spin elettronico, in questo caso dell’idrogeno neutro, che è una situazione sperimentale comune a livello di struttura fondamentale della materia; inoltre, lo spin in questione descrive una lunghezza d’onda di 21 cm e contemporaneamente una frequenza di 1420 MHz, con periodo di 0,7 ns: misure valide indipendentemente dal sistema di rappresentazione utilizzato e dalle convenzioni adottate.
  2. Sul lato destro sono invece, rappresentati un uomo e una donna. Reca alcuni numeri in sistema binario con i quali si riportano alcuni dati fisici (in questo caso altezza e peso): l’altezza descritta dalla donna è 168 cm, rappresentata dalla moltiplicazione di 8 x 21 cm, cioè come la moltiplicazione della lunghezza d’onda della transizione iperfine dell’idrogeno ed il numero binario 8 – tra l’altro riportato in calce con un errore (?!). La mano destra dell’uomo è alzata in segno di saluto, ma ha anche lo scopo di mostrare il pollice opponibile di una mano umana. Entrambe le figure sono rappresentate nude per mostrare l’anatomia completa delle due figure.
  3. Sempre a sinistra della placca vengono mostrate 15 linee. Di esse, 14 descrivono in sistema binario il periodo di una pulsar, valore con il quale poter determinare anche l’epoca in cui è stato effettuato il lancio della sonda. Ma il valore riportato dalle linee descrive la lunghezza tra il Sole e le pulsar. Infine, ogni linea riporta un simbolo Z, con il quale si indica le coordinate perpendicolare del piano galattico. La 15° linea attraversa alle spalle delle due figure la placca e rappresenta la distanza che intercorre tra il Sole ed il centro della galassia.
  4. Alla base della placca viene descritta la traiettoria della sonda Pioneer: vi è indicata la sua iniziale destinazione, il pianeta Giove, e poi la sua uscita dal sistema solare. Il numero binario presente in ogni pianeta indica la distanza dello stesso dal Sole ed è pari a 1/10 dell’orbita di Mercurio. C’è da dire che la rappresentazione del sistema solare è incompleta, perché la scoperta di Urano e Nettuno è successiva all’iniziativa. Plutone, all’epoca veniva ancora considerato un pianeta, classificazione che nel 2006 la IAU cambiò in pianetino[v] e poi nel 2008 in plutoide[vi].
  5. Dietro le due figure di uomo e donna c’è la descrizione stilizzata del contorno della navicella: serve per dare un riferimento di scala per poter determinare l’effettiva altezza degli esseri umani.

Le placche delle due sonde Pioneer sono simili, seppur con qualche differenza di dettaglio, che rende quella di Pioneer 11 meno precisa, ma Pioneer 11 venne dirottata verso Saturno e la sua uscita dal sistema solare si realizza in quella regione di spazio: in ogni caso, la variazione dell’iniziativa spaziale non è riportata sulle due placche.

Ricordare quest’iniziativa spaziale è per mettere in chiaro il tema posto da Gardner. Le informazioni che il disegno della NASA ha voluto fornire nell’eventualità di un contatto extraterrestre sono tutte impostate su un registro ritenuto assoluto, come appunto le misure della frequenza d’onda dell’idrogeno. Tuttavia, il disegno delle due figure antropiche rivela una difficoltà interpretativa per noi umani non così ovvia, ma potrebbe esserlo per un rappresentante di una civiltà aliena. Il gesto della mano della figura maschile è perfettamente chiaro nel nostro sistema di convenzione grafica e quindi, con un dominio semantico altrettanto preciso nel sistema della comunicazione ordinaria, ma questa convenzionalità potrebbe non essere universale, cioè diffusa ed esportabile oltre la nostra regione cosmica. Il sistema intuitivo a cui l’uomo si appoggia nella definizione delle sue relazioni ambientali e sociali è ciò che descrive le relazione di simmetria e di somiglianza in base ad un codice che universalmente accettato dalla civiltà umana, ma forse non altrettanto da altre civiltà non umane: basti considerare che esistono persone che normalmente non sanno distinguere la destra dalla sinistra, figurarsi tra rappresentanti di civiltà antitetiche, con una storia di civiltà e con sistemi culturali agli antipodi. 

Ora, per Gardner le contraddizioni che insorgono dalla convenzionalità sono superabili se si opera una netta separazione tra la struttura fondamentale della realtà che presiede alla configurazione delle forme simmetriche dai normali processi della comunicazione: un approccio epistemologico radicale, che però ha la funzione di comporre uno spazio disambiguo e non viziato da sovrastrutture intuitive che confondono e che alterano gli esiti dell’osservazione scientifica. Tuttavia, la soluzione gradneriana è chiaramente settoriale e comunque, lascia scoperto il fatto che comunque la si approcci, è innegabile un certo condizionamento delle stesse strutture della comunicazione ordinaria non solo perché entrano in gioco nella composizione dei discorsi scientifici e non, ma anche nella configurazione degli stessi tipi cognitivi, cioè del concetto a cui ci si riferisce quando si fa riferimento proprio a questa struttura fondamentale. L’intervento del linguaggio e della comunicazione non possono eludersi semplicemente separandoli dalla valutazione scientifica dell’evento, occorre trovare una soluzione che sia in grado di congiungere l’attività del sistema percettivo con la capacità effettiva del sistema usato per la sua stessa rappresentazione.

Su questo tema l’unica sponda a cui ci si può appoggiare è quella offerta da Umberto Eco nella sua trattazione delle immagini iconiche proposta nel libro del 1997, Kant e l’ornitorinco.[vii] Del capitolo dedicato alle ipoicone – così chiama le immagini iconiche – mi interessa soltanto una piccola parte, quella cioè relativa agli oggetti protesici, di cui fanno parte sia lo specchio che il cannocchiale. L’intervento su questa categoria di oggetti si definisce dopo aver chiarito alcune posizioni precedentemente tenute dal semiologo nel Trattato di semiotica generale (1975), dove veniva data una definizione di icona come oggetto culturale, nel senso di motivato, prodotto dall’attività semiosica del soggetto: come ogni segno linguistico descritto in quell’opera la prospettiva di Eco all’epoca era quella di considerare la produzione di segni come lo stadio finale di un’attività complessa da parte del soggetto che infine, fissa questo lavorìo nella formulazione del segno appunto. In questo libro invece, la formulazione del segno linguistico è un’attività soggettiva che si determina parallellamente all’attività di configurazione del riferimento da parte del soggetto: mentre il soggetto inizia a configurare nella sua mente il contenuto di ciò che riverserà nella referenza linguistica in termini di significato e di senso, compone anche il segno con il quale rappresentare questa stessa attività. Un cambio non indifferente rispetto a prima e che Eco acquisisce palesando sempre più l’influenza dell’opera di Charles Sanders Pierce, ravvisabile nel concetto dello Oggetto Dinamico.

Dal punto di vista semiologico il tema trattato in precedenza da Gardner confluisce, secondo Eco, nel tema più generale della somiglianza, ma mentre il matematico statunitense si limita a ragionare sulla somiglianza solo in termini di simmetria formale, il semiologo italiano ravvisa anzitutto due diverse formulazioni di somiglianza:

        i.            la prima consiste nella definizione di verosomiglianza, che è poi quella che permette di regolare il rapporto di simmetria formale tra le forme discusso da Gardner.

      ii.            La seconda definizione invece, riguarda la definizione di somiglianza in termini di similitudine, che è de facto la formulazione che il nostro sistema culturale trae dal noto trattato di geometria dell’antico matematico alessandrino Euclide.

Ora, l’aspetto che qui tratto riguarda il tema della verosomiglianza, soprattutto perché nel contestare la vulgata culturale relativa alle illusioni ottiche, intese appunto come forme ed eventi che rispondono ad una struttura diversa da quella che opera normalmente sul piano dell’intuizione sensibile e che Gardner, come si è detto, ricusa. L’argomentazione di Eco afferma come il condizionamento della convenzionalità non sia solo un fatto culturale –mai negato da Gardner –, ma sia anche l’effetto di una specifica attività del soggetto mentre agisce nel configurare il sistema delle relazioni referenziali. Ciò vale sia per la comunicazione ordinaria che per la più specialistica comunicazione scientifica. Su un punto la posizione di Eco converge e prosegue sulla medesima direzione di Gardner, quella di ritenere del tutto inammissibile la convinzione dell’esistenza di una “simmetria inversa” solo perché dinanzi allo specchio si prova la sensazione di “straniamento”, quella stessa che porta ad affermare che la figura riflessa si mostra ai sensi secondo un ordine ed una disposizione “asimmetrica” (!), cioè rovesciata o ribaltata.

«Lo specchio riflette la nostra destra esattamente dov’è la destra e così fa con la sinistra. Siamo noi che ci immedesimiamo con colui che vediamo dentro lo specchio, o che pensiamo sia un altro che ci sta di fronte, e ci stupiamo che porti l’orologio al polso destro (o impugni una spada con la sinistra). Ma noi non siamo quella persona virtuale che sta dentro lo specchio. Basta non “entrare” nello specchio e non si soffre di questa illusione».

(Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco)

Ora, al tema dello specchio Eco ha dedicato alcuni scritti raccolti in un libro del 1985 e di cui riprende la tesi, ma in questa sede viene riformulata e collocata entro un argomento più ampio che riguarda appunto, il tema delle ipoicone. Eco, come Gardner prima di lui, non ritiene che la definizione di un’immagine riflessa allo specchio sia un’illusione, cioè sia una forma prodotta da una qualche alterazione della struttura precettiva dello uomo, ma proprio la conferma che la percezione umana opera secondo una modalità che è perfettamente espressa dallo specchio. Ecco perché il semiologo lo considera un oggetto protesico, in quanto amplifica e non distorce quanto viene configurato dai sensi, in questo caso ottici. Ora, se l’intervento della riflessione non ha nessun valore condizionante, anzi, ciò rivela che le presunte ambiguità che tanto sconvolgevano e stupivano i filosofi di ogni epoca in realtà sono esiti coerenti della struttura della percezione umana e che contribuiscono a chiarire l’attività semiosica del soggetto. A riguardo, è esemplare la vicenda di Galileo Galilei nella descrizione del pianeta Saturno, all’epoca l’ultimo corpo celeste che l’astronomia seicentesca era in grado di osservare.

Lo stato in cui si trova lo scienziato italiano ed in cui affronta l’osservazione del pianeta sono profondamente divergenti da quelli in cui si trova un astronomo attuale e non solo per la differente tecnologia a disposizione. L’attuale «enciclopedia» che compone il sapere medio dell’uomo attuale aiuta decisamente nell’osservazione astronomica del pianeta Saturno, perché è fissata nella mente di ognuno sia il concetto che un’immagine del pianeta (es. le fotografie satellitari); ognuno può giungere ad una descrizione coerente del pianeta ed ad una spiegazione del perché il pianeta si presenti nella forma nota, cioè quella di possedere un anello di asteroidi a livello equatoriale, senza grandi difficoltà e soprattutto senza che ciò allude a fraintendimenti dei dati osservati. Galileo, da questo punto di vista, non è nelle stesse condizioni, anzi; allo scienziato manca anzitutto, il concetto di Saturno, perché non ha avuto alcuna immagine precedente a cui riferirsi nell’effettuare l’osservazione del pianeta con il cannocchiale e quindi non sa, né immagina  che il pianeta sia circondato da un (inatteso) anello di asteroidi: deve sforzarsi e faticare per costruire anzitutto nella sua testa l’immagine di come possa apparire realmente il pianeta, soprattutto perché deve capire e mettere a fuoco ciò che il cannocchiale (l’osservazione diretta) gli sta mostrando.

Eco menziona i tre disegni con cui Galileo cerca di rappresentare il pianeta, disegni che si trovano nel Museo galileiano: 

  1. Un primo disegno è contenuto nelle lettere inviate a Benedetto Castelli, a Belisario Giunti e a Giuliano de’ Medici tutte datate 1610, dove il pianeta viene descritto in mezzo a due piccoli corpi celesti che si presume ruotino intorno al pianeta all’altezza dell’equatore. Ma non sembra molto convinto del disegno.
  2. Nello stesso anno realizza un secondo disegno, come rivela la missiva citata a Giuliano de’ Medici, e nel 1612 appare più convinto rispetto al disegno precedente, come conferma la missiva a Marco Velseri. Questa volta Saturno appare un unico cerchio schiacciato ai poli, quasi a prendere una forma di oliva: sceglie di abbandonare il trisistema e opta per un sistema unitario, anche se elimina qualsiasi riferimento all’esistenza di corpi estranei al pianeta. Il disegno può apparire non solo impreciso, ma anche fuori luogo, in realtà, rispetto al precedente, è più aderente a ciò che lo scienziato osserva nella lente del suo cannocchiale. La linea “ad oliva” del pianeta, a suo modo, coglie e rappresentar la natura ellittica dell’anello di asteroidi.
  3. Il terzo disegno realizzato da Galileo qualche anno dopo e lo si trova nella missiva a Federigo Borromeo del 1616. Questo è più somigliante all’attuale immagine che si possiede del pianeta, infatti il pianeta viene disegnato circondato da un anello vero e proprio di forma ellittica. La qualità del disegno e la sua precisione sono molto alte, perché Galileo individua chiaramente che quell’effetto di disturbo che osserva dal cannocchiale è prodotto dall’intermissione di alcuni corpi estranei che si frappongono tra il pianeta ed il suo cannocchiale; inoltre, coglie la struttura ellittica dell’anello. Tuttavia, per quanto accurato rimangono alcuni dubbi se lo stesso Galileo pensasse all’anello di asteroidi come un unico corpo continuo, oppure, come sembrerebbe dal disegno, due oggetti a forma di semiluna.

Il procedimento che Galileo attiva nel formulare il suo concetto di Saturno non è dissimile da quello che si utilizza nel caso avessimo presente un preciso modello di riferimento, vale a dire un prototipo in base al quale costruire l’oggetto ed il riferimento che compone il significato del concetto o della parola “Saturno”. In tal senso, la formulazione di questo concetto non precede il disegno che realizza lo scienziato, ma viene costruito passo passo (in itinere) attraverso il disegno in questione: il disegno non solo fissa ciò che Galileo “vede” con il cannocchiale, ma analizza, impara a vedere, comprende ciò che tramite la lente del cannocchiale osserva con i suoi sensi. È come se costruisse un modello che verifica costantemente con quello “presunto” che gli viene mostrato dall’osservazione diretta (modello percettivo).[viii] Ovviamente, questo lavoro Galileo lo realizza in base all’osservazione tramite il cannocchiale, cioè sul modello dell’immagine che gli si presenta nella lente dello strumento, ecco allora, che la costruzione del suo “concetto” si basa su incerti tentativi di approssimazione che producono una rappresentazione del pianeta Saturno «come dovrebbe essere» e non per come sia realmente. L’immagine del disegno viene costruita secondo criteri metaforici, che tendono ad accordare l’osservazione diretta con eventuali elementi di convenzione grafica in base ai quali stabilire una relazione di somiglianza (simmetria) che sia sì aderente all’oggetto osservato, ma che sia anche equivalente ad esso.

Allo stesso modo la struttura percettiva che presiede al rapporto che intercorre tra il soggetto e la forma che vede riflessa sullo specchio è la stessa che agisce nella costruzione del concetto galileiano del pianeta Saturno, il che vuol dire che decade la presunzione della vulgata filosofica che ritiene le immagini riflesse virtuali e false (cfr. Descartes).

«(…) noi partiamo sempre dal principio che lo specchio dica la verità. Esso non “traduce”, non interpreta, registra ciò che lo colpisce così come lo colpisce. Così ci si fida degli specchi così come ci si fida, in condizioni normali, dei propri organi percettivi. Ci fidiamo degli specchi come ci fidiamo degli occhiali e dei cannocchiali, perché come occhiali e cannocchiali gli specchi sono protesi. Gli specchi (…) ci permettono di guardare là dove l’occhio non può arrivare: ci permettono di guardare il nostro volto, e i nostri occhi, ci permettono di vedere cosa accade dietro le nostre spalle»

(Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco)

Eco ribadisce più volte quest’idea che lo specchio sia una protesi per nulla ingannevole, perché «ci mostra le cose come stanno, anche quando (…) non vorremmo essere come ci vediamo», appunto come succede a chi non accetta il trascorrere del tempo sul suo viso. Tuttavia, lo specchio diventa l’oggetto fraudolento con il quale si producono equivoci, come nel caso di una scenetta dei Fratelli Marx in La guerra lampo dei fratelli Marx (1939), giocati magari sulla conformità dei movimenti tra il soggetto e la sua “immagine” riflessa, ma in questi casi si ha a che fare con immagini doppie.

L’equivoco deriva dalla convinzione di trattare queste forme riflesse come consuete unità semiotiche, cioè come segni, il che vuol dire riconoscere a queste forme lo statuto di «segnali», cioè di segni che indicano qualcosa e quindi operano sul piano della comunicazione appunto, come sostituti del riferito a cui ci si riferisce. Per diventare segno la forma riflessa deve subire un procedimento di modificazione del proprio statuto percettivo che lo rende un segno linguistico.

  • Anzitutto, per essere segno l’immagine riflessa deve essere distinta e distinguibile da ciò che la rappresenta, cioè dal segno, ma così non è, perché lo specchio rinvia un’immagine doppia del soggetto e non qualcosa altro (la coerenza formale è data dal fatto che si ottiene la stessa forma se la si osservasse dall’esterno).
  • A questa segue una modificazione virtuale della forma, vale a dire che la forma deve materialmente essere altra cosa dall’oggetto a cui si riferisce, ma anche in questo caso non lo è, perché l’unico cambiamento che si osserva, ed è ciò che meraviglia, è la diversa polarizzazione della luce naturale, fenomeno che dà la sensazione che la forma riflessa sia orientata asimmetricamente rispetto alla forma ordinaria.
  • A ciò deve aggiungersi che la forma riflessa non può assimilarsi entro le strutture narrative del discorso, perché l’immagine dello specchio non è in grado di mentire o di ingannare, a differenza del segno linguistico.
  • Pertanto, allo stesso modo l’immagine riflessa non può considerarsi neanche un’impronta, perché non è alcuna traccia lasciata della presenza di qualcosa o di qualcuno: es. le orme dei piedi lasciate sulla spiaggia; queste infatti, diventano il segno riconoscibile di una presenza, perché interpretate come segnali del passaggio di qualcuno. Diventano e sono fatti semiosici, perché interpretabili o traducibili in base ad uno schema di funzione.
  • L’unica concessione che può farsi valere è che l’immagine dello specchio può avere solo valore ostensivo, cioè descrivere un oggetto che può diventare riferimento generale per tutti gli oggetti e le forme uguali o simili a lui, ma nulla di più. Tutti gli altri usi, anche dal punto di vista linguistico, hanno solo valore metaforico.

«Il carattere proprio dell’immagine speculare è che è soltanto l’immagine speculare, è un primum, e almeno nel nostro universo non esiste nulla a cui possa essere assimilata»

(Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco)

In conclusione, lo spunto iniziale relativo agli effetti video utilizzati nelle Stories delle piattaforme social è stato un pretesto per introdurre il tema delle illusioni ottiche e con esso una piccola dissertazione sullo statuto stesso di queste immagini, vale a dire se siano o meno da considerare semplicemente immagini virtuali senza alcun apparente statuto ontologico, oppure riconoscere a queste immagini una loro dimensione ed una loro collocazione nel piano della realtà, almeno dal punto di vista della percezione umana. Ovviamente, la via seguita è stata quest’ultima, direzione con la quale si è mostrato non solo come siffatte forme siano in fondo intrinsecamente correlate alla struttura profonda della realtà, ma siano un prodotto coerente della stessa modalità umana di percepire e relazionarsi con la realtà. Ciò implica da un lato la rinuncia che le cose che non sono così come appaiono all’intuizione umana non necessariamente siano false o irreali (Gardner), ma anche che dall’altro lato ammettere che abbiano uno statuto realistico ordinario nonostante la bizarrìa estetica che li può contraddistinguere. Anzi, questo statuto è strettamente correlato all’attività umana di composizione dei significati linguistici e delle forme che intervengono nella comunicazione ordinaria e specialistica come è quella scientifica (Eco). Ciò accade perché la convenzionalità è un momento che interviene nella stessa attività del soggetto ed in alcuni casi diventa l’elemento a cui il soggetto si appoggia inizialmente quando deve proporre una composizione referenziale (vedasi il disegno di una mano o di un ominide). Per quel che mi interessa questo è uno degli aspetti che rivelano lo stretto legame che intercorre tra la struttura narrativa di una comunicazione e di un discorso in genere, e la funzione referenziale ed ideologica che si esplica nell’attività semiosica. Non tenere conto di questo significa eludere che alla base del realismo semiotico che si utilizza anche nella regolamentazione dell’osservazione diretta (metodo scientifico) interviene una “contrattualità” che deriva dal sistema culturale, dall’epoca storica, dalle esigenze generazionali, dagli sviluppi sociali e dai dati acquisiti che si sono raggiunti o che si posseggono e via dicendo. Tutto ciò confluisce nella composizione di un discorso ed è in grado di condizionare il modo di costruire e di intendere il riferimento oggettivo che viene esibito in termini di interlocuzione sia breve che lunga.

 

 

 

Post Scriptum. La filosofia ermeneutica contemporanea ha abituato a ragionare sui temi della comprensione linguistica essenzialmente in termini di ontologia, cioè l’intesa di senso che il soggetto instaura con un altro soggetto, ma anche con un oggetto come un libro o un testo ed una forma come può essere un’opera d’arte è un fenomeno, addirittura in qualche caso un fatto, che deriva da una relazione di continuità intrinseca che è predeterminata, anticipa e definisce non solo la struttura del rapporto, ma anche il modo in cui questo stesso viene definito. Georg Gadamer fissa questa situazione tramite il famoso circolo ermeneutico heideggeriano, che in seguito sarà criticato come fondamento di quella sorta di idealismo ermeneutico che contraddistinguerà sia l’opera gadameriana in genere, sia la stessa ermeneutica filosofica contemporanea. Tuttavia, i filosofi della Scuola Storica tedesca ragionavano sul tema del Verstehen (comprensione) in termini epistemologici, almeno ciò fino alla svolta in senso fenomenologico della filosofia tedesca di inizio Novecento e con essa di tutto il panorama filosofico europeo. Ciò significa che la filosofia tradizionale ha ritenuto che senza la presenza e le attività cognitive del soggetto non solo c’è logica, non c’è sintassi, non c’è riflessione e pensiero, ma anche che la stessa realtà formale dei sistemi semiotici (lingua, comunicazione, storia dell’arte e via dicendo) non ha né senso, né alcuna rilevanza senza l’intervento del soggetto: ovviamente, come è noto, ciò verrà contestato dalla linguistica strutturalista elaborando un modello teorico basato sull’assolutizzazione del linguaggio. Ebbene, prima che nella filosofia europea accadessero questi rivolgimenti di campo, qualcuno insospettabilmente pone una difficoltà che è molto attuale, nonostante il tema trovi formulazione qualche secolo fa, precisamente verso la fine del IV secolo d.C. C’è un passo contenuto nel libro XII delle Confessioni di Sant’Agostino di Ippona che è terribile, a ben pensarci. Il libro è un momento importante dell’opera agostiniana, perché è il luogo dove il santo teologo cattolico affronta il tema del tempo, di cui fornisce la famosa definizione di distentio animi: il tempo per Sant’Agostino è una realtà che si dilata e si contrae secondo un’estensione che è fissata dal cuore umano, anticipando in tal senso la "durata" di Henri Bergson, ma anche il concetto del tempo narrativo della prosa europea di primo Novecento. Ma non è di tempo che voglio parlare. Il passo a cui mi riferisco si trova al capitolo III del libro menzionato, che inizia introducendo il tema riferendosi al libro del Genesi. A riguardo, come faranno tutti i teologi cattolici in seguito, Sant’Agostino affronta una lettura del Genesi e soprattutto del primo versetto del libro in modo problematico, in quanto con il Genesi non solo ci si relaziona chiaramente con il sistema culturale ebraico, ma anche con una ( arcaica) prospettiva teologica che rinvia ovviamente, al legislatore Mosè. L’irrigidimento del concetto giuridico di idolatria religiosa che si ha all’epoca della prima grande diaspora avvenuta dopo la fuga dall’Egitto influisce chiaramente sul significato del passo biblico. Poiché l’esigenza di Sant’Agostino è quello di giungere al più evidente significato ed alla più corretta interpretazione del passo invoca l’intervento divino affinché lo guidi in questo sforzo esegetico, in particolare perché oggetto di questo sforzo non è tanto l’inizio del tempo e la nascita del creato, quanto la presenza e l’intervento di Dio nell’evento creativo. Invoca lo stesso Dio affinché gli conceda di ascoltare, anche per bocca altrui, in quale modo Dio sia intervenuto nella Creazione. Su questo onorevole interlocutore il santo-teologo dice: «se vi fosse, mi attaccherei a lui, lo interrogherei, scongiurandolo per il tuo nome ad aprirmi il significato di questa parola (…) Certo che, se parlasse in ebraico, giungerebbe invano al mio senso e la mia mente non ne afferrerebbe il significato; ma se parlasse in latino potrei capire il suo linguaggio. Ma donde saprei che Egli dice la verità? E quand’anche lo sapessi, lo saprei da lui? Oh no, qui dentro, nei recessi della mia mente, non in ebraico, non in latino, non in qualsiasi altra lingua barbara, senza lo strumento della bocca e della lingua, senza suono di sillabe, la Verità mi direbbe: “Egli dice il vero”». La verità indicata dal santo-teologo è ovviamente, un qualcosa che ha una natura assoluta, come è appunto Dio, ma le domande poste sono incalzanti e rivelano come la risposta data è solo parziale e si contenta di dare soluzione ad un tema limitato, seppur fondamentale per l’opera agostiniana, ma le medesime questioni le si potrebbero porre anche per altri temi dal valore assoluto e che chiedono un preventivo accordo, almeno in via convenzionale, tra due o più interlocutori. In questo caso, la legge del cuore non sembra essere sufficientemente risolutiva. 



[i] Martin Gardner, Circo matematico, 1981 Sansoni Editore, Milano.

[ii] Il programma prevedeva due diverse generazioni di sonde. La prima di tipo Able lanciate tra il 1958 ed il 1960 si sono rilevate fallimentari, mentre la seconda generazione è composta da satelliti artificiali del modello della Pioneer 7 e Pioneer 8. Quest’ultimo tipo vengono lanciate nello spazio tra il 1965 (anno in cui il programma venne ripreso) ed il 1978.

[iii] Nel 1976 la sonda raggiunse l’orbita di Saturno e nel 1979 l’orbita di Urano. L’orbita di Nettuno, il pianeta più distante dalla Terra, viene superata dalla sonda il 13 giugno 1983. Durante questo suo lungo viaggio la sonda continua ad inviare dati che attestano il suo funzionamento ed la sua posizione spaziale. La NASA dichiara conclusa la missione di Pioneer 10 il 31 marzo 1997, in quella data la sonda si trova ad una distanza di 67 UA dal Sole. In seguito alcuni rilevamenti sull’effetto Doppler nella regione dell’ultimo avvistamento della sonda si registra un’anomalia, detta in seguito «anomalia Pioneer», entro un raggio di 70 UA. L’ultima ricezione telemetrica della sonda è del 27 aprile 2002, mentre l’ultimo segnale ricevuto dalla sonda è del 23 gennaio 2003: in questa data la sonda è a 12 miliardi di km (80 UA). Il 7 febbraio 2003 fallisce il tentativo di contatto con a sonda ed in seguito il 4 marzo 2006 si dichiara l’impossibilità di entrare in contatto con la sonda a causa del non corretto allineamento dell’antenna. 

[iv] Studio di David Messerschmitt dell'Università della California dal titolo “Design for minimum energy in starship and interstellar communication”.

[v] Con pianetino o planetoide si intende un piccolo corpo celeste che ha una composizione simile a quella terrestre, ma non hanno una forma sferica. In questo modo vengono indicati tutti i corpi celesti, compresi pianeti, che si trovano nel sistema solare esterno.

[vi] Con plutoide si intende un pianeta nano transnettuniano. Sono corpi celesti che percorrono un orbita intorno al Sole, ma che presentano un valore del semiasse orbitale maggiore di quello di Nettuno. Hanno una massa sufficiente che gli permette di mantenere un equilibrio idrostatico. Presentano una forma quasi sferica. Nel settembre 2008 Plutone, Eris, Makemake e Haumea sono considerati plutoidi.

[vii] Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, 2016 La nave di Teseo, Milano.

[viii] Nel Trattato di semiotica generale Eco aveva indicato quest’attività con il tema delle “invenzioni radicali”, cioè con il procedimento di costruzione di schemi astratti ottenuti in riferimento alla stessa materia sensibile. Un lavoro costante di costruzione e manipolazione della materia bruta dei sensi che si compie ammettendo l’esistenza dentro questa stessa materia di una qualche forma con la quale plasmare il concetto in questione. In riferimento alla logica di Pierce è ciò che il filosofo statunitense chiamava percetto, cioè quel momento intermedio tra la percezione pura e la forma dell’interpretante con il quale verrà fissato il significato della sensazione registrata.