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L’altro giorno mia sorella mi
chiede di aiutarla a risolvere un piccolo problema di geometria assegnato dalla
maestra di scuola a mio nipote. Il problema chiedeva di calcolare la superficie
libera a traffico pedonale di una zona di parcheggio a forma di esagono. La
soluzione consisteva nel calcolare l’area dell’intera superficie e sottrarre da
questa il 60% occupata dalle zone di sosta per le automobili. Ora, a questo
livello scolastico il tema didattico è soprattutto mettere in confidenza gli
studenti con le forme geometriche e soprattutto con le formule relative alle
proprietà delle stesse figure: lo scopo di ciò è iniziare ad abituare lo
studente al ragionamento analitico, in questo caso al discorso geometrico
lineare. Tuttavia, il testo del problema introduce una figura, quella del
poligono esagonale, che meglio di altri poligoni permette di descrivere la
correlazione tra le figure lineari, cioè tutte le figure a linea spezzata e che
configurano una forma geometrica avente un certo numero di lati, e le figure a
linea continua come sono appunto, i cerchi. Anzi, il discorso geometrico
elementare ricorre sovente all’uso dei cerchi e all’inscrizione dei poligoni
entro una superficie circolare per ottenere la misura più accurata possibile
dell’area delle stesse figure. A tal riguardo, vengono elaborate alcune
tecniche di costruzione geometrica che renda possibile questa condizione
materiale, cioè lo inserimento entro una curva di una figura a linea spezzata,
ma ciò che è sorprendente è che questa misura viene affidata ad un sistema dove
la misura della circonferenza è un valore non facilmente determinabile, in
quanto è un piccolo numero non intero e periodico.
Ciò nonostante l’argomento verso
cui mi orienterò riguardano le ragioni teorico-geometriche che sono alla base
di un’espressione figurata con la quale nell’attuale lessico si indica
l’impossibilità che una certa situazione venga a risolversi e cioè la «quadratura
del cerchio». L’espressione che attualmente ha un valore figurativo, quasi
metaforico, indica un’aporia vera e propria nella matematica antica, quella di
riuscire a trasformare il cerchio in un quadrato, e che rappresenta uno degli
obiettivi che la matematica greca non riuscirà a raggiungere, anche se per
secoli i matematici cullarono l’illusione che ciò fosse un tema realizzabile. Ciò
detto, l’espressione in questione è vera a metà, nel senso che in una certa
misura si raggiunse tale obiettivo, in quanto ottenne un quadrato da una linea
curva che apparteneva ad un mezzo cerchio. Di qui, l’illusione che se ciò era
vero per mezzo cerchio, doveva esserlo anche per l’intero cerchio! Ehm, non è
proprio così..
Per provare a comprendere almeno
un poco la dimensione della problematica, proviamo a giocare. Ah, beninteso che
il tema di quanto segue non riguarda la «quadratura del cerchio», nel senso che
non è una storia del problema, né sulle conseguenze che da esso derivano sul
piano filosofico-matematico, anche se quest’intreccio è altrettanto
interessante se si è interessati allo sviluppo di una certa mentalità
scientifica della civiltà europea; no, più sommessamente, l’argomento che segue
è solo un piccolo excursus sulla
geometria (e non solo) ed in particolare su alcune soluzioni che vedono in una
certa misura coinvolto il poligono dell’esagono, e null’altro.
Esistono due tipi di Tangram, il Tangram cinese di forma quadrangolare, noto in tempi antichi anche
in area mediterranea ed il Tangram circolare
o a forma ovale, che è però, una variante più recente ideata in Europa. L’idea
didattica che vi è alla base del Tangram
classico è una configurazione di alcune proprietà elementari delle figure
geometriche, cioè la forma, la simmetria, il rapporto tra le dimensioni e
l’equivalenza. Il Tangram è adatto
all’apprendimento matematico dei bambini proprio perché li mette in confidenza
con l’idea portante di tutta la geometria euclidea, quella dell’equivalenza e
soprattutto mostra tramite il meccanismo del gioco come figure aventi profili o
forme differenti, in realtà possono risultare uguali tra loro, avendo in fondo
la stessa superficie. Tuttavia, chi ha giocato al Tangram cinese sa che le figure che possono venire composte sono
tutte forme lineari, cioè quelle che in precedenza indicavo come figure a linea
spezzata, pertanto non è possibile ottenere figure e superfici che abbiano un
profilo curvo. Viceversa, se si giocasse al Tangram
con i pezzi ovali non si avrebbero figure lineari, a meno che in uno sforzo
creativo si mischiassero i pezzi dei due modelli e potremmo forse, comporre
figure di vario genere, ma in questo caso verrebbe a mancare un presupposto
fondamentale nella geometria euclidea, cioè che forme avente la stessa
estensione in determinate condizioni possono risultare uguali: la superficie è
il termine costante nel rapporto di proporzione tra le varie figure. In tal
senso, per ottenere un buon compromesso di convertibilità tra figure lineari e
figure curve dovremmo sezionare il Tangram in pezzi geometrici non solo molto
più piccoli del Tangram classico (che
ammette un quadrato e poi triangoli di varie dimensioni), ma soprattutto
asimmetrici e irregolari, come accade nell’Ostomachion
di Archimede. Ma ciò non è possibile, in quanto il dissezionamento del Tangram cinese è operato seguendo
proprio le tecniche di composizione geometrica basate sull’uso di riga e
compasso, eppure proprio l’uso di questi strumenti lascia intendere l’esistenza
di una qualche correlazione tra la geometria lineare e la geometria curva.
Questa correlazione non è molto
evidente come potrebbe pensarsi, perché richiede anche una misura che la
matematica greca antica era lontana dal possedere. Per tale ragione, la
geometria dei cerchi viene vissuta dalla teoria matematica antica come un
capitolo eccezionale, ma per nulla ordinario come l’intera disciplina della
geometria e ciò a causa delle proprietà intrinseche di un cerchio, proprietà
che sono esclusive (ma non troppo) di questa figura geometrica. Ciò ha
determinato quasi una posizione staccata della geometria dei cerchi dalla
geometria lineare, come ricorda il matematico italiano Piergiorgio Odifreddi in
un suo intervento sulle geometrie non euclidee (La matematica raccontata da Piergiorgio Odifreddi, 2017 Le Scienze
S.p.A., Roma), ma è in fondo tutta la cultura e la scienza europea a partire
dall’epoca medievale a considerare la geometria dei cerchi una specie di
geometria speciale, tanto da divenire modello di preferenza per l’astronomia
con il sistema di Claudio Tolomeo, soprattutto sotto l’influenza notevolissima
della filosofia aristotelica: è il modello del cosmo geocentrico di derivazione
pitagorica, dove la Terra è immobile e tutti gli altri corpi celesti, escluso
il Cielo delle Stelle Fisse, ruota su orbite di forma circolare. Ora, la
cultura matematica greca non disconosceva la geometria dei cerchi, ma aveva
mostrato qualche difficoltà nel gestire il rapporto di equivalenza che intercorre
con le altre figure lineari, poiché entrambi giacenti sul medesimo piano
euclideo. A ciò si aggiunge che non esisteva un metodo unico e quindi, rimaneva
molto forte la sensazione di incertezza sulle misure relative ad una curva.
Tuttavia, uno stratagemma per ovviare a questa situazione viene elaborato
proprio dagli antichi greci, ma bisogna partire dal noto Teorema di Pitagora.
È noto che ciò che l’attuale
cultura matematica indica con il titolo di Teorema
di Pitagora è un teorema già conosciuto prima che venisse assegnata la
paternità al famoso filosofo ed è altrettanto noto che di questo stesso teorema
esistono altrettante dimostrazioni, qui interessa solo la sua definizione. Il
teorema asserisce che il quadrato costruito su un lato di un triangolo
rettangolo, detto ipotenusa, è uguale
alla somma dei quadrati costruiti nei rispettivi lati di detto triangolo,
chiamati a loro volta Cateto maggiore
e cateto minore. In formula il
dettato del teorema viene espresso dall’equivalenza
i2 = C
2 + c 2 (1).
Il ricorso al Teorema di Pitagora
è necessario a questo argomento, perché è da un certo utilizzo del teorema che
derivano le ragioni che sono alla base dell’espressione «quadratura del
cerchio» e soprattutto di un certo tipo di attività sulle superfici curve, da
cui deriva a sua volta il poligono dell’esagono. Il Teorema di Pitagora è infatti, alla base di uno stratagemma ideato
da Ippocrate di Cos, vissuto tra il V secolo a.C. ed il IV secolo a.C. Ippocrate
ideò nuovi oggetti geometrici, dette lunule, che descrivono non una curva
perfetta, ma una linea continua falciforme alla quale poteva applicarsi appunto,
detto teorema. Per spiegare come ciò sia possibile, mi affido alla descrizione
del matematico di origini australiane Peter M. Higgins [Mathematics for the Curious, 1998]. L’attuale modello teorico insegna
che l’area di un cerchio è pari a 2πr2, cioè al prodotto
della misura del raggio elevato alla potenza di 2 per una costante π (pi greco) presa due volte. In questa
fase non ci interessa l’intero cerchio, ma solo metà di esso, cioè l’area del
semicerchio costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo, da cui si
ottiene la seguente equivalenza:
Area del
semicerchio: (π / 2) (a / 2)2 = (π
/ 8) a2 (2).
Il termine “a” della formula indica la misura dell’ipotenusa su cui è
costruito il semicerchio. Se applichiamo (2) alla formula del Teorema di Pitagora si ha che (1) diventa
(π / 8) c2 = (π / 8) a2 + (π / 8) b2 (3).
Da (3) si evince chiaramente che facendo
uso del teorema si ottiene che l’area totale dei semicerchi costruiti sui
cateti di un triangolo rettangolo è uguale all’area del semicerchio costruito
sull’ipotenua, pertanto, afferma Higgins, si può concludere in generale che «potremmo
sostituire i quadrati con qualunque altra analoga figura la cui area sia
proporzionale al quadrato della lunghezza del lato» (Peter M. Higgins, ed.it., Divertirsi con la matematica, 2017,
p.78). Ciò significa che il quadrato costruito sull’ipotenusa nel dettato del
teorema è analogo al semicerchio costruito sulla corda di circonferenza e
quindi, dimostrando che esiste questa equivalenza si può ammettere in via
teorica che sull’ipotenusa del triangolo rettangolo si possa costruire
qualsiasi altra figura (curva) e non solamente quadrati!
Come ciò sia possibile, basti
considerare un quadrato, tracciare una diagonale e costruire sulla linea di
ipotenusa l’arco di un semicerchio come presentato nella figura 1. La figura descrive un quadrato ABCD con un semicerchio
ABC costruito sulla sua diagonale AC. Lungo la diagonale viene indicato il
punto medio M. Inoltre, si è costruito un semicerchio sulla misura del lato AD
del quadrato sul lato AC. In questo modo, il compito è calcolare l’area grigia
del disegno.
Intuitivamente si osserva che
l’area della lunula costruita sul triangolo ABC è equivalente all’area di detto
triangolo, perché
- Il segmento circolare delimitato dalla corda AC è simile ai due settori circolari indicati con i numeri 2 e 3: avendo la stessa forma significa che hanno la stessa dimensione.
- I due triangoli, AMB e BMC, sono simili in quanto sono entrambi due triangoli isosceli.
- In riferimento al Teorema di Pitagora l’area sottesa dalla regione 1 è uguale alla somma delle due aree dei segmenti circolari 2 e 3, entrambe costruite sui cateti di un triangolo rettangolo.
Si può concludere che l’area del
triangolo ABC è uguale a metà di circonferenza per il prodotto delle singole
unità dei settori circolari, quindi 1 / 2 x 1 x 1 = 1 / 2.
Certo, il risultato è una
frazione, tuttavia bisogna contestualizzare l’attuale impressione ad un
paesaggio teorico dove la scena non è dominata dai numeri frazionari (tranne
ovviamente quelli di forma 1 / n) o
dai numeri irrazionali, come è in questa fase dell’attuale civiltà, ma è
dominata dai numeri interi, per cui il risultato deve equipararsi ad uno sforzo
intellettuale dove questo numero indica che l’operazione geometrica è
perfettamente realizzabile, ma su cosa sia quel numero in effetti rimane per la
teoria matematica greca antica un enigma che solo la matematica dei secoli
successivi risolverà. Ora, Ippocrate dimostra che gli strumenti della geometria
lineare possono essere estesi anche alle superfici curve e quest’ultime a loro
volta, possono essere processate come un qualsiasi altro poligono lineare.
Ciò detto, supponiamo di operare
su un parallelepipedo di cui si traccia una diagonale come riportato in figura 2. Ciò che si osserva subito è
che il quadrilatero in questione è diviso in due triangoli, ABC e ACD, ma se si
disegna l’altezza h si ricavano un
piccolo triangolo e il parallelepipedo diventa un trapezio, la cui area è
uguale a quella di un rettangolo, Base per Altezza, ma diviso 2. In base a
quello che si è detto prima, l’area del rettangolo così ottenuto è equivalente
all’area della circonferenza, per cui si ha la seguente equivalenza:
1
/ 2 bh = 1 / 2 (2 πr) r
= πr2 (4)
La scrittura (4) rivela infatti, che
il triangolo di partenza ABC ha un’area che è equivalente a quella di una
circonferenza, per cui è possibile ipotizzare che l’area di detta circonferenza
possa rappresentarsi anche come una triangolazione della sua stessa superficie.
Ciò ci viene confermato dalla situazione degli angoli interni del triangolo la
cui somma è uguale a 90°. Facendo coincidere un vertice del triangolo infatti, con
il centro della circonferenza ed ipotizzando che questo centro sia anche il
centro della figura che si ottiene per n
numero di triangoli che insistono su questo centro, la somma di tutti questi
triangoli costruisce un poligono regolare di n lati. Questa situazione è descritta dalla seguente formula:
n (1 / 2 bh) (5).
La formula (5) ricorda la scrittura
(4), a cui si aggiunge il prodotto per n
volte della quantità espressa da 1 / 2 bh.
Inoltre, con b si indica il perimetro
del triangolo e con h la distanza tra
la sua base ed il centro della circonferenza, così facendo la formula (5) inscrive
l’area del poligono nella superficie della circonferenza, o altrimenti detto
divide la superficie del cerchio nel poligono di n triangoli. La triangolazione della circonferenza così realizzata
descrive oltre che una divisione geometrica della superficie del cerchio, anche
l’inscrizione di un poligono entro l’area di una circonferenza: l’inscrizione
del poligono entro una circonferenza può essere verificata tramite la struttura
degli angoli interni, la quale rivela la simmetria che sussiste tra cerchio e
poligono. Un modo intuitivo è quello che una volta si insegnava (non so se lo
si fa ancora) alle scuole medie inferiori e consiste nel disegnare un poligono dentro
un cerchio e tracciare a partire dai suoi lati dei prolungamenti; ciò fatto, se
i prolungamenti procedono esternamente alla circonferenza si dice che il
poligono è perfettamente inscritto (o circoscritto), altrimenti non lo è: e ciò
in ragione della natura degli angoli che configurano il poligono in questione, infatti
come è noto gli angoli sono classificati in due tipi, convessi o concavi, pertanto
nel caso di un poligono perfettamente inscritto in una circonferenza si dice
che il poligono è convesso, altrimenti concavo (cfr. A. Branzi – P. Vassano, Geometria per la scuola media, 1969
Paravia).
La regolarità del poligono
inscritto in un cerchio è data dalla sua struttura degli angoli, che tra le
altre cose ciò che descrive la stessa proprietà di simmetria con il cerchio. Ebbene,
un poligono di questa natura ha la somma dei propri angoli interni uguale al
valore dell’angolo di una circonferenza, che equivale ad un angolo giro, cioè a
360°: è evidente che un poligono inscritto è un oggetto il cui centro coincide
con il centro della circonferenza e quindi, è evidente che la somma interna dei
suoi angoli sia uguale all’angolo giro che caratterizza il cerchio. L’angolo
giro finora è stato espresso in termini di 2π (pi greco), perché il π (pi
greco) è quel numero con il quale viene descritto il rapporto tra il diametro e
l’intera superficie del cerchio, espresso come si è visto, dalla potenza di due
del raggio. Ora, poiché il valore che ci interessa è l’intero cerchio, il
prodotto πr2 deve raddoppiarsi, ma così facendo il valore che
assume coincide con l’intero angolo del cerchio, cioè l’angolo giro. Ecco
perché nell’analisi geometrica quando ci si riferisce ad un cerchio il π
(pi greco) viene solitamente indicato come l’unità di misura degli angoli ed in
questo caso viene detta radiante. Il
rapporto che un cerchio instaura con altri oggetti del piano compone l’oggetto
di studio della geometria trigonometrica e più in generale di una disciplina
detta topologia, la quale studia le proprietà delle forme e dello
spazio entro cui vengono collocate. Ma non approfondisco questo aspetto, almeno
non ora.
Proseguiamo con l’esempio del
triangolo inscritto in una circonferenza.
Immaginiamo di inscrivere una
figura poligonale di n lati, a.e. di n = 6. Suddividiamo detto poligono
tramite la triangolazione in sei triangoli che si incontrano su uno stesso punto
interno alla circonferenza come riportato dalla figura 3. Per definizione la somma degli angoli interni alla
circonferenza dove essere equivalente al valore di un angolo giro, cioè a 2π
(pi greco), per cui il valore espresso dal poligono è dato dalla seguente
formula:
nπ - 2π
= (n – 2) π (6),
con n>2.
Es., dato un triangolo la somma
degli angoli interni in base alla scrittura (6) deve essere uguale a π (3 – 2)
= π.
Tabella dei rapporti
delle superfici tra alcuni quadrilateri
|
|||
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|
Lati poligono
|
Apotema
|
Superficie
|
Quadrato
|
4
|
2
|
4
|
Pentagono
regolare
|
5
|
3,44
|
34,4
|
Esagono
regolare
|
6
|
5,196
|
62,352
|
Ettagono
regolare
|
7
|
7,266
|
101,724
|
Ottagono
regolare
|
8
|
9,656
|
154,496
|
|
|
|
|
|
|
|
|
[I valori della tabella sono
calcolati su poligoni di lato 2. Lo scopo è evidenziare come pur rimanendo
costante il valore di lato, il profilo del poligono influisce sul valore
complessivo della sua superficie]
Con il valore assegnato di 6 ad n è intuitivo che il poligono che si è
venuto a costruire intorno al centro del cerchio è appunto un esagono e che
questo poligono deriva dalla triangolazione indicata in precedenza (cfr. tabella
di sopra). Ora, l’esagono è una forma interessante, perché ricorre sovente in molti
sistemi biolgico-naturali (e non solo), ma anche in strutture come i cristalli
che descrivono la disposizione spaziale dei componenti del cristallo in
questione. I motivi per cui sia ricorrente sono molti, si va dalla tensione
superficiale alla razionalizzazione dello spazio nella regione occupata dal
sistema, come nel caso dell’ordine delle fiorescienze di alcune piante, in ogni
caso l’esagono non è l’unica figura ad avere questa caratteristica. Se si
osserva lo studio di come sia possibile realizzare una tassellatura, cioè la
copertura di una superficie piana e/o sferica, ci si rende conto che la forma
esagonale è assieme ad altri poligoni (es. quadrato e triangolo) quella
ricorrente, perché nel pavimentare una superficie si ottiene il risultato di
coprire l’intera superficie senza lasciare spazi: basti osservare con cura il
proprio pavimento di casa o la piastrellatura del proprio bagno per osservare
geometrie regolari o variegate, ma tutte entro una stessa prospettiva
concettuale quella di comporre una superficie le cui unità si trovano disposte
ed orientate secondo alcuni precisi criteri. Questi criteri sono quelli della
simmetria descritta nel rapporto tra poligono e cerchio.
In Coppie, numeri e frattali (2005) Rob Eastaway e Jeremy Wyndham
rivelano che in alcune situazioni questa regolarità simmetrica risulta essere
meno funzionale di quel che si vorrebbe o che l’esperienza scolastica
suggerirebbe: un esempio sono le cassette delle bibite, infatti una
disposizione esagonale non è molto funzionale per l’impacchettamento di nove
lattine, perché con la stessa base (ovviamente quadrata) si dispongono un minor
numero di oggetti rispetto ad una disposizione che appare meno regolare, cioè
più dispersiva di spazio; in questo tipo di problemi di impacchettamento o nell’imballaggio
di tipo industriale a.e., è poco usuale che si ricorra ad una disposizione esagonale,
perché dispendiosa: dipende quale sia l’interesse che predomina. A volte però,
ciò che conta è l’efficienza funzionale vera e propria, come accade nei sistemi
biologico-naturali. Sempre i due autori menzionati in Probabilità, numeri e code (1998) offrono un esempio semplice, ma estremamente
chiaro di come la forma esagonale possa essere una risposta efficiente ad
alcune esigenze specifiche. Di forma esagonale è la struttura interna degli
alveari. Il motivo per cui un sistema biologico-naturale come i favi delle api
si strutturino in questo modo ci viene fornito dalla teoria dei grafi: per chi non lo sapesse il grafo è un oggetto
astratto, sovente di forma lineare, con il quale si descrive la struttura di un
sistema o la sua attività algoritmica tramite una trama di punti, detti nodi, e
linee. Nell’esempio che è stato proposto la teoria dei grafi interviene per
descrivere il tracciato di un percorso, in questo caso degli spostamenti
interni all’alveare di un’ape.
Prendendo come modello di
riferimento lo schema di Figura 4,
supponiamo di descrivere lo spostamento di un’ape lungo il reticolato esagonale
proposto; e supponiamo di far muovere il piccolo insetto a partire dalla cella
con il titolo “A”. Se l’ape muove dalla cella A e la sua destinazione è solo la
cella B, è evidente che effettuerà un solo percorso, perché è l’unico
possibile; se però, la sua destinazione è la cella C, i percorsi possibili sono
invece, due, A-B-C e A-C; se invece, la destinazione finale è la cella D, i
percorsi realizzabili sono A-B-C-D, A-C-D, A-B-D; se invece, è la cella E, i
percorsi sono ancora più vari, A-B-C-D-E, A-B-D-E, A-C-E, A-C-D-E, A-B-C-E; e
così via. Il vantaggio di questa struttura geometrica è quello di occupare
tutta l’estensione dello spazio senza lasciare alcuno interstizio vuoto: ciò
significa che lo spostamento dell’ape è estremamente efficiente, in quanto
in caso di intoppo lungo una direzione può variare percorso e scegliere di
volta in volta il percorso più breve su cui può dirigersi.
L’idea di base di questo tipo di
problemi è la stessa che si è trovata nella triangolazione del cerchio, cioè
quella di dividere una estensione superficiale secondo una struttura regolare
composta da unità poligonali: nel caso della triangolazione queste unità sono triangoli,
nel caso dell’alveare proposto sono esagoni regolari. Bisogna pensare a questo
tipo di analisi geometrica come un particolare problema di disposizione
spaziale di un certo numero di oggetti, ma anche come un problema di
dissezione di un piano: es., data una stecca di cioccolata composta da 49
quadrati, il numero di tagli che possono effettuarsi su questa stecca è pari a n -1, cioè a 48; in questo caso, il
numero di tagli indica anche il numero dei modi possibili di come effettuarli.
Generalizzando, questo tipo di
relazioni tra poligoni e circonferenza vengono descritta dalla seguente formula:
k (n
– 2) / n π = 2 π (7).
Utilizzando l’esempio di prima,
cioè di n = 6, se si sostituisce il
valore intero di 6 ad n della formula
(7) si ha che il rapporto (n – 2) / n è uguale a 2 / 3, per cui il valore di
k deve essere un numero intero
positivo che si trovi tra 2 e 3: la scrittura 2 / 3 k π è uguale o equivalente a 6 / 3 π, cioè al valore di 2 π.
E ciò vale per qualsiasi poligono con il valore di n lati.
La quadratura del semicerchio di
Ippocrate e più in generale la triangolazione di una circonferenza rivelano la validità
della estensione dei metodi costruttivi della geometria lineare anche alle
superfici curve, ma questo stesso procedimento suggerisce anche dell’incongruenze
concettuali estremamente sconvolgenti. La meccanica dei moti lineari uniformi ha
abituato il pensiero fisico a ragionare su alcune conseguenze ottenute dall’applicazione
dei metodi geometrici alla descrizione empirica degli eventi; una di queste è
la proporzionalità delle grandezze fisiche, ravvisabile nella convertibilità di
spazio, tempo e velocità nelle note tre leggi fondamentali del movimento
lineare: è sufficiente conoscere due delle tre grandezze interessate, che la
terza è nota tramite la struttura aritmetico-geometrica che le tiene assieme.
Ma non è sempre così e ciò senza tirare in ballo la teoria della relatività di
Albert Einstein, che pure ha contribuito in modo decisivo all’abbandono di
questo paesaggio concettuale.
Si prenda spunto dall’esempio dell’ape
nell’alveare. Se si ipotizza di voler pianificare un certo percorso avente una
destinazione specifica, in base a quello che è stato detto in precedenza
basterebbe applicare le soluzioni della geometria lineare. Secondo la geometria
lineare infatti, la distanza che si dovrebbe percorrere si calcola tramite il Teorema di Pitagora, cioè come
l’ipotenusa di un triangolo rettangolo. Ora, se si disegna su una mappa gli
estremi dello spostamento e si disegna inoltre, un triangolo rettangolo facendo
coincidere la distanza tra i due estremi lungo la linea dell’ipotenusa, il
calcolo che si dovrà ottenere è quello dell’ipotenusa. Pertanto, questo valore descrive
la distanza effettiva che si è deciso di percorrere, ma il valore così ottenuto
non è la distanza reale.
Infatti, si
veda cosa succede.
L’immagine
qui sopra è derivata dal libro di Joan Gomez Urgellés (2010) e pubblicato in
Italia dalla RBA Italia (Milano) con il titolo Quando le rette diventano curve. Le geometrie non euclidee (2015). Qui,
si suggerisce di effettuare uno spostamento urbano dal punto A al punto B.
Supponendo di disegnare un triangolo rettangolo e che le abitazioni siano
comparabili ad una unità, i valori di cateto sono rispettivamente per il cateto
maggiore 4, mentre per il cateto minore 2. In base al Teorema di Pitagora si avrà che la distanza è uguale alla radice
della somma dei quadrati dei due cateti, per cui a
(4) 2
+ (2) 2 = i 2 = 16 + 4 = 20;
Da cui si
ottiene il valore di ipotenusa di 4,47. In base a questo risultato la distanza
percorsa è poco più di quattro unità. In realtà, la presunzione su cui si fonda
la rappresentazione non è corretta, perché lo spostamento non avviene in linea
retta come vorrebbe la rappresentazione del teorema, ma in modo arzigogolato
(come si intuisce). Se si calcola invece, il tempo di percorrenza si osserva
che si giunge a destinazione solo dopo 6 abitazioni e non dopo le 4 indicate dalla
formula. C’è un’incongruenza evidente nel teorema, in quanto la sua
formulazione si muove sul piano astratto ed ideale e non tiene conto che nel
calcolo di una distanza i valori in gioco non sono quelli richiesti dalla
formula, ma sono due coppie di coordinate che fissano gli estremi di due
differenti posizioni spaziali (punto di partenza e punto di arrivo). A tal
riguardo, il matematico tedesco Hermann Minkovski sostituisce ai valori dei
cateti le rispettive coordinate spaziali e si ottiene la seguente formula:
P = (x1, x2), Q = (y1,
y2) d(P, Q) = |x2
– x1| + |y2 – y1| (8)
La formula
(8) ha una piccola, ma decisiva variazione rispetto alla formula del Teorema di
Pitagora, e cioè quella di riformulare il contenuto del teorema in termini di
coordinate spaziali e soprattutto, di riconvertire il piano concettuale su cui
si poggia il teorema. I valori delle coordinate infatti, diventano valori
assoluti, cioè sono tali indipendentemente dal segno positivo o negativo che
possono esibire, il che è evidente, visto che i valori in questione sono quelli
della posizione di un punto nel suo sistema di riferimento, o di coordinate.
Questa scrittura pertanto, è chiamata distanza di Minkovski.
La
descrizione dei tempi di percorrenza trasforma la distanza in un sistema di
relazioni possibili composto dal numero delle limitazioni che condizionano il
movimento stesso e dal numero di permutazioni che può effettuarsi su di esso,
cioè il numero di variazioni previste in quelle stesse condizioni. È quello che
si è detto nel caso dello spostamento dell’ape dentro l’alveare; se si
considera il percorso dell’ape come la distanza tra la cella A e la cella di
destinazione, la direzione e la distanza effettivamente percorsa dall’insetto è
determinata
- Anzitutto, dall’intervallo spaziale, cioè dagli estremi spaziali che rappresentano lo spazio del suo movimento o spostamento.
- Dal numero di variazioni che l’ape può applicare al suo percorso: se una direzione è ostruita, la scelta ricade sulla via accessibile e più breve.
In
formula, indicando con PP la coppia numerica dei percorsi possibili si avrà che
PP n,m
= (n + m)! / n! m! (9)
Pertanto,
con il termine n si indicano le
limitazioni, nel nostro caso la direzione da A a B, mentre con il termine m le permutazioni applicate al percorso
in questione. Utilizzando i valori dell’esempio precedente e applicando la
formula (9) si avrà quanto segue:
n = 4, m = 2 (4 + 2)! / 4! 2!
= 15 movimenti possibili.
Quest’ultime
considerazioni forniscono una descrizione analitica antitetica all’ideale
concettuale della matematica antica e che ha finito per condizionare l’intero
paesaggio culturale europeo, cioè la presunzione che la regolarità, la simmetria
e l’ordine uniforme siano non solo dei valori culturali e spirituali da
affermare, ma l’essenza ontologica della struttura profonda della realtà. Gli
ultimi esempi incentrati sul calcolo dei percorsi e sui tempi di percorrenza
rivelano che quella idea astratta, così potente e così intuitiva, descritta e
rappresentata dalla geometria delle figure piane è intrinsecamente incongruente
allo stato effettivo della realtà empirica, in un certo senso la realtà
empirica non si muove secondo la razionalità dell’intuizione, ma secondo una
caoticità che è antitetica all’umana presunzione dell’intuizione. E tuttavia,
pur con questi limiti congeniti la geometria rimane, una volta ben appresa,
qualcosa di affascinante, a volte anche di divertente. Ciò la rende qualcosa in
cui coesistono sia i tratti della disciplina rigorosa come voleva Euclide e
dopo di lui tutto il pensiero scientifico europeo, sia i tratti di un puro
gioco dell’astrazione, che mal si accorda con l’esigenza di serietà che la
scienza richiede. In ogni caso, tornando alle premesse di queste righe, si è
visto come l’espressione della «quadratura del cerchio» sia meno azzardata di
quello che il lessico ordinario le riconosce e come sia in fondo la formula di
una verità parziale, tramite la quale però è stato possibile costruire poligoni
come l’esagono i quali esibendo la stessa proprietà di simmetria con il cerchio
avanzano la pretesa (creativa) di riuscire a convertire una figura dalla linea
continua come è il cerchio in una figura lineare.
Post
Scriptum. Nel 1884 Edwin A. Abbott pubblica un romanzo intitolato Flatlandia, dove narra le vicissitudini
di una popolazione sui generis
composta da figure geometriche. È un racconto inusuale, perché la realtà
descritta non è quella ordinaria, ma una astratta realtà a due dimensione. A
quest’opera fa seguito un altro racconto fantascientifico dal titolo Sphereland, dove i protagonisti sono l’altra
metà del cielo della geometria euclidea, cioè i cerchi ed i settori circolari.
Le opere citate sono note agli appassionati e non so quanto possano definirsi
dei veri e propri capolavori letterari, anzi forse non lo sono proprio, ma poco
importa. Tuttavia, questo genere di esperimenti letterari o pseudoletterari, a dire
il vero, contribuiscono a sensibilizzare un certo pubblico di lettori al
ragionamento analitico ed in questo caso geometrico e di cimentarsi con esso
senza però, l’assillo del “sentirsi alle strette” o del “sentirsi alla prova”,
tanto che tramite il racconto di Flatlandia
possono trasmettersi alcune nozioni di geometria o situazioni analitiche che si
presentano solo sotto forma di tediosi problemi didattici. L’opera letteraria di
Abbott pertanto, si trova citata da Martin Gardner e da altri divulgatori soprattutto
quando si tira in ballo la geometria, forse perché in questo modo la si rende
più simpatica, o forse perché (ed è ciò che temo maggiormente) è decaduta una
delle ultime roccaforti, assieme alla stessa teoria della matematica, contro l’antropotipizzazione
narrativa ricorrente nella prosa letteraria e poetica. Quest’idea di rendere
più simile all’uomo medio qualcosa che il pregiudizio sociale e culturale etichettano
come autoreferenziale, incomprensibile, astruso ed astratto mi raggela, perché si
basa sullo stesso principio per cui se qualcosa o qualcuno non ci sta simpatico
è legittimato a subire meritatamente la demonizzazione sociale e l’ostracismo culturale.
Sì, capisco che in questo modo si vuole creare una condizione didattica che
renda agevole l’apprendimento ad ogni studente di qualsiasi età, ma siamo
realmente sicuri che ciò renda migliore o più solida e convincente l’azione
teorica delle discipline pure? Non mi sembra, anzi ciò agevola ancora una volta
certi creativi del falso a formulare idee e convincimenti che si arrogano la
patente di profeti di verità assolute, che sono scesi dalla montagna o dalla
torre eburnea della cultura accademica e specializzata a presentare o venire a
presentarsi al mondo (o al volgo? Fate voi..), sovente in modo interessato,
come dicitori di “cose scientifiche” o “oggettive” e quindi, la loro parola
deve dirsi e accogliersi degna di stima, di considerazione e adorazione. Non lo
credo, e quando ciò succede mi rodo nervosamente, perché questi personaggi sono
sempre quelli tediano con la loro fede popperiana, fede che personalmente
maneggio con una certa cura e spesso con diffidenza. La conoscenza della
scienza è qualcosa di serio, anche di estremamente noioso, ma decisivo e
fondamentale e non ha nulla a che fare con la faciloneria che una certa
creatività letteraria e massmediatica pretende di divulgare. Vorrei dire, o
forse auspicherei che questo genere di situazioni non mi avranno mai, ma
mentirei spudoratamente, visto che sono in cerca di sponsor anche io e
tuttavia, non riesco a trattenermi dal dire la mia, pur sapendo che è
antipopolare, controtendenza e inutile, oltre che controproducente.