mercoledì 26 febbraio 2020

Una presunta affinità concettuale. L’irriducibilità dell’erotismo nella pittura figurativa austriaca di primo Novecento



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Ammetto che quanto segue prende spunto da uno speciale proposto dalle reti Mediaset, che non ho visto e che per ovvie ragioni evito di commentare, tuttavia il titolo dello speciale, Eros e Psyche, suggerisce le coordinate sulle quali viene impostato il racconto dell’amicizia e della co-militanza artistica tra due dei maggiori esponenti della pittura austriaca di prima metà Novecento, cioè Gustav Klimt e Egon Schiele, fondatori della Secessione austriaca del 1907. In questo caso (presumo), l’erotismo è il registro (non l’unico a quanto pare) con il quale si tenta di descrivere questo rapporto e delineare al contempo una lettura sinottica dell’opera dei due artisti, ma che ha un suo preciso limite e inizio temporale, verosimilmente a partire dal 1907, anno in cui Klimt entra in contatto con vari esponenti della avanguardia espressionista austriaca tra cui appunto, Schiele, che si fa notare dall’artista più anziano durante la frequentazione di questi alle attività della Accademia di Belle Arti di Vienna e di cui diventerà in seguito amico. Una storia di amicizia dunque, ma non solo visto che è proprio a partire da quell’anno che Klimt si accosta più decisamente alle soluzioni espressionistiche e di cui accoglie le urgenze espressive, come rivelano alcuni ritratti femminili di questa fase (Fritza Riedler, 1906 e Adele Bloch-Bauer, 1907 entrambi conservati presso la Galleria Osterreichische) e che fanno di Klimt un vero “intermediario” (Eisler [1931]) della direzione dell’arte figurativa austriaca nel primo Novecento.

È vero che il tema erotico, in particolare il ritratto di figure femminili, è comune in molte opere dei due artisti, in Klimt addirittura è una costante tematica, tuttavia è evidente che l’erotismo descritto dai due pittori non è il medesimo, e ciò non solo a causa della difformità di stile. L’erotismo è un tema ricorrente nell’arte europea, ma è pur vero anche che la stessa storia dell’arte figurativa presenta svariate e sovente difformi rappresentazioni dell’erotismo, anche tra artisti che operano nella stessa stagione artistica. In tal senso, i due artisti non fanno eccezione, semmai viene da chiedersi tutt’altro, e cioè quanto l’arte figurativa possa dirsi realmente lo strumento privilegiato con cui raccontare e descrivere l’erotismo – ovviamente oggi ne esistono tanti altri compresa la virtualità tridimensionale. In questo caso, quanto la soluzione figurativa proposta da questi due artisti possa raccogliere realmente la portata trasgressiva e deviante che la sessualità esprime sia in termini di immaginario, sia in termini di appagamento anche feticistico-voyeuristico. Il nudo femminile (e in misura più limitata il nudo maschile) mantiene, indipendentemente dallo strumento espressivo (pittura, fotografia, scultura, …), una cifra profondamente correlata allo stile, alla forma artistica, negando in questo modo il suo essere predeterminato: l’erotismo ha a che vedere sì, con l’esibizione del corpo, ma non si limita e non si compie esclusivamente su questo.

Klimt e Schiele sono una delle tante apoteosi di questo modo di intendere e raffigurare l’erotismo, ma ciò non vuol dire che essi trovano nell’erotismo la cifra qualificante della loro pittura. Il nudo e la sensualità sono solo dei pretesti, dei soggetti qualsiasi, come può essere una cesta di frutta o un paesaggio, anche se c’è da dire che il ritratto eseguito si carica di significati che proprio la creatività estetica e la sensibilità artistica individuano e fissano in quell’immagine prodotta. Creatività e intuizione certo, ma l’erotismo è un tema che per quanto lo si possa considerare autoreferenziale ha una sua convenzionalità che gli deriva dalla storia, dalla forma e dalla tradizione censoria. Ecco perché in una certa misura la pittura erotica è l’immagine di una stereotipia che si è storicizzata sotto forma di “narrazione”, ma è anche il momento stilistico che non si lascia assorbire totalmente e integralmente da suddetta costruzione.

È il tema che può ritrovarsi in questa relazione artistica.

Il tema erotico è forse uno dei temi che più di altri rivela la collocazione “attuale” dell’opera d’arte nel suo presente, ma anche nel presente di altre epoche, tanto che la categoria erotica definisce un proprio spazio di posterità che la inserisce nella storia e nella stereotipia dell’immaginario di una civiltà, nel suo sistema della comunicazione ordinaria. Basti pensare a La nascita di Venere di Sandro Botticelli, un’opera che ognuno di noi percepisce come assoluta, come fuori dal tempo, eppure rappresenta un’idea di erotismo che ci appartiene molto labilmente; oggi continuiamo ad accettare questa forma di erotismo come modello culturale, perché è la civiltà rinascimentale ci appartiene, è un momento della storia europea e ha contribuito a comporre il significato della fase attuale. Un’assimilazione che riguarda sì, gli eventi della storia, ma anche le forme di arte, le quali codificano in sistemi ideali e concettuali tradizione e memoria (es. il naturalismo figurativo), comunicazione culturale-ideologica (es. arte pubblica), e che costituiscono a loro volta una precisa direzione sulla quale indirizzarsi nella costruzione degli immaginari, almeno fino al definirsi della prossima rivolta di tipo neodadaista o simile. In sostanza, l’erotismo è esso stesso (o è diventato) una struttura narrativa, per cui interrogarsi sulla relazione tra Klimt e Schiele tramite questo registro significa non essere del tutto sicuri di non rimanere avvinti da questa narrazione, fosse anche di natura archetipale.


Ma la pittura può rimanere immune da questo condizionamento? Definiamo un contesto e una prospettiva.
L’erotismo non è solo una rappresentazione di corpi nudi, ma è il tentativo irrisolto (e forse irrisolvibile) di cogliere quello “spossessamento” (Bataille) che l’esistenza ed il divenire storico opera sulle umane possibilità temporali. L’erotismo non è una immagine, ma, per così dire, il symbolon di questa incapacità strutturale dell’uomo di dare definizione materiale al “poter-essere” delle cose, di illudersi di poter fermare il tempo e di fissare al contempo una realtà assoluta che possa essere riprodotta all’infinito. Una visione che è di per sé una trasfigurazione metafisica della sensibilità, potente certo e instabile, ma che ammette necessariamente una costruzione ed un ordine che sono estranei al piano dell’immediatezza dei sensi. La nota definizione data dal saggista francese Georges Bataille nell’introduzione de L’erotismo (1957), opera pubblicata postuma nel 1961, fissa il seguente concetto,

“Dell’erotismo si può dire che è l’approvazione della vita fin dentro la morte. In verità questa non è una definizione, ma ritengo che una simile formula possa dare più di ogni altra il senso preciso dell’erotismo. Se fosse richiesta una definizione esatta, bisognerebbe senza dubbio risalire all’attività sessuale di riproduzione, di cui l’erotismo è una forma particolare. L’attività sessuale di riproduzione è comune agli animali sessuati come l’uomo, ma, a quanto sembra, solo quest’ultimo ha fatto della propria attività sessuale un’attività erotica; ciò che differenzia la semplice attività sessuale dall’erotismo è una ricerca psicologica indipendente dal fine naturale insito nella riproduzione e nella cura dei figli”.

La concezione erotica di questo saggista francese non può disgiungersi dalla produzione narrativa come rivela Alexandrian nella sua Storia della letteratura erotica [1994], ma che trova una sistemazione coerente proprio nelle opere saggistiche. L’erotismo batailleiano rivaluta la propria derivazione dal sistema delle proibizioni e dei tabù, che è la ragione autentica da cui scaturisce non solo la costituzione dell’oggetto desiderato, inteso come realtà proibita e illecita, ma anche l’affacciarsi di una morbosa passione irrefrenabile e autodistruttiva (cfr. ib., L’abate C.). Il desiderio erotico è la rappresentazione vitalistica dell’irriducibile polarità tra l’etica pubblica e la sfera privata, quest’ultima spesso prevaricante su quella in quanto derivata dall’esperienza interiore del soggetto e dal basso materialismo archetipale ed inconscio che configura l’immaginario erotico e non solo dell’io. Un erotismo questo batailleiano per nulla addomesticato, deviante e delirante e che elabora un significato di follia erotica, già elaborato dagli esponenti del Surrealismo francese e in particolare di Aragan.
Scrive Bataille in Storia di topi, raccolto in L’impossibile [1962],

“È strano che lo stesso bagliore insensato brilli per tutti gli uomini. La nudità fa paura: la nostra natura deriva totalmente dallo scandalo in cui la nudità ha il senso dell’orribile… Quel che si chiama nudo presuppone una fedeltà lacerata, non è che una risposta incerta e imbavagliata al più torbido dei richiami. Il furtivo bagliore intravisto nell’oscurità non richiedeva forse il dono di una vita? Ognuno, sfidando l’ipocrisia di tutti (quanta stupidità nel fondo dei comportamenti «umani»!, non deve forse ritrovare la via che lo conduca, attraverso le fiamme, alla sozzura, alla notte della nudità?”
(L’impossibile, SE, p.30)

L’idea di fondo nella prospettiva batailleiana è questo vitalismo nichilistico che risulta refrattario ad essere assimilato e compiuto in forme esteriori che svilisce la spontaneità e l'immediatezza, anche se queste sono e appaiono al giudizio sociale perverse, degradanti e deliranti. Il nudo non è un concetto, ma proprio quella apertura alla realtà metafisica della morte, come dire l’essere e rimanere esposti (inermi) dinanzi ad uno stato ineluttabile che non è estraneo alla dimensione dell’esistenza – la nudità è un richiamo, come lo è in fondo la morte e che insegna l’irrilevanza delle forme esteriori e dei costrutti pubblici. E per tale ragione la nudità è strutturalmente uno stato dell’essere che ha in sé una cifra di trasgressione e di eversione dinanzi ai costumi, perché li previene, li rifiuta, li sconvolge. L’esperienza erotica non può essere né contemplazione né visione, ma è una espansione di sensibilità da cui scaturisce l’angoscia che produce il divieto ed il desiderio che induce il soggetto a violarlo. Una irrefrenabile inquietudine che eccita l’uomo, ma che lo induce a distruggere al contempo la proibizione e il tabù, in quanto sono come tutte gli altri sistemi culturali forme esteriori dell’esistenza con le quali l’uomo definisce ed impone la propria collocazione sociale e culturale nel mondo. Il desiderio erotico è un atto di rivolta con il quale il soggetto configura un nuovo ordine che non è più quello pubblico, ma quello “privato” che tende a sostituirsi a questo.

In base a questi assunti la produzione di immagini erotiche non può ammettere una matrice sociale, non si può ritenere che esista un erotismo che non sia irriducibile alla morale pubblica, anche se da questa trae la propria ragion d’essere, né si può ritenere che l’erotismo tragga la propria legittimazione da una narrazione che la preceda e che la giustifichi pubblicamente. E ciò vale per qualsiasi attività o produzione culturale che opera nell’esteriorizzazione di contenuti, che magari abbiano pure la pretesa di presentarsi come forme senza tempo per via della storia, della tradizione, dell’immaginario, del diritto, dell’arte figurativa.

Definita in questi termini, la questione del rapporto tra erotismo ed arte è molto più di un mero registro con il quale rileggere due esistenze, per quanto affini e correlate tra loro da rapporti di amicizia, ma definisce un quesito estetico di non facile soluzione per la stessa arte figurativa novecentesca, la quale si è mossa verso soluzioni figurative fortemente drammatizzate e verso un contesto formale e disciplinare che non è più quello figurativo (es. il teatro con le drammatizzazioni Happenings, Fluxus, Body Art e via dicendo). Il tema erotico è o rappresenta il punto nodale di una questione estetica che supera il fatto che la nudità sia un’esposizione di corpi – tema da cui non sono estranee neanche le più recenti produzioni di immagini come la fotografia.


Ciò detto, l’erotismo espresso dalle opere di Klimt e Schiele raccoglie perfettamente quella idea batailleiana per la quale la nudità è già di per sé un dato scandaloso, in parte per le ragioni profonde descritte dal saggista francese, in parte per un’ipocrisia culturale e deficienza tipicamente occidentale, cioè la nostra incapacità di accettare che possa esistere un piano immateriale, come è quello dell’immagine erotica, e risultare estranea ad ogni ricollocazione schematica e ideale. A suo modo l’arte figurativa prova a creare una narrazione sullo erotismo e se osserviamo le realizzazioni pittoriche che lo hanno riguardato si ha l’impressione appunto, che possa esistere una storia figurativa dell’erotismo e quindi, una narrazione vera e propria su di essa. Il fatto è che bisogna distinguere il piano filosofico della questione come in fondo ha fatto Bataille, da quello estetico che riguarda rettamente la storia dell’arte. In tal senso, l’erotismo diventa uno dei diversi registri tramite il quale l’attività di un artista si esplica, producendo immagini che ne fissano iconicamente anche alcune cifre decisive della propria creatività e aspetti rilevanti della propria opera artistica, ma ciò significa che in questo caso non sia possibile parlare di una unica categoria concettuale, bensì di tanti e diversi erotismi quanti sono gli stili e le intuizioni creative che lo hanno definito.

Klimt e Schiele sono un momento di questa dimensione o storia, tra l’altro non so quanto rappresentativo, ma che appartiene alla storia della pittura, anziché dell’erotismo in sé. In ogni caso, l’erotismo klimtiano di sicuro ha perso nell’evoluzione stilistica del discorso pittorico dell’artista austriaco quella cifra scandalosa che ne aveva caratterizzato gli acuti della prima produzione. Le figure femminili di Klimt esibiscono una sensualità immediata, non necessariamente spontanea, che tra Ottocento e primo Novecento destavano scandalo, più che altro per una "pruderia" sociale e pubblica, che per una qualche sconvolgente concezione erotica. È il corpo femminile nudo a destare scandalo e soprattutto la riconoscibilità della sua funzione biologica legata alla riproduzione, funzione che Klimt esalta nelle due versioni di Speranza, ma connotate da un significato che è meno urtante di quel che il perbenismo dell’epoca potesse ritenere. L’erotismo klimtiano è in buona sostanza molto stereotipato e risponde ad una visione molto tradizionale, che potrebbe piacere anche alla attuale cultura cattolica, quella cioè per cui la sensualità del corpo femminile sta essenzialmente nella sua capacità di definire il concetto di maternità: le donne klimtiane non sono l’oggetto di una sensualità sfrenata e autodeterminata, ma essenzialmente madri. Laddove la sensualità non può declinarsi seguendo il registro funzionale della riproduzione materna l’erotismo klimtiano ripropone il tema figurativo molto rassicurante di una innocenza giovanile, trasfigurando le sue candide ninfe in sognanti ed oniriche figure evanenscenti e per nulla corrotte o deturpate dal peccato, dal vizio, dalla decadenza. Un esito questo molto reazionario e che si palesa proprio a partire dai suoi contatti con le grandi figure dell’Espressionismo austriaco: non è casuale, a mio avviso, che vi sia un ritorno da parte di Klimt dei temi della mitologia greca, quegli stessi che lo avevano aiutato a definire l’illusorio progetto della sua opera totale. Ma opera totale significa opera assoluta, cioè una opera che rimanga avvinghiata all’attualità perennizzata dalla storia e dall’immaginario ad essa correlata. I quadri a tema erotico per acquisire questa dimensione devono formalizzarsi in una composizione concettuale, che li rende eterei e soprattutto dislocati e sospesi in una temporalità che non esiste e che solo la fantasia ed il sogno possono dare. Per tale ragione, i grandi ritratti femminili di Klimt sono certamente il momento più convincente della sua attività pittorica, perché esprimono immagini che non sono virtuali o smaterializzate; insomma, non si collocano dentro una preconcetta e preventiva narrazione.


Altro discorso per quanto riguarda l’erotismo di Egon Schiele, che non ha questa cifra sognante e onirica di Klimt. Il materialismo erotico di Schiele deriva anzitutto da un esito stilistico. La sensibilità espressionista che Egli deriva dal gruppo espressionista lo conducono ad avere una visione inquieta dell’esistenza che si traduce in un disegno molto ordinato e da una cromia che abbandona i toni brillanti dello Jugend e privilegia i contrasti cromatici: manifesto di questa fase della pittura schieleiana è il Ritratto di Poldi Lodzinski (1908). L’erotismo in Schiele rappresenta una conquista di serenità espressiva, il calare di intensità di quella inquietudine che lo divorava, tanto che i quadri a tema erotico si collocano a partire dagli anni Dieci. Ma a differenza di Klimt che ha privilegiato sempre la figura femminile come immagine erotica e morale, Schiele introduce una variante meno convenzionale, il nudo maschile. Il nudo maschile rappresenta inevitabilmente un distacco dalla usuale produzione iconografica, anzitutto per il soggetto e poi perché risulta meno permeabile alle sovrastrutture ideologico-narrative: se la figura femminile klimtiana può veicolare l’idea tradizionale della maternità, la figura maschile diventa l’emblema di un paesaggio erotico attraversato da forti contrasti, ansie e derive degradanti; un paesaggio che non ha la finalità convenzionale dell’immagine erotica, quella cioè di essere una forma accattivante e seducente. In tal senso, lo scandalo che suscitano i ritratti erotici di Schiele è realmente una reazione di disagio profondo dello stesso sistema culturale austriaco e più in generale europeo, in quanto vede nel corpo maschile il denudarsi senza riparo e l’esposizione inerme di ansie irrisolte.

Un esempio di questo diverso modo di intendere l’erotismo è l’autoritratto del 1910 dal titolo Nudo maschile seduto. Autoritratto, dove si ravvisano i tratti fondamentali dell’opera di Schiele di questo periodo. La figura del corpo non ha alcuna idealizzazione estetica e men che mai concettuale; l’idea di concreta attualità è data dalla figura di un corpo che esibisce la propria imperfezione stilistica, non vuole sedurre, eppure trova nella propria nudità quella libera apertura e naturevolezza che non ha nulla di artificiale, o di costruito. Il piano del ritratto è quello bidimensionale e la figura lascia di sé un senso enigmatico, acuito da una colorazione cupa del corpo, ma dall’evidente linea di contorno che distacca e solleva dal fondo monocromo il soggetto, in atto di tentare un incerto (e mal riuscito) nascondimento della propria persona: l’esposizione del corpo è totale e nonostante la reazione di pudore che trasmette una specie di vergogna l’uomo è offerto senza paramenti alla vista dello spettatore. In questo caso, la nudità non è oggetto di desiderio, come è nella classica visione erotica, ma è l’esteriorizzazione di una condizione materiale ed esistenziale, da cui volendo ogni soggetto non può sottrarsi: il pudore accennato non riguarda la vergogna adamitica di ritrovarsi esposto agli sguardi altrui, ma l’impossibilità di coprire questa nudità senza che questa stessa azione appaia meno violenta e mendace che il lasciarsi privi di indumenti. L’immagine schieleiana non intende inscriversi nell’immaginario erotico e darsi in pasto allo spettatore, eccitandolo o illudendolo su incredibili appagamenti, ma è il palesamento di una vitalità che mal si acconcia all’ordine culturale: non un’enfatico ritorno all’ingenua primitività, ma un atto pieno di consapevolezza, dissacrante non del corpo maschile, quanto dell’intero sistema culturale che ha codificato alcuni (e solo quelli) paesaggi erotici.

L’accusa di pornografia, ovviamente mal posta dal pensiero benpensante, è in fondo una conferma del senso espresso dall’opera di Schiele. Pornografia qui, non consiste nell’esibizione svergognata degli organi genitali, chiaramente visibili, oppure in qualche lasciva e sconveniente gestualità dell’uomo, ma nel fatto che la stessa situazione dell’esistenza umana trovi nel corpo maschile il suo modo con cui comunicare drammaticità e un certo senso di realismo – evidenziato dalla peluria delle cosce. In tal senso, l’erotismo di Schiele ricorda il vampirismo di Edward Munch, vale a dire che non è la dimensione in cui vi si possa trovare quell’esaltazione sensuale e emancipatrice dell’uomo come in alcuni quadri di Henri Matisse (Matisse, Joeu de vivre), che verrà in seguito vampirizzata dalla stessa composizione, ma è il piano di una nudità che esibisce l’esistenza umana nel suo essere inerme. Una condizione drammatica che può solo alleviarsi, ma non estinguersi, neanche se si è parti di una coppia. L’olio su tela di Schiele, dal titolo L’abbraccio (1917), presenta una situazione erotica canonica, la scena d’amore e di passione di una coppia, uomo e donna, pienamente coinvolti nel godere l’uno dell’altro e di condividere quella indefinita “verità di coppia” (cfr. Jean-Luc Nancy) che si rivela solo durante un rapporto sessuale. Qui, la passione, per quanto intensa, non può negare la condizione dell’esistenza, anche se la rende meno inquietante e meno cupa: il ricorso al segno dinamico vangoghiano e alla linea ondulatoria munchiana riversa la drammaticità insita nella condizione umana in un nuovo dinamismo della forma, che gli dà movimento, mutevolezza e vitalità.


È difficile dire (diciamo, lo è per me) quale di questi due erotismi conservi una carica di attualità e forse non è neanche necessario (e rilevante) stabilirlo, tuttavia quel che conta è il tema sopra indicato, cioè quale posto è possibile assegnare all’erotismo nell’immaginario umano, senza che ciò lo svilisca a causa delle strutture narrative che compongono e definiscono gli spazi semantici con i quali vengono configurati significati e valori espressi dalla comunicazione ordinaria. L’opera di Schiele una parziale risposta l’ha data, ma sembra ignorata dal sistema attuale ordinario e quindi, figurarsi dalla stessa pittura, a meno che si rinunci al figurativismo, ma questa è una tematica che sconfina i limiti del registro erotico.



Post Scriptum. La critica di Friedrich Nietzsche sull’attualità della storia ha avuto ampia diffusione molti anni fa in Italia, ovviamente a causa della così detta Nietzsche Renaissance, che ha riportato il filosofo tedesco alla attenzione delle giovani generazioni degli anni Settanta del secolo scorso. Tuttavia, l’idea nietzscheiana è servita a formulare – non so quanto consapevolmente – un acritico pregiudizio verso il pensiero sociale e verso i sistemi ideologici, pregiudizio necessario a quei tempi perché legittimava lo scontro filosofico tra una irriducibilità della sfera individuale del cittadino all’astratta volontà dello Stato, che si esprimeva sotto forma di logica di apparato, burocrazia ed educazione scolastica. Lottare contro questi sistemi e le loro forme era sì un dovere, in quanto l’Italia degli anni Sessanta non era stata in grado di consolidare i vantaggi acquisiti dall’inatteso boom economico di fine anni Cinquanta, ma divenne appunto, anche un diritto, come se si fosse dinanzi alla scelta di dare esecuzione ad un regicidio: i terroristi dell’epoca lo avvertirono pienamente questo discrimine e il caos da questi prodotto non è solo un arbitrio personale o di un gruppo, ma un preciso esito culturale. Ciò detto, il distacco tra elites di governo nazionali soprattutto e volontà (ma anche sovranità) popolare pone al centro la questione del valore e della partecipazione politica, molto prima che il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, si inventasse questa idea astratta (e bizzarra) di “questione morale”, indicando con questa etichetta una categoria concettuale e linguistica di grande successo che raccoglie tutti i mali possibili (corruzione, malversazione, indifferenza, …) prodotti dalla classe dei politici italiana e di governo in particolare, che per molti storici è diventata il preannuncio di ciò che sarà l’inchiesta milanese contro la corruzione operata dal Partito Socialista, nota come “Mani Pulite” e la caduta di quella che un tempo si chiamava “Prima Repubblica”. La fine di un’intera epoca politica, avvenuta tramite la mannaia giudiziaria e l’orrore di due sconvolgenti stragi mafiose nell’estate del 1991, hanno de facto azzerato il corso ordinario della storia della Repubblica Italiana, ma ne hanno aperto un altro che credo non si sia ancora del tutto concluso. Un nuovo indirizzo della storia dunque, ma anche una diversa narrazione di fatti e situazioni che compongono l’attualità di oggi e quella di domani (e chissà per quanto tempo). Ecco un aspetto perverso nel tema della memoria e che in Nietzsche si configura come “attualità”, cioè la capacità di poter estendere ben oltre i limiti temporali di un evento il suo ricordo e di inscriverlo altresì in una memoria collettiva che finisce per assimilarlo a luogo comune e a stereotipia. L’esaltazione che Nietzsche fa della “inattualità”, quasi fosse un titolo di merito indiscutibile e che appartiene alle elitès e non al popolo, alla massa, tocca proprio questa linea sottile della costruzione ideologica del ricordo, del pensiero sociale e più in generale degli eventuali programmi politici di una nazione o di una società: non siamo più all’epoca del poeta Pindaro dove il ricordo delle Termopili poteva essere manomesso per ricostruire la dignità nazionale dei Greci, ma ciò non significa che non esistono forme di costruzione della memoria collettiva o di influenza. Dicevo, il punto è che la attualità, o ciò che possiamo indicare come tale, non è altro che il sentimento diffuso e condiviso di una nuova narrazione imperante, come in fondo l’imporsi di una nuova moda o di un nuovo fenomeno sociale, con la differenza che in alcuni casi la questione su cui ci si imbatte è più complicata di quella relativa alla scelta di un taglio di sartoria. In fondo, Benedetto Croce, figura fondamentale nella cultura italiana del ‘900, non era stato molto chiaro in cosa consistesse effettivamente la “contemporaneità”, per cui siamo abbastanza convinti che se “attuale” significa “contemporaneo”, e quindi “attualità” e sinonimo di “contemporaneità”, allora di certo è possibile affermare che il suo opposto sia ciò che chiamiamo con il termine “passato”, per poi rimanere basiti e meravigliati quando scopriamo che mutatis mutandi qualcuno, magari qualche professore o uomo di cultura, ci fa credere che esiste per un certo evento un “ricorso” storico, come se l’essere stati nazisti o fascisti sia una ineluttabilità del futuro che ci toccherà ripetere. Quanto vario e variabile è l’applicabilità delle strutture narrative al mondo della cultura, e quanto forte sia il suo potere euristico di riplasmare forme e contenuti, il che non ci assicura su autenticità di immagini e sul loro genuino valore non ideologico: forse si ha bisogno di coscienza critica, o si dovrebbe puntare nuovamente su qualcosa di questo tipo, ma mi pare che ci fu una svendita alcuni decenni fa di banconote di “coscienza critica”, che ha portato ad una deflazione da cui non si è ancora usciti, e a quanto ne so neanche la banca nazionale è più in grado di cambiare i pochissimi biglietti che sono attualmente in circolazione...

sabato 22 febbraio 2020

Sul gioco del Filetto



#GiocoDelFiletto, #FedericoPieretti, #MartinGardner



Il Gioco del Filetto è certamente tra i giochi astratti con scacchiera più antichi della storia umana, e per questa ragione è possibile trovare in molti manuali di divulgazione la descrizione della sua meccanica di gioco, oltre che la sua antica storia. Come nel caso della descrizione data da Federico Pieretti nel suo Il matematico si diverte [2010], dal quale apprendiamo che vi sono molte testimonianze archeologiche che ne attestano l’antichità: tra queste vengono menzionate le incisioni rinvenute nel tempio egizio di Kurna, a Tebe, nell’Alto Egitto, edificio iniziato a costruire sotto il faraone Ramses I e completato poi sotto il faraone Seti I. Ma, come detto, le testimonianze egizie non sono le uniche; alcune testimonianze rinvenute in Cina, all’epoca di Confucio parlano del Filetto, anche se all’epoca si usava chiamarlo con il nome di Liubo o di Luk Tsut k’i’: una diffusione che va oltre l’area mediterranea come si è visto, ma che sconfina anche oltre i limiti temporali dell’età antica, infatti incisioni che rappresentano il tavoliere da gioco sono presenti nella medievale Cattedrale inglese di Canterbury oppure sul pavimento di Westminster, ma anche presso alcune rocche medievali italiane.

Una diffusione ampia dunque, ma anche una variabilità di nomi e versioni. Il Gioco del Filetto che si gioca su un tavoliere è la versione più semplice ed in era cristiana (o tardo antica) si era soliti giocarvi a Roma usando uno schema quadrato composto da nove caselle sulle quali si collocavano alcune monete. La meccanica di gioco prevedeva che ogni giocatore muovesse a turno, cioè mettesse una moneta su uno dei quadrati disponibili e seguisse una direzione diagonale – si muoveva solo in diagonale! -, questo fin tanto che lo schema fosse completo o fino al raggiungimento di una terna diagonale. Questo schema rimane per lo più invariato nel corso dei secoli, tanto che le variazioni sono minime e riguardano il nome del gioco. Martin Gardner ci dice che nel 1300 in Inghilterra il gioco venisse chiamato mill, come oggi accade negli Stati Uniti, vale a dire morra dei tre uomini, la quale si caratterizza per un preciso divieto alla prima mossa: poiché l’occupazione della casella centrale avvantaggia solo il primo giocatore, di regola era previsto che la prima mossa non riguardasse appunto, questa casella, in questo modo si crea una situazione di gioco dove la distribuzione dei vantaggi fosse più equa. Ora, a secondo dei divieti imposti alla strategia di gioco ed alla sua localizzazione geografica esistono varie versioni, che lo stesso Gardner descrive in un suo articolo esaustivo,  contenuto oggi in Enigmi e giochi matematici pubblicato in Italia dalla Rizzoli nel 1983, di cui esiste una edizione del Corriere della sera del 2014. L’articolo del divulgatore statunitense raccoglie molti degli argomenti correlati al Gioco del Filetto e che in seguito saranno variamente riproposti negli attuali manuali di matematica ricreativa (come nel caso del libro di Pieretti citato prima) o di semplici libri di divulgazione matematica, tuttavia c’è un dato rilevante nella dissertazione fatta da Gardner che mi pare interessante e cioè, come lo schema di gioco definisca un tipo di struttura matematica che può essere estesa ad ambiti di analisi e di ricerca molto lontani da quelli individuabili dallo stesso schema di gioco.

In realtà, lo schema di gioco rivela una certa versatilità nell’essere applicato in situazioni teoriche e pratiche insospettabili, quali a.e., la prospettiva proiettiva. Gardner cita una versione del Gioco del Filetto che utilizza un tavoliere a cubo, anziché la classica tabella dallo schema 3x3. In questo caso viene aggiunta un livello ulteriore, con il quale si descrive uno spazio di gioco che si sviluppa volumetricamente su un cubo del tipo 3 x 3 x 3. È una versione prototipo questa che definisce diversi tipi di filetti tridimensionali, la cui azione di gioco si sviluppa ortogonalmente, cioè in diagonale, lungo tutti i piani che compongono il cubo, tanto che si parla di “cubi riuniti”: esistono infatti, versioni del tipo 4 x 4 x 4, ma anche 5 x 5 x 5, tuttavia ciò che sorprende in questo tipo di strutture è che modificando la regione di gioco, in questo caso estendendola, il vantaggio che il primo giocatore può avere aprendo lui la partita si assottiglia clamorosamente, come appunto accade nella versione citata di 4 x 4 x 4. Per tale ragione, la costruzione di tavolieri più complessi, basati su una struttura di cubi riuniti rende la gestione della giocata più complessa e meno prevedibile di quella presente nello schema classico.

Comunque, ciò che rende il Gioco del Filetto matematicamente interessante è il fatto che ogni turno di gioco determini una precisa scelta da parte del giocatore, spesso, come può osservarsi facilmente nello schema classico, prevedibile o “suggerita”, in quanto obbligata dalle possibilità che si vengono a determinare nella scacchiera. A tal riguardo, lo studio del Gioco del Filetto collegato alla creazione dei primi ed elementari calcolatori non è una idea bizzarra. A tal fine, Charles Babbage elabora il progetto di una macchina pensante, una sorta di prototipo degli attuali robot ad intelligenza artificiale (solo che Babbage è dell’epoca vittoriana!), che consiste nel creare uno schema di gioco, con apprendimento automatico, che impone alla macchina due tipi di scelta, dalle quali ottenere tre tipi di risultati che sono 0, 1 e 2, vale a dire numeri che quantificano il successo o meno della scelta di gioco effettuata. Ed in base a questi risultati modificare meccanicamente, cioè automaticamente, la propria strategia di gioco (strategia di scelte). Questa intuizione di Babbage definisce la base concettuale del concetto di “informatica”, termine con il quale indichiamo lo studio degli strumenti e degli apparati che permettono di realizzare un calcolo automatico. Una idea che è alla base della macchina automatica (a-macchina) di Alan Turing, o semplicemente la Macchina di Turing, che opera tramite un calcolo computazionale, cioè tramite una serie di schemi di scelte operative applicati a specifiche situazioni in cui si trova ad operare la macchina (cfr. Mattia Monga, Turing. La nascita dell’intelligenza artificiale, 2016). L’idea di base della Macchina di Turing è quella di costruire una macchina “addestrata” o “educata” a compiere l’attività che deve svolgere, e ciò che sorprende in questa intuizione che lo schema modello di riferimento per questo tipo di operatività è una modellizzazione astratta riferibile proprio allo schema di gioco del Filetto.

A questo punto è evidente quanto sia versatile e come possa essere applicabile lo schema di gioco del Filetto, il che lo rende più attuale e meno scontato di quel che a prima vista sembrerebbe, tuttavia c’è da aggiungere che lo schema di gioco del Filetto ha a prima vista una non equa distribuzione dei vantaggi, come viene detto da Pieretti nel suo paragrafo dedicato al Gioco del Filetto: altri autori hanno messo in rilievo proprio questo fatto, anche lo stesso Gardner che nel volume menzionato propone un enigma dove si chiede quale strategia risulti conveniente al secondo giocatore per riequilibrare la disparità di opportunità nell’andamento del gioco. La soluzione la si può leggere nell’appendice allo stesso articolo di Gardner, tuttavia vi è un altro interessante quesito sul Gioco del Filetto proposto dal divulgatore statunitense (cfr. ibidem, Enigmi e giochi matematici, vol.V, 1976, p.141) e che riguarda appunto, la struttura della stessa azione di gioco del Filetto e che rivela una modifica dei criteri di gioco o di costruzione dell’azione di gioco: lo scopo ovviamente è quello di migliorare le chances di successo della strategia di gioco del secondo giocatore. Il quesito (in realtà una variante) è posto da un signore inglese, tale A.K. Austin di Hull, che può considerarsi per certi versi una modifica diabolica. Lo schema di gioco rimane quello classico, a turno due giocatori segnano sul tavoliere uno O oppure una X, ma introduce l’innovazione per la quale ogni giocatore cambia nel proprio turno di gioco il segno da apporre sullo schema, ciò vuol dire che che il primo giocatore segna l’apertura con una X, il secondo giocatore non è tenuto a segnare con uno O la propria mossa. La finalità di questa azione (ammessa come condizione di gioco) è quella di destrutturare i vincoli di gioco, cioè le stesse possibilità che sono imposte dalla meccanica di gioco e dallo schema di gioco, sconvolgendo così la costruzione o la definizione di una eventuale strategia di gioco: questo sistema inibisce la caratteristica decisiva del gioco, quella di produrre e consegnare al giocatore di turno una serie di “trappole”, cioè di scelte obbligate, ma evidentemente infruttuose e senza successo.


Post Scriptum. Il Gioco del Filetto è uno dei giochi che ha caratterizzato la mia infanzia, perché disponevo con i miei fratelli di una scacchiera economica di medie dimensioni ribaltabile, dove sulle due facce del tavoliere era riportata una scacchiera da dama e uno schema di Mulino, cioè tre quadrati inscritti l’uno nell’altro e collegati da dei tratti che fungevano da “ponti” allo schema successivo. Mi ricordo pure che ebbi la ventura di giocare in una versione del Mulino, dove lo schema di gioco era fatto “a croce” e che componeva un gioco in scatola di mia nonna (ricordo infatti di averci giocato con mio zio materno: una vita fa, insomma), ma è ai tempi della scuola il Filetto occupava alcuni momenti di svago, un poco perché era l’unico gioco che si poteva fare durante le ore libere nell’orario scolastico, un poco perché un compagno di scuola, appassionatissimo o forse perché conosceva le posizioni vincenti dello schema, imponeva me e a qualche altro di giocarci. Comunque sia, mi ricordo che una volta passammo quasi un’intera giornata di scuola a giocare a Tris (l’altra versione del Gioco del Filetto), tanto che ancora oggi mi vengono in mente immagini di fogli volanti strappati dai quaderni ed io munito di penna a sfidare il compagno libero o disponibile ad accettare la mia sfida: in quella occasione organizzammo un piccolo campionato di classe e mi pare che fu una giornata divertente.    

giovedì 20 febbraio 2020

L’oggetto che non ti attendi. Come il piano geometrico condiziona la forma



#PianoGeometrico, #PietroTortorici, #MartinGardner, #RobinJamet, #GeometrieNonEuclidee



È abbastanza noto che la costruzione euclidea della geometria si fonda su un sistema di proposizioni e di termini tramite il quale comporre un discorso astratto, ma razionalmente valido, dove ogni parte dello stesso ha il carattere della autoreferenzialità, nel senso che trova negli elementi precedentemente definiti materiale e oggetto delle dimostrazioni. Pertanto, linee, punti, angoli financo le figure geometriche sono tutti dati sintetizzati, cioè costruiti e per nulla assunti come predeterminati, almeno così sembra alla apparenza. La versione a cura di Pietro Tortorici degli Elementi di geometria di Euclide (Firenze, 1967) rivela in modo evidente come la presunta razionalità di cui si diceva prima si basi a sua volta su alcune implicite ammissioni, soprattutto sulla ammissione della “primitività” dei concetti base dello stesso discorso geometrico. Tutti gli elementi che compongono il trattato di Euclide sono in buona sostanza dati intuitivi, presunti come tali a causa della loro “originarietà” e su cui in effetti, non è semplice dare una definizione che non sia olistica. Pertanto, si ha la situazione antiscientifica per eccellenza (stando a sentire Umberto Eco) per la quale si utilizzi una idea o una categoria filosofica (cfr. il tema dell’essere in Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco [1997]) senza sapere effettivamente cosa essa sia. Ciò accade per l’idea di punto, ma per tutti gli altri termini del discorso euclideo.
A riguardo, anche il tema del piano non è esente da questo tipo di approccio e quindi, anche la definizione di piano rientra tra i primitivi di una attività che vuole essere assertiva, dimostrativa e costruttiva, vale a dire che mira a costruire da sé tutti i termini che compongono il mondo a cui fa riferimento. In ogni caso, in base all’intuizione Euclide definisce il piano come il luogo (cfr. Aristotele per il tema del “luogo”) dove si trovano collocati tutti i punti, che sono gli elementi compositivi del piano e di cui Euclide stima un numero infinito. Il piano è infatti, il luogo di tutti i punti. Pertanto, tutti gli oggetti che derivano dall’interazione di questi punti descrivono dei corpi o figure collocate su questo medesimo piano: le figure geometriche hanno una base, un loro fondamento “fisico” su cui poggiare. Per tale ragione, è di estremo interesse ad Euclide dimostrare che gli oggetti che la geometria descrive poggino su un piano e a tale obiettivo sono rivolti i primi postulati. Per la precisione, Euclide fissa alcune specifiche condizioni

“Se una retta ha due punti comuni con un piano essa appartiene al piano” (Postulato I).

Disegnare due punti non è scrivere dei segni senza basamento, ma vuole dire che questi oggetti si trovano su qualcosa; questo appoggio (motivato da una esigenza intuitiva) definisce una implicita condizione, quella cioè che in virtù solo di questo fatto la retta passante per due punti A e B si trova collocata su un piano e, cosa più importante, appartiene essa stessa al piano in questione. Ciò significa che il tracciato descritto dai due punti e che descrive una retta o un segmento indica una precisa forma in una parte di regione del piano. Ammesso che questo tracciato dal punto A al punto B sia molto lungo tanto da dividere in due il piano, la divisione di detto piano produce due semipiani, cioè due regioni di piano distinte e di cui i punti della retta sono termini in comune.

Ciò detto, quel che è interessante nei primi rudimenti introduttivi di Euclide non è tanto questa differenza (che può definirsi qualitativa) tra piano e semipiano, quanto invece l’assunto prima ricordato che due presi punti qualsiasi questi siano necessariamente appartenenti da un unico piano. In merito, interviene l’altra precisione data dal Postulato II, che dice

“Esiste un piano ed uno solo contenente tre punti dati, non in linea retta” (Postulato II).

La definizione di prima introduce una ambiguità concettuale che il Postulato II cerca di risolvere e cioè, che i due punti presi casualmente non siano a loro volta gli estremi di due piani differenti, magari sovrapposti o paralleli. Il Postulato II suggerisce che questo terzo punto assicura che ci si sta muovendo su un solo piano e non su due, perché se fosse così, si dovrebbe ammettere che il piano non è uno, ma due e per giunta paralleli e bisogna ammettere anche che l’eventuale retta che passa per questo terzo punto non intersechi la retta che passa negli altri due punti, rimanendo anche essa parallela. È infatti, con il controverso Postulato V che lo stesso Euclide precisa come debba intendersi la situazione delle parallele ed in che caso c’è una situazione di rette parallele.

In questo momento, mi interessa rilevare le condizioni fissate dal trattato di Euclide e mostrare come il modo di operare dell’attività geometrica sia intensamente condizionato dalla struttura e dalla natura del piano geometrico. Pertanto, quel che mi preme evidenziare è come il piano geometrico appaia in questa descrizione euclidea una situazione inerziale, una sorta di paesaggio immobile, per lo più inattivo ed indifferente entro il quale si svolge tutta l’attività geometrica.

In realtà, la presenza del piano euclideo è profondamente condizionante e senza di esso l’attività geometrica mostrerebbe una modalità operativa molto differente da quella a cui l’educazione scolastica e la tradizione scientifica ci ha abituati; una forma mentis culturale e non solo contro la quale si innesca il noto dibattito sulle geometrie non euclidee verso la fine del XIX secolo.

Per quanto mi riguarda, mi interessa evidenziare che alcune caratteristiche operative sulle figure geometriche siano caratteristiche derivate proprio dalla struttura del piano. Esempio, l’indeformabilità delle figure ed il loro essere considerati da Euclide “corpi rigidi” è una cifra direttamente collegata al piano. La verifica della equivalenza di due figure potrebbe realizzarsi materialmente tramite una sovrapposizione delle figure in questione e vedere “materialmente” se siano uguali oppure no. Una possibilità questa, che Euclide ammette e che definisce come “movimento rigido”, tuttavia lo stesso Euclide è poco incline ad applicarla e preferisce compiere questa attività di verifica costruendo dei sistemi di proiezione dove riportare immagini speculari della figura da valutare e analizzare le condizioni che rendano possibile questa uguaglianza. Questo motivo euclideo si regge su due considerazioni:
  1. Applicare il movimento rigido significa “sollevare” dal piano la figura e catapultarla addosso alla altra figura con la quale la si vuole comparare. Una azione meccanica che può compiersi certamente, ma che rappresenta un arbitrio, in quanto ogni figura geometrica che compare su un piano, appartiene sì a questo ultimo, ma gli appartiene in virtù del fatto che è una “selezione” di piano, cioè è una parte di piano che viene configurata in quella precisa forma da altrettante specifiche relazioni tra i punti che compongono il profilo della figura.
  2. L’operazione di sovrapposizione tra le figure geometriche può compiersi tramite una traslazione delle forme in modo tale da farle coincidere: è negata da Euclide la possibilità che esse scorrano o scivolino l’una nell’altra, il che è intuitivamente comprensibile. Pertanto, per poter realizzare questo confronto bisognerebbe “piegare” il piano in modo tale che le figure che compaiono sulla sua superficie vengano ad appaiarsi e quindi, ad essere comparate. È come se si disegnassero due figure sulla faccia di un foglio e si piegasse questo ultimo per verificare quanto siano effettivamente uguali le figure che sono state disegnate. Concettualmente questo tipo di operazione è esclusa da Euclide, perché “piegare” il piano significa de facto modificarlo, ritenerlo deformabile e di conseguenza ammettere che possa assumere caratteristiche differenti da quelle valutate inizialmente.

Ecco il tema che mi interessa rilevare. La conseguenza più rilevante della crisi innescata dalle geometrie non euclidee non è solo – come è noto – la riformulazione del tema del parallellismo, che pure aveva dominato per secoli il dibattito geometrico, ma riguarda anche (e soprattutto) prendere consapevolezza delle conseguenze effettive che vengono a prodursi nell’attività geometrica operando sul medesimo piano. La piegatura dunque, del piano determina alcune situazioni sorprendenti e tutte in una certa misura ascrivibili alla libertà dai vincoli concettuali euclidei. Per capire ciò che intendo si consideri la seguente situazione.

Robin Jamet nel suo libro del 2014, dal titolo originale Vous avez dit Maths? De la maison à la ville, le monde en matematiques (it.: Siamo tutti matematici) propone un esempio molto semplice ed intuitivo basato sui vari formati tipografici. Immaginiamo di avere davanti a noi un grande foglio, delle stesse dimensioni utilizzate per i grandi cartelloni pubblicitari. Se lo si prova a dividere in due il foglio si riduce perché diventa la metà di quello di partenza, ma significa pure che cambia il formato e se continuiamo a piegarlo ancora si arriva ad ottenere un foglio A4, cioè un foglio di dimensioni adatto per le fotocopiatrici. In breve si ha quello descritto qui nella immagine


Una esperienza di questo tipo è irrealizzabile secondo i criteri euclidei, tuttavia quel che è interessante è che nell’effettuare le diverse piegature accade qualcosa di inatteso, accade cioè che il piano di partenza inizia a modificarsi e ad assumere caratteristiche molto diverse da quelle riscontrate all’inizio. La piegatura che si è effettuata infatti, propone l’azione meccanica che rinvia alla struttura concettuale dell’idea euclidea della sovrapposizione delle figure, ma anziché “dividere” il piano si limita a deformarlo, producendo gli esiti appena descritti: se il foglio di partenza a.e., lo si intende come un piano ed iniziamo a piegarlo, si realizza ciò che Euclide ricusava, vale a dire la deformazione del piano e la trasformazione delle proprietà fisiche iniziali. Una deformazione questa che rende assolutamente inservibile le operazioni tradizionali basate sulla riga e sul compasso. Altro esempio. È noto che uno dei problemi insoluti della matematica antica è la divisione in tre sezioni di un angolo, noto come trisecatura dell’angolo (gli altri sono la duplicazione del cubo e la quadratura del cerchio). Al riguardo, si può fare riferimento a ciò che dice il divulgatore statunitense Martin Gardner in Come trisecare un angolo, contenuto in Carnevale matematico (1975: it. 1977), dove viene spiegato come deve operarsi una trisecatura con riga e compasso al modo degli antichi greci e dove viene detto perché operando in questo modo non si possa giungere al sospirato obiettivo di ottenere tre parti perfette di un angolo.

Il già menzionato Jamet, nel libro indicato sopra a capitolo 4, dal titolo Carta-foglio-forbici!, ricorrendo ad un foglio offre un modo molto semplice ed intuitivo di una perfetta trisecatura dell’angolo; quanto descritto da questo matematico deve intendersi in relazione alla idea rivoluzionaria di concepire la geometria non tanto una attività fondata sulla verifica di profili, quanto nella pratica di “impacchettare” la realtà, il che vuol dire iniziare a guardare la dimensione reale come espressione di un sistema curvo, anziché lineare e piatto, come è in fondo alla base delle affermazioni euclidee. Ma ciò significa iniziare a ragionare in termini di topologia e di accettare la convertibilità strutturale del piano lineare con la superficie curva, una ammissione che conduce dritti verso la relatività di Albert Einstein.

In ogni caso, questo tipo di esperienze rivelano come la direzione su cui si è incamminata la scienza dopo la riformulazione complessiva della geometria classica ad opera della geometria iperbolica e della geometria ellittica è quella per la quale la struttura profonda della realtà è essenzialmente “plastilina”, una forma assai deformabile (dimensione spazio-tempo) e ricorsiva (come nel caso dei frattali) e quindi, come tale per nulla condizionata dai criteri fissi imposti dal trattato di Euclide. Ma questo tipo di struttura può essere suggerita, pur rimanendo nell’ambito delle figure piane, facendo riferimento ad una particolare categoria di oggetti detti flexagoni.

Ancora una volta è Martin Gardner a fornire una esaustiva descrizione in un articolo comparso in Scientific American, adesso contenuto nel libro del 1959, Enigmi e giochi matematici (ed.it. Rizzoli), a cui rimando, dove si apprende cosa siano questi oggetti, la loro storia ed alcune questioni collegate al tema della piegatura. In ogni caso, l’idea dei flexagoni e/o lo studio di essi, ma come per qualunque altro oggetto creato dopo la crisi dei fondamenti di metà Ottocento possono e devono considerarsi applicazioni e sviluppi concettuali prodotti dal dibattito sulle geometrie non euclidee, le quali hanno il merito di aver mutato non solo la percezione dello spazio fisico ed astratto, ma soprattutto la struttura fondamentale su cui si costruisce questa percezione. Più precisamente le geometrie non euclidee hanno apportato una modifica della struttura fondamentale del piano geometrico, una trasformazione decisiva senza la quale è impensabile ammettere i concetti fondamentali del paradigma teorico attuale.



Post Scriptum. Presentare il tema del piano geometrico nei termini che ho proposto sopra vuol dire dal mio punto di vista (ri)scoprire quello che la narrazione storiografica della filosofia occidentale sovente tende ad eludere, se non in alcuni casi a celare. Questo accade perché storicizzando il pensiero filosofico, i suoi temi e molte delle sue soluzioni affiora con evidenza come l’interesse della stessa filosofia si sia indirizzato verso una linea che non è più quella della epistemologia classica, anche se per molti secoli si continuerà a ragionare in termini epistemologici e addirittura vedere una rinascita della stessa epistemologia sotto forma di pensiero empirico-scientifico. Dico di più, il modo in cui il pensiero matematico ottocentesco abbia modificato non solo la stessa prospettiva geometrica, ma in particolare la costituzione profonda del piano geometrico sembra proiettarci nuovamente verso quella sensibilità epistemologica che ha orientato la civiltà e la cultura greca verso la speculazione astratta, differenziandosi e in molti casi anche migliorando i risultati apprezzabili raggiunti da altre civiltà nella stessa area mediterranea. Tuttavia, qualcosa si interrompe proprio durante l’affermazione di quell’antico razionalismo greco che sarà (almeno stante al panegirico usuale) il vanto della civiltà europea e che da sempre è indicato come apice e modello costante nello sviluppo futuro. Eppure, quel che accade al piano geometrico mi ricorda molto quella concezione pitagorica dell’Universo e che aveva profondamente influenzato la teoria fisica dell’ateniese Platone: l’idea sconcertante che dalla combinazione geometrica di alcuni solidi o di alcune semplici figure geometriche si potesse far derivare la realtà degli eventi fisici mi pare quasi richiamata da questa “deformabilità” e “plasticità” vietate delle strutture della realtà allusa dal piano euclideo; una idea profonda ed attuale che sembra avere il fascino tipico di bizzarre alchimie massoniche, ma qui si parla di oggetti astratti e non di utopie o di inconsistenti ideali filantropici…
ca  avevano già definito sistemi numerici validi e tecniche aritmetiche efficienti