giovedì 23 luglio 2020

Nuovo Urbanesimo #1. "A muro"...Andrea Camilleri. Un nuovo murale a Porto Empedocle


Nuovo urbanesimo

Ci sono delle urgenze, anche intellettuali, talmente impellenti, che chiedono, anzi pretendono attenzione e tutto il proprio interesse; fatti, situazioni o semplicemente dei dibattiti che nell’atto in cui reclamano la loro urgenza appaiono a distanza di tempo meno rilevanti di quanto lo si credeva nel momento in cui costringono proprio all’agone dialettico, o addirittura ad estenuanti contraddittori pubblici, privati, istituzionali e via dicendo – è sono i casi peggiori! – e tuttavia, hanno quel potere magico e fabulatorio che ricorda tanto lo spettro marxista del capitalismo borghese che si aggira per le contrade europee. Qualcosa di cui avverti la presenza, ma contro cui hai ben poco da opporre, se non, come si fa in area mediterranea, confortarsi dietro ad un ineluttabile fatalismo dell’esistenza. Ebbene, l’attualità o la storia del presente - Croce la definiva con il termine che a lui sembra chiarissimo di «contemporaneità» - ha questo tipo di caratteristiche, si presenta come un’urgenza a cui bisogna dare conto, ma di cui ben presto mostra anche una certa natura effimera, non proprio come i piaceri edonistici e tuttavia, una natura fugace e consistente abbastanza per impressionare con un terrorizzante «bu!». Ma una volta razionalizzato questa specie di “spavento”, beh rimane la delusione farsesca ed il sentimento di chi avverte di essere stato buggerato da se stesso ed in fondo, dalle proprie nevrosi, ansie e forse anche opinioni.

Ebbene, l’attualità o il susseguirsi degli eventi a volte dà questa sensazione, il che spiegherebbe l’argomento di chi qualche anno fa evidenziava la natura masochistica dei dibattiti politici nazionali, nel senso che tutto l’argomentare che avvinceva gli organi di comunicazione aveva il chiaro sentore del feticismo puro e tramite esso la stessa direzione della politica nazionale appariva appunto, masochistica: argomento che a volte sembra letterariamente una forzatura, ma ha entro certi limiti una sua ragionevolezza, ovviamente seguire questa linea significa ammettere anche una volontà ed una dipendenza morbosa da questo genere di dinamiche, che a volte acchiappano quasi automaticamente (cfr. il gran parlare sul recupero sado-masochistico attuato con una operazione letteraria come 50 sfumature di grigio), anche se non sempre in questi casi si ha a che fare con l’inconscio.

Acconsentire a questo tipo di lettura dell’odierno sistema della comunicazione non è più bizzarro di altre forme di esegesi, in ogni caso rivela, forse con un migliore e convincente argomento, questa strana esperienza che è e costituisce l’esistenza in generale, più nello specifico l’attualità conscia del presente. E quindi, ci si accorge che nonostante si provi a sottrarsi da questo tipo di dinamiche si avverte in ogni caso, una perversa attrazione, senza nodi e freni che tentino di temperarci, come novelli Odisseo dinanzi al potere ed al fascino della propria personale maga Circe che seduce, narcotizza e si concede; ma poi, la coscienza si sveglia ed il sogno della esistenza lascia di sé cumuli, anche di spazzatura, che ingombrano e tuttavia, meno male che ci siano: ciò che non piace basta spazzare con una ramazza e via di nuovo ad accumulare in modo compulsivo sensazioni, coinvolgimenti; ecco, l’attualità è così, questo vento turbinoso che sferza sulla nostra esistenza biologica e che canalizziamo in vari modi, anche sotto forma di cultura.

 

 

#1. “A muro”…Andrea Camilleri. Un nuovo murale a Porto Empedocle

Anzitutto i fatti. Alcuni giorni fa, precisamente il 17 luglio 2020, viene presentato dall’associazione Archeoclub di Agrigento (composta da cittadini agrigentini ed empedoclini) un’opera muraria (murale) commemorativa della figura dello scrittore di origini empedoclina Andrea Camilleri, autore di una fortunata serie di romanzi che hanno per protagonista l’ormai noto commissario siciliano, Salvatore Montalbano, noto appunto, grazie alla serie televisiva di grande successo realizzata dalla RAI.

La figura di Camilleri, soprattutto quella che ha avuto modo di conoscere negli ultimi lustri, è un recupero di una certa prosopopea dell’intellettuale e del letterato, cioè quella di un intellettuale tutto tondo, con il suo ruolo prestigioso ben definito, con i suoi spazi di intervento e di azione, con il suo impegno sociale più o meno esibito e sinceramente portato avanti. Insomma, la figura di Camilleri cresce intellettualmente al pari del successo e dell’interesse che raccoglie la sua opera e così facendo colma una lacuna avvertita come tale nel panorama della nostra letteratura, quella appunto dell’intellettuale che si fa voce dei sentimenti di una parte della nazione, che valuta situazioni e contesti internazionali e che non si lascia sfuggire di esprimere la propria opinione sulle dinamiche politiche. Beninteso, Camilleri non è stato l’unico poteva esibire diverse sfaccettature dell’essere intellettuale, negli stessi anni in cui brilla la sua stella altri potevano avocare a se stessi requisiti, ruoli e funzioni, in virtù di quella malsana abitudine italica di dover caricare l’intellettuale per forza di una qualche responsabilità civile o civica: l’impegno civile giustifica l’esistenza degli intellettuali, li rende utili alla società, visto che notoriamente sono una classe di sfaccendati, almeno nel pensiero sociale dominante.

Qualunque sia l’opinione che si abbia su Camilleri e la sua opera, mi astengo di contestarla o di appoggiarla, ognuno è libero di valutare entrambe i soggetti come meglio crede, a me è indifferente, come lo è stata la stessa opera dello scrittore – ho sinceramente provato ad accostarmi alla sua prosa, ma non ci sono riuscito, è una delle mie letture fallite -, tuttavia un’opinione sull’iniziativa prima menzionata mi sento di doverla affermare, perché, come giustamente è stato fatto dall’associazione in questione, la commemorazione dello scrittore è un appuntamento politico, culturale e mediatico a cui non si poteva mancare; ed in effetti, molti personaggi si sono affollati, in una corale fotografia di gruppo, per testimoniare la propria presenza o magari, nel caso delle figure istituzionali, di affermare una paternità o un mecenatismo dell’iniziativa. Ma questo è un giudizio che lascia il tempo che trova, il dato di fatto è appunto la messa in cantiere del murale e la sua realizzazione. E da qui il presente argomento muove.

Un anno fa, all’epoca della morte dello scrittore, l’attuale amministrazione guidata da un sindaco espressione del Movimento 5S era incappata in uno scivolone quasi demenziale, in merito ad un refuso (errore) di stampa presente nel manifesto funebre. Un fatto imbarazzante certo, che però a suo modo finì per creare una specie di volano pubblicitario e soprattutto consegnò nuovamente a Porto Empedocle e a questa giunta la palma, per così dire, di un reale ed effettivo interesse e forse anche di amore nei confronti di questo suo illustre cittadino. Pertanto, la commemorazione non poteva essere un evento da lasciar passare sotto silenzio e tuttavia bisognava trovare un’iniziativa che confermasse quanto si è venuto a delineare un anno fa e che desse lustro ad una certa idea di solidarietà comunale che l’attuale giunta vuole diffondere, un’idea che dia centralità da un lato all’attivismo civico, e dall’altro lato indicasse nell’attivismo culturale la (solita) panacea dei cronici problemi e difficoltà del paese marinaro.

Soluzione. La via intrapresa porta dritta al murale presentato alcuni giorni fa, ben visibile da tutti coloro che transitano per la via centrale, quella che conduce al Palazzo Comunale e che si presenta come un’opera che certamente non lascia indifferenti, anzitutto per le dimensioni (copre quasi l’intera parete del palazzo) e poi per la resa del soggetto (un Camilleri ritratto affacciato da una finestra: immagine che mi pare di aver già visto nel web, in ogni caso non inedita). Insomma, anche se scomparso, la presenza di Camilleri non solo aleggia come uno spettro sul salotto buono di Porto Empedocle, ma occupa visivamente, cioè materialmente un posto in prima fila, nella vita civica della cittadina marinara, come se quest’immagine ammonitoria vigilasse su tutti noi empedoclini, sulle nostre miserie e sulle nostre gloriose o infauste ore.

Il murale viene presentato come opera di riqualificazione urbana di uno scorcio di via Roma, tant’è che è pensato in relazione alla decorazione di una piccola scalinata, ridipinta e decorata con i titoli delle opere dello scrittore (i titoli per lo più, così mi è parso, relativi alle indagini del commissario Montalbano), probabilmente con l’intento di accompagnare idealmente il passante o il turista di turno lungo l’opera dello scrittore.

La presentazione del murale è diventato un evento mediatico, di cui si sono interessati televisione, giornali e pagine web. Per l’occasione ci sono state le rituali interviste a coloro che si sono spesi nell’iniziativa, di cui plaudo il tentativo (secondo me giusto) di proporre un’idea di associazionismo differente da quello regolato da titoli professionali, quello che de facto non ha prodotto nulla a Porto Empedocle che altrove in provincia, ma vi è anche l’intervento delle figure istituzionali con il loro consueto contributo basato su evidenze e su ovvietà: del resto con buona pace di Gramsci e del suo “intellettuale organico” i professionisti della politica possono essere tutto, fuorché intellettuali; non è il loro mestiere, ma purtroppo alcuni pensano che lo sia (sic).

Tutto bene e tutto perfetto allora? Forse, anche se credo sinceramente che quest’iniziativa risponda con una certa efficacia ad un’urgenza sottesa proprio in un evento che vuole essere commemorativo, , cioè quella di riuscire a trovare modi e strumenti che riescano a difendere la memoria dell’intellettuale di turno dalle offese del tempo e dell’oblio degli uomini cui irrimediabilmente la sua opera (come ogni altra opera umana) è fatalmente destinata: non tutti abbiamo il glorioso destino dei grandi autori e non tutti possiamo godere del dono del ricordo imperituro nelle generazioni postume, nonostante le svariate firme che possiamo apporre nel nostro personale patto con il diavolo.

La valutazione e la conseguente opinione sull’iniziativa si basa su due argomenti, in fondo collegati l’uno all’altro:

    i.    anzitutto, il teorema diffuso dalla comunicazione giornalistica, forse dietro la stessa volontà della associazione cittadina e con il bene placito dell’amministrazione comunale di legare il declino cittadino di Porto Empedocle con la dismissione della sua struttura industriale. Personalmente è un teorema che fa gioco all’idea di imporre un “nuovo corso” fondato sull’attivismo culturale, ma che è un teorema preconfezionato e non so quanto possa aiutare nell’individuare una realistica soluzione alle croniche difficoltà del paese. E poi, sono più di dieci anni (ma ho il sospetto che siano molti di più!) che è invalsa questa retorica che identifica nella cultura e nel turismo la soluzione dei strutturali problemi di Porto Empedocle: non si è visto nulla, anche perché i progetti a riguardo non mi pare che siano stati vincenti. Comunque, quest’idea, secondo me falsa, che il degrado dell’attuale Porto Empedocle sia interamente collegata al ridimensionamento del suo insediamento industriale, è del tutto equivalente all’idea invalsa nella stessa storiografia empedoclina per cui il progresso civile ed economico del paese sia interamente ascrivibile all’industria (Marullo): la famosa Porto Empedocle degli anni Settanta e primi anni Ottanta riuscì a capitalizzare quei pochi benefici derivanti dall’industrializzazione, ma erano allora come oggi benefici effimeri ed inconsistenti. Tuttavia, persiste nella mente sia della dirigenza politica, sia nella stessa popolazione di Porto Empedocle l’idea quel modello di sviluppo sia da replicare ed in effetti, la vicenda del rigassificatore di qualche anno fa rivela chiaramente quanto sia ben presente quest’idea di economia industriale, ma è giusto ricordare che quel modello industriale è basato su uno sviluppo predatorio del territorio, uno sviluppo che faceva sorgere industrie qua e là sol perché si realizzavano contingenti situazioni favorevoli e non figlie di una programmazione ad hoc per il territorio. Pertanto, per chi vuole proporre un modello di sviluppo alternativo di Porto Empedocle non può esibire un paradigma che non tenga conto del fatto che l’industria a Porto Empedocle non è stato nel suo complesso un gran bell’affare e non lo era neanche quando le industrie erano presenti e a regime. Capisco l’esigenza dell’attuale amministrazione di segnare una linea di demarcazione dal passato e dalle scelte politiche precedenti, ma prima di elaborare un paradigma alternativo sarebbe opportuno spiegare alla cittadinanza perché il vecchio modello dell’industrializzazione selvaggia, quello che nella stessa vulgata pubblica ha prodotto ricchezza e benessere debba essere sostituito dagli spicci del piccolo turismo di cabotaggio.

    ii.    Collegata al primo punto, c’è questo secondo punto. La politica culturale che l’attuale giunta promuove, ammesso che l’’iniziativa del murale sia parte di una strategia politica – personalmente ne dubito -, rivela in ogni caso l’ipocrisia empedoclina proprio nei confronti di questo suo concittadino, perché se lo scopo è quello di mero marketing, beh la pubblicità raccolta tramite gli organi di stampa nazionale soddisfa o può far dire che gli obiettivi di vendita del prodotto «Camilleri-Porto Empedocle» siano stati raggiunti, ma se lo scopo è quello di legare un eventuale sviluppo culturale della cittadina al volano descritto dall’opera e dal ricordo dello scrittore empedoclino ho seri dubbi al riguardo: lo si verificherà appena qualche mano ignota vandalizzerà l’opera e come la stessa collettività, oggi in festa, reagirà all’accaduto. Capisco che si voglia far dimenticare le scelte di industrializzazione che fino a qualche tempo fa da più parti giungevano e forse si vuole anche fare ammenda dello smacco che a livello provinciale è stato dato alla stessa cittadina marinara in merito alla menzionata vicenda del rigassificatore, ma mi pare evidente che la matrice dell’iniziativa è il consueto atteggiamento di sudditanza nei confronti del vicino capoluogo di provincia, che rispetto a Porto Empedocle ha non solo qualche requisito in più, ma anche i numeri per poter vantare una politica incentrata sulla creazione e sviluppo di un’industria turistica colta (es. Valle dei templi), ma anche di svago (es. litorali ed alberghi con sale spa e via dicendo). Quel che emerge con una certa evidenza e che l’attuale sindaco 5S e la sua giunta, nelle veci del suo attuale assessore alla cultura, avvallano (a mio giudizio indecorosamente) è un cambio radicale ed in fondo, quasi paradigmatico di una effettiva posizione strategica di Porto Empedocle rispetto al consesso provinciale; voglio dire, l’unico vantaggio che Porto Empedocle ha tratto dalla sua industrializzazione selvaggia – quella che è stata demonizzata nella forma di degrado –è stato proprio quello di provare a formulare un modello economico che l’affrancasse dal suo storico (ed ingombrante) legame descritto in epoca borbonica di Molo o di Caricatore di Agrigento (Gibilaro); una condizione che nell’immaginario empedoclino, a quanto pare, è ampiamente introiettata, tanto che si sono susseguite le epoche storiche ed i cambi di regime, ma questo legame ideale (o forse materiale?) non è stato possibile reciderlo, basti pensare, a.e. che l’unica antica porta ancora visibile del medievale muro di cinta della città di Agrigento guarda ancora al suo Caricatore empedoclino. Ebbene, dietro il perbenismo culturale dell’attuale giunta si delinea un recupero, a volte palesemente smaccato, di istituire un nuovo legame di dipendenza con la città di Agrigento, di cui, se ci saranno vantaggi, saranno appannaggio solo di alcuni e probabilmente camuffati sotto l’ipocrisia di una cultura benpensante e autoreferente, quella stessa che opera odiernamente proprio nella città di Agrigento.

In conclusione, per quanto mi riguarda l’iniziativa di per sé mi è del tutto indifferente, tranne ovviamente per qualche affetto personale che mi lega verso alcune delle persone coinvolte, perché non mi pare né adeguata ad un progetto culturale di più ampio respiro che non si limitasse solo alle sterili commemorazioni (ma dalla sinistra odierna cosa si vuole pretendere, se non nostalgie e commemorazioni!), né funzionale allo scopo prefisso, cioè quello di difendere dalla dimenticanza sia la memoria dello scrittore, sia della sua opera, ammesso che tale opera abbia titolo di essere ricordata. Sarò sprezzante, ma permettemi di dire che in me manca proprio quell’amore che ha motivato suddetta iniziativa e quindi, non credo di stupire alcuno per queste mie righe, del resto ciò che mi interessava non è formulare un giudizio sull’iniziativa in sé, ciò bastano alcune osservazioni che mi è capitato di sentire tra i miei stessi concittadini, quanto accendere il riflettore su alcuni aspetti che descrivono il paesaggio complessivo della situazione attuale in cui viene a collocarsi detta iniziativa.



Post Scriptum. Il filosofo tedesco Kant aveva elaborato un sistema della conoscenza che si fondasse su due forme a priori che indicò come “spazio” e “tempo”, suggerendo al contempo che il modo di produzione delle conoscenze valide traesse spunto dal piano fenomenico o empirico tramite una mediazione del tutto speciale data dalle due forme cui si è detto. Altresì, è bene ricordare che per Kant le forme a priori si caratterizzano per una qualità assoluta ed universale, vale a dire qualità che appartengono congenitamente all’uomo: ergo sono uguale in tutti gli uomini. La conseguenza più evidente è che spazio e tempo sono due categorie correlate, anzi due diverse funzioni della sensibilità, in ogni caso definite sull’intuizione primitiva dell’estensione: sono entrambe due intervalli in cui le estremità o polarità di questo segmento, diciamo così, descrivono la lunghezza, ma anche l’ampiezza di una superficie; nella misura empirica di queste realtà si ricorre a due unità di base correlate tra loro in quanto stanno in una reciproca relazione di proporzione – la misura del tachimetro di un’automobile con il quale si rappresenta la velocità del veicolo è, come noto, km all’ora, che è la misura multipla di quella teorica di metro al secondo; le estensioni sono chiaramente diverse, ma il tipo di rapporto che vi intercorre è il medesimo.

Nell’idea kantiana il tempo, così come lo spazio sono realtà incondizionate, poiché sono proprio ciò che permette la conoscenza effettiva di ciò che ci circonda, ma noi sappiamo che quest’idea è, quantomeno, fuorviante, non solo perché la teoria della relatività generale ha rivelato che la stessa misura del tempo e dello spazio è essa stessa metodicamente condizionata, cioè determinata da un lato dalla sensibilità degli strumenti di misurazione e dall’altro lato dalla presenza non sistemica degli errori di misurazione, ma anche perché l’approccio kantiano è molto simile alla realtà chiusa dei sistemi isolati: e la filosofia kantiana è de facto un sistema concettuale che pretende di delineare i fondamenti assoluti del pensiero su una struttura separata dal paesaggio dei fenomeni (trascendentalismo), anche se poi in effetti, le stesse funzioni dell’Io sembrano muoversi sul piano dell’esperienza sensibile traendo da questa quelle occorrenze concettuali e linguistico-dialettiche che ricorrono nel discorso filosofico.

Tuttavia, i limiti che sul piano filosofico sembrano delinearsi nel pensiero kantiano nel suo ipotetico confronto con la relatività della scienza fisica diventano qualcosa di più interessante se si prova a ribaltare la cornice concettuale in cui ci si trova e dunque, a cambiare anche il registro teorico. Se si riconverte lo antropocentrismo, o per meglio dire l’egologia kantiana entro una riflessione di tipo antropologico, in questo ovviamente aiutati dalle strutture narrative della semiotica, la convinzione kantiana che il tempo sia una realtà incondizionata può risultare accettabile nella misura in cui il tempo in questione viene convertito in “progetto” (cfr. Martin Heidegger) e che la stessa storia umana delle città e dei fenomeni di inurbamento siano da considerare a diverso titolo e con le loro specificità tutte formule attraverso le quali l’uomo pone la propria personale scommessa nella sua partita diabolica con la morte, magari con le stesse suggestioni della notissima scena de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ovviamente, in gioco non è l’eternità fisica e materiale dell’uomo, né tanto meno la salvezza spirituale della sua anima, quanto in realtà la possibilità di “fare lo sgambetto” a quello stesso evento ineluttabile, che per quanto ci possa dispiacere (a me tantissimo) si realizzerà, c’è poco da fare – l’ibernazione è solo un procrastinare ciò che avverrà comunque, a meno che si decida di diventare una società di vampiri disposti a parassitare i malcapitati organismi ospiti, ma ciò per adesso è solo fantascienza (o forse no?). Lo sgambetto a cui mi riferisco riguarda la possibilità di dare significato (uno qualsiasi) a questa morte che in ogni caso giungerà, un significato ovviamente che mette, per così dire, in scacco la stessa morte, tentando di beffarla non nel suo compito di inesorabile mietitrice, quanto in quella di sepolcrale manto di tutte le possibilità che rimangono in gioco (tante o poche che siano) e che sono riferite alle nostre personali scelte, alle azioni che veniamo a compiere, al progetto di vita futuro o eventualmente al tipo di modello di esistenza che si riesce non solo ad ipotizzare, ma in qualche modo anche a realizzare, fosse anche una piccolissima ed insignificante frazione.

(riflessione scaturita dalla lettura di alcune righe di Umberto Eco, Sugli specchi, 1985)


giovedì 16 luglio 2020

Il Solitaire. Un gioco strategico tra associazioni binarie, combinazioni e numeri surreali.


 
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Nella storia dei giochi esistono molti giochi di strategia o che richiedono la formulazione di una tattica razionale di gioco, soprattutto perché sono giochi che fanno perno sulla sfida e sulla competizione tra due o più giocatori. Nella teoria dei giochi la valutazione della strategia migliore è un momento fondamentale che chiarisce come poter massimizzare le giocate che si possono svolgere e prevedere il vantaggio o lo svantaggio che deriva dal proprio turno di gioco: è un’analisi da cui è possibile stabilire la struttura equa del gioco, cioè se tutti i giocatori hanno le stesse possibilità di vincita. Fatto curioso è che tutti, o quasi, questo tipo di giochi richiedono l’uso di una scacchiera o al limite di un tavoliere (cfr. Warī), da cui spesso dipende la definizione della stessa meccanica e struttura del gioco – per tale ragione da alcuni è considerato l’elemento fondamentale tramite cui descrivere il gioco stesso (cfr. Gianpaolo Dossena).

Per questo aspetto competitivo molti giochi diventano la metafora di una “piccola guerra”, privata e senza spargimenti di sangue certo, ma altrettanto brutale e carica di tensione emotiva e sentimentale tra i vari giocatori. Una metafora forse eccessiva, ma con la quale viene a fissarsi chiaramente il particolare equilibrio che intercorre tra gli elementi presenti sulla scacchiera: pianificare una strategia di gioco in questo caso, significa descrivere e configurare un equilibrio o un sistema di relazioni che viene a definirsi in quel specifico momento della partita; ogni configurazione è una combinazione ed una permutazione possibile della stessa combinazione creata. Allo stesso modo deve intendersi l’ordine delle pedine nel gioco del Solitaire, cioè un ordine e non una mera combinazione casuale dei pezzi. Un sistema di relazioni dove ogni momento del gioco configura e definisce uno stato ben definito tra i pezzi presenti sulla scacchiera. Per il tipo di struttura di gioco che esibisce, il Solitaire si presta adeguatamente alla teoria matematica dei Gruppi, infatti le vari configurazioni delle pedine sulla scacchiera e le rispettive mosse che si possono compiere possono considerarsi vere e proprie strutture algebriche regolate da rapporti e da operazioni associative binarie, impostate sulla presenza di alcuni “elementi neutri” che permettono, a loro volta, la configurazione di operazioni inverse. Le pedine pertanto, si comportano come gli addendi di una semplice somma algebrica, cioè compongono una struttura in cui esiste una relazione di simmetria tra i vari pezzi con la quale a loro volta, viene a definirsi uno specifico rapporto di commutazione. Un classico esempio è il piano geometrico euclideo, infatti tenendo fisse le distanze tra i punti che compongono una figura è possibile effettuare rotazioni continue della stessa senza che ciò determini una deformazione del profilo di detta figura.

In questo caso, “strategia” e “pianificazione” sono due modi equivalenti con cui descrivere il modo e la direzione di una combinazione di elementi: qualcosa che in filosofia è sempre stato affine al tema della “razionalità” o della “logicità”, qualità tipiche di ogni determinismo e meccanicismo, fosse anche di tipo “provvidenzialistico”. Ora, può apparire sorprendente (e forse lo è) utilizzare questo genere di termini per descrivere la meccanica di un gioco che appartiene alla categoria dei «solitari», in quanto la “strategia” è sempre associata alla sfida e alla competizione che intercorre con un avversario, tuttavia in questo caso il termine non è usato a sproposito in quanto vuole indicare una particolare “intelligenza” o “logica” insita nella struttura di gioco con la quale denotare un elevato grado di complessità che questo gioco astratto riesce ad esibire. Una complessità che non ha nulla a che vedere con altri giochi competitivi più noti e blasonati, come a.e. il Gioco degli Scacchi, dove la complessità dell’azione di gioco decresce al diminuire dei pezzi sulla scacchiera – ovviamente si sta considerando la situazione dal punto di vista del giocatore in vantaggio -, mentre nel Solitaire questa aumenta con il diminuire delle pedine sulla scacchiera, il che rende non solo più articolato, ma anche più difficoltoso il raggiungimento dell’obiettivo finale del gioco.


Storia

La data d’invenzione del Solitaire è incerta, anzi totalmente ignota, come da prassi per moltissimi giochi ancora oggi diffusi al mondo; molti a riguardo, tendono a ritenere quantomeno verosimile l’aneddoto che circola sull’origine di questo gioco, aneddoto per il quale sarebbe un’invenzione di un nobile prigioniero francese rinchiuso nella prigione parigina della Bastiglia, tanto che spesso ci si riferisce ad esso con il titolo di «gioco del prigioniero della Bastiglia». Ovviamente non tutti gli studiosi sono concordi visto i pochissimi riscontri storici e poi perché, tanto per dire, l’aneddoto è somigliante a tante altre storielle di questo tipo utilizzate come reclame pubblicitaria ad uso del grande pubblico, stampate sovente o sul breve manuale di gioco o sul coperchio della scatola.

Più convincente appare invece, l’indicazione contenuta nell’aneddoto relativa al periodo della diffusione e collocazione storica, chiaramente intorno al Seicento francese. Esistono alcuni riferimenti che collocano la diffusione del gioco in Francia sotto il regno di Luigi XIV (1643-1715). Un primo riferimento infatti, è un’incisione del 1697, realizzata dall’artista francese Claude August Berey (1651-1732), che ritrae una nobildonna, la principessa di Soubise, Anne de Rohan-Chabot (1648-1709), detta la Belle Florice, con accanto una scacchiera del Solitaire: la scacchiera che si intravede nell’incisione non è il formato che oggi riteniamo di norma, o quello commercialmente in uso, ma è uno dei formati che compongono le diverse varianti allo schema di gioco, infatti la scacchiera può variare sia per il numero di caselle, sia per la forma in senso stretto. In ogni caso, il modello esibito dall’incisione è quello con scacchiera «alla francese».

Un altro riferimento è letterario; questo appare molto più convincente del primo e riguarda il filosofo tedesco Gottlob Wilhelm Leibniz (1646-1716). In una lettera del 1713, il filosofo e scienziato tedesco descrive il suo grande interesse verso i giochi astratti e più nello specifico del Solitaire – che indica appunto come il gioco del prigioniero bastigliese, con il quale, dice, è solito giocare, seppur cambiandone la regola fondamentale e cioè ricostruire la figura iniziale sulla scacchiera ricollocando le pedine nelle caselle che avrebbero dovuto occupare durante le fasi di gioco, anziché procedere di norma nel costruire una figura iniziale ed eliminare i vari pezzi che la compongono sulla scacchiera: la scelta di gioco di Leibniz può apparire un vezzo, ma può essere considerato come un tratto della personalità filosofica dello scienziato e filosofo tedesco. Ora, l’intervento di Leibniz sul gioco in questione non si esaurisce in questa lettera, in un altro articolo del 1710 propone una descrizione della struttura del gioco, spiegando come si possa giungere alla configurazione di alcune figure sulla scacchiera (fasi di gioco) e soprattutto indicando quali di queste configurazioni possano essere risolte e quali invece, non ammettono alcuna soluzione: in questo intervento Leibniz correda lo scritto con alcuni disegni che rappresentano le situazioni e le soluzioni da lui descritte.

Il riferimento leibniziano è importante per due motivi. Anzitutto, ci dà conferma del successo del gioco nell’elitès europea poco prima che s’imponesse l’Illuminismo francese, il che ovviamente esclude che non prima dell’età barocca il gioco potesse essere conosciuto. Inoltre, la missiva testimonia dell’interesse e soprattutto dell’opinione di Leibniz sui giochi in generale, di cui apprezza solo quelli astratti, in quanti li ritiene “utili” alla creatività inventiva dell’intelletto umano. Non so quanti siano d’accordo con il filosofo tedesco, tuttavia la sua opinione descrive una valutazione (o un pregiudizio) che la cultura europea ha tenuto nei confronti dei giochi e che ritroviamo in buona sostanza anche, nell’opinione attuale. Seppur sotto altre forme, l’idea di utilità dei giochi astratti è alla base a.e., del concetto di gioco formulato dallo psico-pedagogo svizzero Jean Piaget (1896-1980), per il quale il gioco è un’ottima strategia pedagogica con la quale attivare nei bambini molte delle attività intellettuali fondamentali quali la scoperta, l’analisi o l’invenzione.

«Il gioco chiamato “Solitario” mi piace molto. Ma lo faccio al contrario. Cioè, invece di formare una figura seguendo la regola del gioco, che prescrive di saltare con un pezzo in un posto vuoto superando un altro pezzo che viene tolto, ho pensato che è meglio ricostruire ciò che è stato demolito colmando un posto vuoto al di sopra del quale è stato fatto il salto. In questo modo ci si prefigge il compito di formare una figura data, se ciò è possibile, come in effetti deve esserlo se è anche possibile distruggerla. Ma perché tutto ciò? Potreste chiedere. Rispondo: per perfezionare l’arte dell’invenzione. Perché dobbiamo avere il modo di costruire tutto ciò che viene trovato mediante l’uso della ragione».
(cit. da Martin Gardner, Enigmi e giochi matematici, vol.IV, Sansoni editore, Firenze, p.109)

Questi sono gli unici dati certi sul gioco del Solitaire, provare infatti a ricercare all’indietro qualche altro riferimento significa complicare ulteriormente lo scenario. Prima del Seicento alcune fonti letterarie ci parlano di un antico gioco vichingo, detto La Volpe e le Oche, molto simile sia nella struttura di gioco che nella regola fondamentale, anche se de facto l’azione di gioco conduce a finalità molto diverse. Tuttavia, questa sovrapposizione potrebbe far alludere ad una derivazione del Solitaire da questo gioco vichingo, oppure ad una sua mutuazione, ma anche in questo caso non esistono elementi certi che facciano propendere per questa tesi.
 

In ogni caso, è durante il XVIII secolo che il Solitaire trova collocazione nel panorama ludico europeo. Nel 1779 il tedesco J.C. Wiglieb pubblica un libro dove affronta una descrizione sistematica del gioco, basata esplicitamente sulla versione della scacchiera a 33 caselle, che da questo momento in poi diventerà il formato tipico del gioco. Nel 1803 il modello con la scacchiera a 33 caselle compare accanto ad altri noti e diffusi giocattoli nel catalogo (1823) di Georg Hieronimus Bestelmeier (1764-1829), un appassionato collezionista tedesco, che ne determinerà l’affermazione definitiva. 

Il Solitaire è conosciuto anche con altri nomi, in Occidente viene indicato con Peg Solitane e Hi-Q, mentre in Oriente viene chiamato con i nomi di Senku o di Brainvita.


Struttura e meccanica di gioco

Il Solitaire è un gioco astratto di pedine e scacchiera,  anche se l’uso di una scacchiera non è decisivo, si può infatti, disegnare su un foglio una schema a quadretti con il numero previsto di caselle ed utilizzare dei ciottoli oppure delle piccole monete per comporre i pezzi da collocare sul piano della scacchiera – il fatto di poter disegnare il piano di gioco risolve un problema pratico, esistono vari schemi di gioco non facilmente reperibili in commercio e che alcune applicazioni riproducono sulle versioni smartphone o iphone. 

La scacchiera di norma è quella che viene detta «all’americana», vale a dire a forma di croce latina e composta da 33 caselle, numerate in verticale con una scansione decimale (10, 20, 30, 40, 50, 60, 70, 80, 90) ed in orizzontale secondo le unità (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9), ma esiste un altro modello di scacchiera, detto «alla francese», che deriva da quella appena menzionato a cui si aggiungono altre 4 caselle, per un totale complessivo di 37 caselle: è il formato meno diffuso.
 
La regola di base prevede la distribuzione su tutta la scacchiera dei pezzi, che sono di numero 32. Dopo la distribuzione delle pedine sulla scacchiera si ottiene una figura con un “buco”, questo spazio è l’ultima casella della scacchiera non occupata da pedine e che rimane vuota ad inizio partita. La collocazione di questa casella vuota sul piano della scacchiera descrive il tipo di figura che viene rappresentata dal gioco. Di norma, la figura tipica è quella con la casella vuota a centro della scacchiera, ma il giocatore, se vuole, può dislocare questa stessa casella in altri punti e così facendo, diversifica le combinazioni delle mosse che può compiere dalla stato iniziale.

La meccanica di gioco consiste semplicemente nell’eliminare le pedine dalla scacchiera con un movimento molto simile a quello che si realizza nel gioco della Dama, vale a dire spostare la pedina saltando quella che si trova prossima ed andare ad occupare la casella vuota adiacente a questa. L’unica fondamentale differenza in questo movimento è che le pedine della Dama si muovono e “saltano” le pedine avversarie diagonalmente, qui, nel Solitaire, i pezzi si muovono, cioè “saltano” la pedina adiacente, sia in senso orizzontale, che in quello verticale – ovviamente non esistono pedine avversarie, quindi i pezzi non sono bicolore. Molti manuali di giochi descrivono in dei riquadri le varie possibilità e direzioni di movimento di una pedina, quel che bisogna tenere presente è che il movimento in diagonale non è permesso.

L’azione di gioco deve condursi in modo tale da liberare il piano di gioco da tutte le pedine disposte sulla scacchiera e riuscire a collocare l’ultima pedina in gioco proprio nella casella vuota iniziale. Nel caso della figura di norma, la casella al centro della scacchiera.

Per quanto apparentemente semplice, lo scopo del gioco non è poi così semplice da raggiungere, infatti man mano che si ci si libera delle pedine iniziali il grado di complessità aumenta rendendo l’azione di gioco molto articolata e complicata, tanto che è facile compiere scelte di mossa che possono risolversi in un nulla di fatto. Ciò accade perché nell’effettuare le mosse il giocatore non fa altro che combinare le pedine, in gergo si dice “impacchettamento”, in sistemi di relazioni, o appunto in “pacchetti” di mosse che vengono compiute per eliminare completamente l’intero impacchettamento: l’eliminazione in alcuni casi può operarsi tramite una sola pedina, in questo caso il pacchetto si chiama repulisti. Per tale ragione, in genere si opera nella soluzione del rompicapo della tecnica del problem solving, cioè della riduzione in piccole parti dell’intera configurazione o pacchetto. È proprio in questi termini che Federico Peiretti affronta la descrizione e spiegazione del Solitaire, da cui si evince la natura interconnessa del sistema di mosse che presiede alla meccanica di gioco: in questo modo la soluzione del rompicapo descrive l’ultima mossa che risolve il gioco come l’esito finale di una sommatoria sequenziale. Lo stesso argomento trova una più ampia trattazione in una pagina web curata dallo stesso Peiretti, intitolata Il prigioniero della Bastiglia, che recupera molti dei temi esposti a suo tempo da un articolo di Martin Gardner, oggi raccolto in Enigmi e giochi matematici [ed. it. 1975].  Anche in questo caso si fa riferimento al libro dei matematici Berlekamp-Conway-Guy, intitolato Winning for your mathematical plays, dove appunto viene proposta questa descrizione in pacchetti del gioco. In questo libro infatti, il piano della scacchiera viene diviso in tante regioni di spazio, in perimetri di combinazioni e di associazioni, a loro volta descrizione di alcune specifiche configurazioni delle pedine sulla scacchiera, da cui si evince che seguendo un preciso ordine di mosse (replicabile quanto si vuole), è possibile risolvere razionalmente la combinazione secondo una direzione la più efficiente possibile. 
 

Il Solitaire e le sue implicazioni filosofiche e matematiche da Leibniz in poi

L’opinione sopra riportata di Leibniz sull’utilità dei giochi astratti viene a precisarsi ulteriormente se si tiene conto che l’utilità dei giochi astratti a cui il filosofo e scienziato allude riguarda in buona sostanza alle molteplici e variabili combinazioni che sono realizzabili. L’interesse di Leibniz infatti, si concentra in particolare sulle combinazioni numeriche e sulle configurazioni d’ordine che si possono osservare sui giochi di carte, sul GO e sul Gioco degli Scacchi, oltre che ovviamente, sul Solitaire. L’azione di questi giochi consiste nella capacità di combinare i vari pezzi sulla scacchiera, un'abilità che rinvia a sua volta al concetto matematico di ordine. La profonda fascinazione che il Solitaire inoltre, pare esercitare su Leibniz è motivata profondamente dall’osservazione di questo tipo di struttura, ma anche per ragioni più limitatamente filosofiche, cioè come la conferma filosofica che le configurazioni combinatorie si basano su costrutti determinati, quella stessa tipologia di costrutti su cui si fondano le filosofie meccanicistiche. Ammettendo l’interpretazione dell’opera leibniziana che ne offre il filosofo Vittorio Mathieu, cioè una lettura in cui tutte le parti del pensiero leibniziano stanno in un rapporto di interconnessione tra loro, che le tiene non solo unite, ma anche rinvianti l’una all’altra, la struttura interconnessa dell’azione di gioco del Solitaire può intendersi una buona metafora con cui cogliere una certa idea della filosofia leibniziana. La costruzione della trama relazionale che i singoli pezzi realizzano sulla scacchiera si basa su un certo procedimento determinato (combinazione) che appare non solo regolare, ma anche assoluto: qui, per assoluto si deve intendere il fatto che la via per la soluzione del rompicapo non ammette troppe variabili e che il percorso che il giocatore intende scegliere può risultare vincolante e quindi, escludente. 

Quest’aspetto lo si coglie adeguatamente nella modalità di gioco rovesciato che lo stesso Leibniz propone e che consiste nel ribaltare i momenti di gioco fissati dalla regola generale del Solitaire; regola che prevede la costruzione di una figura sulla scacchiera e la successiva eliminazione delle pedine che compongono detta figura. La modalità inversa di Leibniz invece, muove dallo stato finale del gioco, cioè da quella unica pedina situata al centro della scacchiera con la quale inizia a (ri)comporre la figura iniziale che si presume avesse condotto appunto, all’esito finale del gioco. Ciò è ammesso da parte di Leibniz, in quanto la strategia che decide di adottare è, per così dire, di tipo “ricostruttivo”, o per dirla più esplicitamente di tipo “storico-palingenetico”, nel senso che mira a ragionare sullo schema di gioco focalizzando l’interesse e l’attenzione del ragionamento (o come in questo caso, dell’azione di gioco) sullo stato condizionante che ha determinato la situazione finale o la fase di gioco in cui il giocatore si trova in quel momento della partita. L’esito filosofico più evidente è che il giocatore-filosofo osserva sulla scacchiera il definirsi di uno schema logico di relazioni ed una forma fortemente determinati e che suggeriscono il presiedere di una realtà (stato fisico delle pedine) immutabile e causalistico. L’effetto che produce la strategia leibniziana è quella di “riavvolgere” lo sviluppo dell’azione di gioco, cioè la sequenza delle mosse effettuate da cui poter ottenere infine, la figura iniziale o lo stato dell’essere originario. In questo modo, può evincersi una evidente simmetria tra inizio e fine ed un completo rovesciamento delle due configurazioni: in tal senso, l’azione di gioco continua ad apparire uno sviluppo nella forma del tempo, ma alla “rovescio”, cioè è la forma estatica di un tempo che si presenta già consumato e che in qualche modo tende a ricostituirsi in una forma assoluta allo stesso modo delle categorie storiche, che fissano, congelando le situazioni e i fatti, in un eterno presente, o in un presente dilatato ciò che ha smesso di essere quell’effimera scheggia dell'istante.

La difficoltà più evidente in questa regola leibniziana è quella di immaginare come deve presentarsi il blocchetto di mosse nel momento di gioco si decide di far iniziare la strategia di ricostruzione; uno sforzo che diventa nel pensiero leibniziano un vero e proprio “addestramento” creativo, rigoroso e logicista.

Alcuni manuali di giochi ripropongono lo schema leibniziano, spiegando – spesso per ragioni didattiche – come la situazione di gioco che viene a configurarsi sulla scacchiera, seguendo proprio questa regola inversa, produca tante opposizioni simmetriche rovesciate e così composte:

  • opposizione su regola fondamentale: casella piena-casella piena-casella vuota a cui corrisponde pedina-pedina-vuoto.
  • Opposizione su regola leibniziana: casella vuota-casella vuota-casella piena a cui corrisponde vuoto-vuoto-pedina.
Come si intuisce da questa succinta descrizione, la modalità liebniziana crea semplicemente una struttura a chiasmo, non altera la struttura di gioco, ma si limita a scambiare gli stati iniziali di una configurazione con quelli finali della stessa configurazione, il che costringe de facto a comparare costantemente la singola configurazione con lo schema logico complessivo, una comparazione senza la quale la ricostruzione del percorso appare caotico e sconclusionato. Ovviamente,  l’immaginazione di cui afferma il filosofo tedesco deve intendersi non tanto come semplice “fantasticare”, ma “ipotizzare” come lo schema finale doveva presentarsi prima che il suo sviluppo conducesse allo stato finale, che – lo ripeto – in Leibniz coincide con lo stato iniziale del gioco. In pratica, Leibniz elabora una modalità di gioco – forse lui la intende come una strategia vera e propria – che non demolisce la struttura, ma tende a riproporla, ad individuarla e ciò è possibile in quanto esibisce una base logica determinata che permette di seguirne le fasi in cui si è sviluppata – ecco il teleologismo leibniziano, parente stretto delle meccaniche fisiche.

Il logicismo che Leibniz sembra rintracciare nella struttura di gioco del Solitaire è lo stesso che è alla base del concetto matematico del Principio degli indiscernibili, o Principio di identità degli indiscernibili, o meglio noto come Principio di Leibniz. Il Principio di Leibniz è un principio ontologico relativo alle serie numeriche per il quale qualora non si riuscisse ad affermare la distinzione assoluta tra due enti, questi due enti devono intendersi un solo ed identico ente. Ciò vuol dire che se i predicati relativi ad un ente “a” sono gli stessi di quelli relativi ad un altro ente “b”, il che vuol dire che risultano validi per entrambi gli enti, allora deve ritenersi che “a” e “b” sono lo stesso ente. Questa relazione di identità viene espressa da Leibniz in base al seguente asserto:

«Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate [tr. it.: le cose che l’una può sostituirsi con l’altra conservando integra la verità sono le stesse]».

L’idea di fondo nella logica leibniziana è che qualora sussista una differenza tra gli enti questa stessa non può che considerarsi assoluta, perché se fosse basata semplicemente su una differenza di numero, cioè su una divergenza di quantità e non di forma, non vi sarebbe alcuna ragione razionalmente sufficiente per ammetterne l’esistenza: se la variazione non interessa la “forma” delle cose non c’è alcun valido motivo per decretare una molteplicità. Vi sono alcuni esempi – uno di questi lo fornisce lo stesso Leibniz – è quello derivato dall’argomento delle foglie – non è possibile trovare in un albero due foglie identiche, pur avendo la medesima forma e tipo -, oppure quello relativo alle impronte digitali.

Seguendo questa definizione il Principio di Leibniz appare come un corollario al Principio di ragion sufficiente, per il quale «nihil est sine ratione sufficiente, cur potius sit quam non sit [tr. it.: nulla è senza ragione sufficiente perché sia piuttosto che non sia]». Ciò significa che le ragioni per cui qualcosa esista non sono mai sufficienti per decretarne l’esistenza appunto, mentre, diversamente, bastano poche ragioni per poter affermare la non esistenza di qualcosa, fosse anche in via indiziaria.

Questo genere di formulazioni Leibniz le espone nel trattato del 1679, Progressione Dyadica, e sono oggi di grande interesse, perché hanno trovato applicazione del moderno sistema numerico binario tramite la riscoperta che ne fece George Boole (1815-1864), colui che definì il linguaggio dell’attuale informatica. Per quanto riguarda la correlazione che ho instaurato tra il gioco del Solitaire ed alcuni interventi matematici di Leibniz la storiografia ha accertato che il filosofo e scienziato giunge a questi temi, cioè al rapporto tra le strutture combinatorie dei numeri e le relazioni binarie, tramite la corrispondenza con un missionario gesuita in Cina, padre Joachim Bouvet, da cui apprende la tavola binaria dello yin e dello yang. 

La definizione formale del Principio di Leibniz viene fissato nella logica formale dalla seguente formula:
(1)

L’interconnessione che vi è alla base dell’azione di gioco del Solitaire, che tanto ha affascinato Leibniz, rivela una natura algoritmica che oggi è ampiamente utilizzata in campo informatico. Ora, lo sviluppo in senso informatico di tali strutture combinatorie binarie (quelle appunto che caratterizzano la struttura dei blocchetti) è del tutto inedito per Leibniz, tuttavia il filosofo e scienziato tedesco avverte con estrema chiarezza che nella struttura di gioco del Solitaire agisce una evidente convertibilità simmetrica delle combinazioni binarie, assicurata dalla commutabilità operativa degli elementi di gioco, cioè dal fatto che si possano applicare operazioni elementari come somma e differenza e convertire queste stesse strutture nell’una e nell’altra. Questa convertibilità assicura quell’armonia regolare che tanto piaceva all’antica epistemologia e alle varie filosofie meccaniche di ogni tempo (compresa la teologia cattolica medievale), e quindi allo stesso Leibniz basti considerare il suo noto concetto della «armonia prestabilita», tuttavia lo schema di gioco del Solitaire rinvia non tanto alle convinzioni teologiche del filosofo tedesco, quanto ad una scoperta che questi realizza durante il soggiorno a Parigi nel 1672. La scoperta in questione riguarda il cosiddetto Triangolo armonico di Leibniz

Il Triangolo di Leibniz è una struttura algebrica composta dalle frazioni dell’unità (1), numero che si ripete lungo i lati di detto triangolo e che descrive sia la riga che la colonna della griglia in questione. Le celle interne della griglia è composta appunto, dai numeri frazionari di 1 (uno), frazioni che hanno a numeratore il valore 1. Tutti questi valori frazionari si ottengono seguendo due diverse operazioni di conto, cioè o come somma delle due frazioni sottostanti ad una riga (es. un mezzo più un mezzo uguale uno), oppure come differenza tra i due numeri della riga soprastante. Il Triangolo armonico è costruito allo stesso modo del Triangolo numerico, noto altrimenti o come il Triangolo di Tartaglia oppure come il Triangolo di Pascal. Concettualmente il Triangolo armonico non è molto diverso da qualsiasi struttura numerica che tenta di raccogliere un insieme di numeri in un sistema di proprietà, tuttavia la scoperta che Leibniz realizza e che viene esposta in questo triangolo numerico è la possibilità di convertire tramite le semplici operazioni di somma e di differenza gli elementi dell’insieme, cioè operando o con l’una o con l’altra operazione è possibile ottenere i valori della griglia. In seguito, si scoprirà che i valori di questa griglia hanno uno sviluppo algebrico paragonabile ai valori dei coefficienti delle potenze di un binomio. In effetti, ciò che sorprese Leibniz era la possibilità che ricorrendo a questo tipo di struttura operativa, tra l’altro molto semplice nella sua meccanica, fosse possibile «generare» diverse serie infinite di numeri – inizialmente le proprietà del triangolo riguardavano una serie numerica in particolare, la serie dei numeri triangolari, in seguito Leibniz comprese che queste proprietà descrivevano un meccanismo generativo di altre serie numeriche.
Questa situazione si traduce nella seguente formula:

a h, n = a h-1, n – a h-1, n + 1 (2).

La costruzione di questo Triangolo armonico rivela chiaramente l’esistenza di una struttura algoritmica, ma definisce soprattutto una diversa natura del numero; una natura lontana dalla concezione classica per la quale la realtà dei numeri fosse l’espressione di una metafisica trascendente, mentre qui si palesa una natura molto più simile a quella odierna, cioè il numero come prodotto di una condizione operativa e non di una realtà metafisica. In tal senso, il numero non è neanche un «primitivo», ma un “qualcosa” che si delinea a partire e ad opera di una relazione funzionale, di un algoritmo.

Ciò ha rilevanti riflessi sulla stessa storia del numero e della matematica, esiti che posso solo alludere in questa sede, ma senza i quali può risultare difficile immaginare o accettare che gli schemi combinatori che il giocatore realizza sul Solitaire possano essere non tanto delle semplici forme, ma dei veri e propri numeri. Giocando al Solitaire si creano quelle stesse condizioni teorico-concettuali che sono alla base dei procedimenti generativi dell’algebra odierna, il che motiva abbastanza chiaramente il grande interesse matematico che questo gioco francese suscita. Ciò rende il gioco una piccola piattaforma fondata sulla stesse regole relative al calcolo algoritmico ed algebrico in genere; l’uso infatti, del metodo del problem solving, cioè della divisione di un problema nelle sue componenti più semplici, spesso utilizzato per il gioco cinese del GO, descritto dal matematico inglese John Horton Conway (1937-2020) rivela proprio questa struttura combinatoria soggiacente nella meccanica del Solitaire, ma permette anche di estendere la menzionata Teoria dei Gruppi.

Per meglio capire come mai la semplice configurazione delle pedine sulla scacchiera possa equipararsi ad un procedimento generativo dei numeri ci si deve rifare al concetto di «numero surreale» elaborato dal citato matematico inglese Conway. Il termine “numero surreale” non è stato dato da questo matematico, ma è una formula letteraria che è rimasta in uso per descrivere questa tipologia di numeri – piacque allo stesso Conway che decise di adottarla nel descrivere questa sua scoperta. La storia della matematica ci ha insegnato che la profonda struttura del numero è data da una certa qualità detta «numerabilità». I numeri esistono, perché in epoche arcaiche gli uomini primitivi ed antichi compresero che gli esseri e gli enti della realtà erano tutti numerabili, nel senso che era possibile applicare ad ognuno di essi una certa quantità – ciò spinse i matematici pitagorici ad assolutizzare il numero -, ma cosa fosse in realtà questo oggetto chiamato “numero” si è faticato alquanto. Meglio, la formulazione della natura del numero era ancora affidata ad una prospettiva mercantile o commerciale: in ogni caso, una prospettiva dove esiste una relazione logica, seppur tra la quantità (numero) e ciò che viene misurato o calcolato come tale. Lo stesso Aristotele di Stagira quando parlava del numero lo faceva anzitutto al plurale, perché se appariva complicato dare una chiara descrizione della natura di un singolo numero, senza cadere nelle enigmatiche e mistiche osservazioni pitagoriche, meno complicato appariva dare la definizione di “tutti” i numeri, i quali potevano essere descritti come una sequenza temporale composta da antecedenti e successivi (serie dei numeri naturali). Ecco, l’idea originaria del numero surreale di Conway è una condizione simile come quella che per secoli ha imposto la filosofia aristotelica, con la differenza che per il matematico inglese non è il tempo la condizione della costruzione della sequenza, bensì la posizione e l’ordine imposti dalla regola di costruzione della sequenza numerica e dal numero in questione, nel caso del numero surreale «destra» e «sinistra» e non «prima» e «dopo» come può leggersi la serie dei numeri naturali.
 

La configurazione dei pezzi sulla scacchiera e soprattutto il movimento dei singoli pezzi autorizzano in un certo qual senso quest’estensione e correlazione con il concetto matematico di numero surreale. Un numero surreale anzitutto, è un numero il cui campo si colloca entro quello dei numeri reali, per cui sono è di numero infinito e presenta anche i numeri infinitesimali; inoltre, è possibile stabilire in senso assoluto una relazione di grado, per cui può annoverarsi tra i numeri iperreali. La costruzione di questi numeri è la stessa improntata dai criteri costruttivi del matematico tedesco Richard Julius Wilhelm Dedekind (1831-1916), vale a dire tramite la partizione del numero in sottoinsiemi intesi come classi contigue, cioè come sezioni dello stesso numero. In tal senso, il numero surreale è quel numero determinato da un certo valore che si colloca in quell’area di campo in cui i due gruppi di valore sono contigui. Tale situazione viene descritta dalle lettere L e R, cioè «Left» (sinistra) e «Right» (destra). Con la lettera L si indicano tutti i numeri che sono minori del numero surreale, mentre con la lettera R tutti quelli che sono maggiori di questo nuovo numero. Questa situazione viene fissata dalla scrittura 

{L|R}. (3)

L’unica regola fondamentale che viene prevista è quella che i numeri di L debbano essere minori di R. Un esempio (tratto da wikipedia.it) è il seguente {{1, 2}|{5, 8}}. La scrittura sta indicando il valore di un numero che è compreso tra 2 e 5, perché il nuovo numero ha un valore che è maggiore di 2, ma minore di 5: come si intuisce, la regola d’ordine imposta per definizione dalla scrittura (3) è confermata poiché i valori di L sono minori di R, per cui il valore del nuovo numero si colloca in quell’intervallo che va a “destra” di L, ma a “sinistra” di R.

Ovviamente, deve ammettersi che questa relazione intercorra anche tra insiemi che non abbiano valori, tant’è che i numeri surreali ammettono l’esistenza dell’insieme vuoto (cfr. teoria degli insiemi). Pertanto, si avrà la seguente scrittura:

  • {L|{}} descrive la presenza di un insieme vuoto in R, il che vuol dire che il nuovo numero avrà un valore che è individuabile solo tra quelli maggiori in L, cioè che si collocano a destra di L;
  • mentre la scrittura {{}|R} descrive la presenza di un insieme vuoto in L, il che vuol dire che il valore del numero si collocherà tra i valori minori in R, cioè tra quelli che si collocano solo a sinistra di R.
La scrittura (3) definisce il numero surreale e la relazione d’ordine che vi soggiace; ed è appunto, in riferimento a questa relazione d’ordine che è possibile costruire il numero in questione. La costruzione del numero prevede il realizzarsi di alcune condizioni previste da due regole fondamentali. La prima regola è la regola di costruzione.

Si fissa la condizione iniziale per la quale, stabilito che L e R siano due insiemi di numeri surreali e che nessun membro di R sia minore di L, allora il numero descritto dalla scrittura {L|R} è certamente un numero surreale. Poiché si sta ragionando in termini di insiemi la scrittura (3) diventa la seguente:

X = {XL | XR} (4).

La scrittura (4) dice semplicemente che X è un certo numero il cui valore si colloca nell’intervallo contiguo tra l’insieme sinistro di X e l’insieme destro di X, cioè ha un valore che occupa i valori maggiori di XL e quelli minori di XR. Poiché la scrittura dei valori comporta l’uso di molte parentesi graffe anziché scrivere {{a, b, …}|{x, y, …}} si usa scrivere {a, b, … | x, y, …}, mentre il numero con l’insieme vuoto come {a|} oppure come {|a}, anziché come {{a}|{}} oppure come {{}|{a}}.

La relazione d’ordine viene indicata da «≤». 

La seconda regola fondamentale è la regola di confronto. Dati due numeri surreali, x = {xL|xR} e y = {yL|yR}, esiste una relazione d’ordine tra i due numeri, cioè x≤y, a condizione che y non sia un numero minore o uguale a qualsiasi altro membro di xL e nessun membro di yR sia minore o uguale di x.

Queste due regole, regola di costruzione e regola di confronto, vengono dette ricorsive, perché possono applicarsi costantemente lungo tutta l’intera sequenza numerica, vale a dire che come per la serie dei numeri naturali possono determinare una certa relazione d’ordine, allo stesso modo è possibile farlo anche per la serie dei numeri surreali. Ciò risulta realizzabile, perché la struttura operativa che tiene la intera sequenza numerica dei surreali in una struttura unitaria agisce secondo il principio matematico d’induzione. Qui, il termine «induzione» non ha lo stesso significato del metodo induttivo adottato dalla scienza, ma descrive un enunciato esteso esclusivamente ai numeri naturali e che sovente viene utilizzato dai matematici nelle dimostrazioni delle proprietà relative a tutti i numeri interi. L’applicazione di detto principio determina una struttura d’ordine, cioè un criterio o una norma con il quale vengono composte non solo le relazioni tra gli oggetti di un insieme, ma anche le proprietà che gli sono proprie. L’ordine di cui si compongono è fondato sulla posizione; un esempio intuitivo è l’«effetto domino». Una fila di tessere del domino può cadere ordinata ed in modo sequenziale a patto che si realizzino le seguenti condizioni:
  • Cada la prima tessera;
  • Ogni tessera sia posizionata in modo tale che cadendo provochi la caduta della tessera successiva.
L’«effetto a catena» o «a cascata» può realizzarsi in questo modo per tutta la lunghezza (anche infinita) della stessa sequenza. Ecco, la struttura che agisce nella costruzione dei surreali opera allo stesso modo e ciò indipendentemente dalla lunghezza della sequenza.

In matematica dunque, il principio di induzione definisce che se una proprietà P vale per il numero 0 (zero) e se si realizza la seguente condizione 
per ogni n, allora la proprietà P(n) vale per ogni n.

Detto questo, appare più comprensibile perché nella costruzione del numero surreale si sia parlato anche dell’esistenza dell’insieme vuoto, in quanto l’ammissione che possa esistere un sottoinsieme con nessuna proprietà P(0) è un modo per una generalizzazione elementare del modello. Ciò significa che la relazione d’ordine su cui si basa la determinazione della proprietà P(n) per ogni numero n è e descrive un valore assoluto. Ma questa generalizzazione ci risulta necessaria anche per un altro motivo, tra l’altro legato alla descrizione della struttura matematica del gioco del Solitaire e cioè la possibilità di poter formulare una variante del principio d’induzione che abbia appunto, una maggiore connotazione assoluta.

Si è generalizzata una certa situazione costruttiva del numero surreale, tuttavia viene da chiedersi quali siano quei sottoinsiemi che possono essere individuati ed essere, a sua volta, ritenuti gruppi di numeri surreali. La relazione d’ordine di cui si diceva prima fissa un ordine, un criterio tramite il quale iniziare a comporre questi gruppi di surreali. L’ordine indica che per individuare un surreale occorra identificare i numeri ordinali che si collocano nello stesso campo in cui rintracceremo il valore del nuovo numero. E per fare questo occorre un nuovo e diverso principio detto d’induzione transfinita. Questo principio non è altro che un’estensione ed una variante del consueto principio d’induzione, tuttavia ci permette di operare su una precisa classe di numeri, detti ordinali transfiniti On, che è una sottoclasse dei numeri naturali. 

Il principio afferma che se U è un sottoinsieme della classe On, tutti i suoi ordinali devono verificare le seguenti due proprietà:
  1. U contiene 0.
  2. Ogni volta che U contiene tutti gli ordinali a minori di b, allora U contiene anche b.
In ragione della verifica delle due condizioni poste, si può dire a questo punto che il sottoinsieme U coincide con l’intera classe degli ordinali On.

L’indicazione della relazione d’ordine è generica, infatti per poter meglio determinare il numero surreale si necessita di una composizione più forte di quella data dal principio d’induzione, e che ci viene data dai numeri ordinali, definendo così non solo una relazione, ma una precisa scansione e individuazione dei posti occupati dagli elementi della serie.

È a questo punto che si ritrova l’argomento relativo alla correlazione che intercorre tra queste strutture matematiche e la strategia di gioco del Solitaire

Riandando alla modalità inversa proposta da Leibniz, la convinzione del filosofo e scienziato tedesco è ben fondata, perché è possibile giocare con il Solitaire a situazioni ribaltate, perché le figure composte sono prodotte dalle relazioni binarie che le pedine descrivono sulla scacchiera; una disposizione cioè, che si basa su relazioni di equivalenza che rende la stessa configurazione antisimmetrica: la descrizione dei surreali ci permette di rilevare che, fissando una relazione d’ordine in un gruppo numerico, si può creare una situazione regolata da un preordinamento totale che rende l’intera struttura non antisimmetrica; ciò vuol dire che nel provare ad operare con gli elementi di questo gruppo non è possibile operare in modo da avere figure simmetriche, configurazioni non comparabili. Ciò non accade nel Solitaire, perché i gruppi espressi dalle configurazioni delle pedine vengono strutturati secondo una relazione binaria,  in modo tale che la relazione d’ordine tra i due gruppi crei una situazione simmetrica, vale a dire x≤y e y≤x; in questo modo, la classe a cui si riferiscono i due gruppi non è altro che la stessa classe d’equivalenza: le classi di equivalenza sono scritte in questo modo [x]=[y].

In conclusione, seguendo la regola fondamentale che è alla base del Solitaire si ha l’impressione che la intera struttura di gioco configuri uno schema logico rigido, in realtà come può intuirsi da questo argomento tratto dai numeri surreali la meccanica di gioco indica tutt’altra situazione. La prova di ciò è proprio la realizzabilità della modalità inversa di Leibniz, che altrimenti non sarebbe praticabile nella azione di gioco. Ora, proprio questa struttura di relazioni binarie rende questo antico gioco francese una piccola piattaforma algoritmica che funziona quasi come una macchina informatica, infatti la meccanica di gioco opera secondo gli stessi principi che sono alla base delle proposizioni informatiche, quelle stesse descritte dal simbolismo del matematico britannico George Boole (1815-1864). Per alcuni questo tipo di parallelismi fa dire subito di essere dinanzi ad una nuova forma di “attualità” e forse hanno ragione, anche se io diffido, tuttavia il fatto che questa succinta (e spero non maldestra) descrizione del gioco abbia rivelato temi e nodi che rinviano al discorso attuale della scienza o a parte di esso, certamente fa dire che questa presunta attualità sia un valore aggiunto, che permette almeno di segnalare temi, questioni e prospettive.

Chiudendo, nel 1998 l’algebrista polacco Arie Bialostocki riprende l’approccio del problem solving di cui si diceva in precedenza ed elabora per il gioco del Solitaire una diversa numerazione delle operazioni valide con le quali giungere alla soluzione del gioco. La nuova numerazione prevede la divisione in settori di gioco, simile all’idea di Conway dei “blocchetti”, a cui però assegna una lettera, che può leggersi sia come qualificante un blocchetto, sia la sequenza operativa che bisogna compiere nel percorso di soluzione del gioco.  Ovviamente, l’utilizzo della nomenclatura di Bialostocki non esclude il ricorso alla Teoria dei Gruppi di cui si diceva all’inizio, anzi. Infatti, il ricorso alla teoria dei Gruppi ha permesso di scoprire che solo il modello della scacchiera a 33 caselle ammette un’effettiva soluzione, mentre l’altro modello, quello della scacchiera a 37 caselle, anche se in uso in alcune applicazioni per smartphone, non ammette alcuna soluzione, cioè de facto è irrisolvibile.



Post Scriptum. Domenica scorsa (12 luglio 2020) guardo gli ultimi minuti in radiovisione della striscia pomeridiana di Radio Freccia (se non sbaglio doveva essere Il Molo 17 con conduzione di Ambra Marie, ma non sono certo); minuti di chiusura del programma dicevo, affidati all’ultimo video musicale, che per l’occasione era il video di Another Brick In The Wall dei Pink Floyd: video storico e tra l’altro molto noto. Al di là del tema posto dal video, mi colpì, anzi mi soffermai sulla figura solitaria, ma non troppo e negativa del professore dispotico, bersaglio appunto dell’argomento del video. Il momento visivamente interessante e ciò che rende questo video giustamente noto è la visionaria trasformazione del dispotico docente in un martello vivente, che guida un perverso meccanismo omologante e repressivo di controllo della conoscenza e dunque, della libertà individuale e collettiva fissato dall’immagine della macina per la carne: negli anni della contestazione giovanile e dei campus americani, senza scordare la beat generation, il popolo non aveva il potere nonostante l’opinione di Patti Smith, ma era “carne da cannone”, adesso lo stesso popolo autodeterminato è all’interno di una macelleria sociale autorizzata da quel potere a cui ha delegato il proprio potere.
Per quanto mi riguarda non mi interessa questa polemica antisistema, semmai ci sia realmente questo messaggio nel video pinkfloydiano, quanto invece l’uso visivo dell’immagine centrale del video, che non è il muro indicato dal titolo del brano musicale, ma la figura del potere – in questo caso il potere scolastico – che assume le fattezze di un inquietante martello vivente che inizia un altrettanto inquietante processo di replicazione da cui ottenere un esercito anonimo, omologato e disumanizzato di martelli viventi. La scelta del martello come forma simbolica non è casuale e tuttavia, nonostante ipotizziamo che la forma abbia un'unica direzione semantica, l’immagine del video musicale è un tipico prodotto della cultura pop odierna, cioè costruito su direzioni e canali volutamente ambigui e vaghi, a direzione molteplice. Perché il martello e non un’altra forma simbolica? Non sarà segno dell’ennesima trasmigrazione iconografica nel paesaggio odierno operata dalle strutture narrative attuali?
La piccola enciclopedia dei simboli della Garzanti alla voce relativa al simbolo del martello evidenzia come esso descriva un valore, sovente con attribuzione negativa, collegato alla forza e all’attività. Una connotazione che il paesaggio popolare odierno sembra ampiamente recuperare, soprattutto in una certa iconografia thriller o orrorifica, tuttavia, come rivela il video musicale citato, esiste anche una tipica compresenza di valori, sovente anche antitetici, che rendono la forma simbolica polivaloriale. 
L’enciclopedia citata ricorda che nella mitologia greca il martello compare nelle rappresentazione del dio del fuoco Efesto, spesso descritto in una fucina – presenza del fuoco e di un’incudine – e appunto con in mano un martello e delle tenaglie; in questo tipo di rappresentazione Efesto non è solo un artigiano, nella fattispecie un fabbro, ma acquista un alone sinistro ed inquietante che gli deriva proprio dall’oggetto che tiene in mano. Un oggetto protesico oserei dire, da cui emana un potere meraviglioso e terribile ad un tempo, perché è un potere manipolatorio, nel nostro caso un potere che trasforma il ferro in acciaio. Dal punto di vista fenomenico, il martello ha la stessa collocazione a cavallo tra due mondi, quello profano e quello sacro, anche nell’iconografia religiosa etrusca, infatti compare tra le mani del dio della morte Charun – l’equivalente nella nostra tradizione giudaico-cristiana del diavolo -, ma non assolve alcuna funzione specifica, se non quella di connotare colui che lo possiede: che abbia solo valore rappresentativo lo si intuisce dal fatto che gli etruschi lo rappresentano con un manico lunghissimo, una scelta visiva che vuole forse sottolinearne la presenza come accade anche per il martello di Efesto.
Diversa è la funzione simbolica del martello presso i popoli della Germania del Nord. L’oggetto è legato maggiormente alla dimensione sovrannaturale e divina. È posseduto dal dio del tuono Thor ed è usato in battaglia per via delle sue proprietà magiche. Nella mitologia nordica Thor utilizza il martello come una arma (soprattutto contro i Giganti), ma il suo martello non è un oggetto qualsiasi, è Mijolnir, un oggetto fatato, tanto che il dio può scagliarlo e questi torna di nuovo tra le sue mani magicamente. Mijolnir è una arma, ma sancisce anche i matrimoni e nella cultura popolare nordica si presenta in forma di amuleto, al quale viene associata una funzione esorcizzante contro le forze maligne. 
Come si vede, non solo cambia il paesaggio mitologico in cui si colloca l’oggetto (area non Mediterranea), cambia anche il valore e la funzione che gli vengono attribuiti.
Ciò che rimane costante è invece, la forma visiva che permette l’associazione formale dell’oggetto ad un altro simbolo, questa volta proprio dell’iconografia egizia, come la croce a Tau (o a forma di “T”) e rimane altrettanto costante la sua stretta correlazione con ambienti e settori legati alla violenza e alla guerra e più in generale all’autorità del potere. Il martello come forma di croce diventa simbolo stesso non solo di una fede, ma anche di una nuova struttura di potere durante l’epoca cristiana e lo è ancora oggi, a ben guardare. Questo legame ricorre non solo in alcune forme codificate dall’araldica, ma anche nella nomomastica: il caso più noto è il nome del re francese Carlo Martello, eroe cristiano del Medioevo che fermò l’avanzata islamica nell’VIII secolo d.C. A riguardo, la cavalleria cristiana utilizza la croce non solo come simbolo di fede, ma anche perché vuole evidenziare proprio il tratto guerriero e militare dell’iniziativa monastica in difesa dei possedimenti gerosolimitani: la croce in questo tipo di lettura, prima di essere il simbolo di fede prestato al crociato in Terra Santa è il segno che contraddistingue il miles christi, il soldato di Cristo, il cui significato affonda più nel patrimonio simbolico che non in quella cornice teologico-misticheggiante entro cui la collocò San Bernardo di Chiaravalle. In questo caso, la fede ed il messaggio salvifico si rafforza, masi carica anche di una valenza fanatica e violenta proprio in virtù della connotazione visiva del simbolo e dei riferimenti a cui attinge.
In tal senso, la natura eclettica del simbolo non può venir limitata, anzi essa fa in modo che l’oggetto trovi collocazione in altri paesaggi simbolici, come accade in epoca moderna con la nascita delle filosofie filantropiche che favoriscono l’inserimento dell’immagine del martello nell’iconografia massonica. Qui, il martello diventa il simbolo che contraddistingue il ruolo e la funzione del maestro spirituale della Loggia e dei due guardiani, in quanto presiedono non solo al controllo dell’associazione, ma anche alla crescita e al raggiungimento dello scopo mistico di tutti gli adepti. Nell’iconografia massonica consueta la forma della testa del martello ha un’estremità a punta, che nel lavoro dello scalpellino ha una funzione basilare, quella cioè di sbozzare e frantumare la pietra: nel caso dell’iconografia massonica questo tipo di martello indica il lavoro formativo (guida) che il maestro compie sull’apprendista massonico, quest’ultimo inteso come la “pietra grezza da lavorare”.
Il martello inoltre, compare nelle udienze giuridiche come lo strumento in uso dal giudice per richiamare l’attenzione dello uditorio o delle parti in causa. Compare negli stemmi e nei simboli dell’industria mineraria, ma in questo caso non si ha come oggetto il martello, bensì il mazzuolo, sovente presente in concomitanza con il ferro – di solito rappresentato in una forma a chiasmo. Infine, la figura stilizzata del martello ricorre anche nelle cartine geografiche per indicare o miniere chiuse oppure coltivazioni a ciclo aperto.
Questo breve excursus può essere chiaramente ampliato, ma è evidente quali siano i campi entro cui l’uso simbolico del martello viene ad occupare. Ora, nell’odierna iconografia questa ramificazione è in buona parte confermata ed utilizzata, ma in alcuni casi è possibile osservare una concomitanza di significati, una mutuazione, un arricchimento, o addirittura uno stravolgimento. L’esempio che citavo del video dei Pink Floyd è uno di questi momenti di trasmigrazione simbolica, infatti l’immagine del martello che vi è mostrata si compone sia del consueto significato di forza e violenza, sia quello massonico di plasmatore della materia inerte ed informe, seppur entro una cornice valoriale negativa. Ma gli esempi sono molti e diversissimi, soprattutto nell’attuale sistema culturale in cui la cifra della contaminazione dà sfogo al potere euristico delle strutture narrative del sistema comunicativo di recuperare, magari aggiornandoli, arcaici significati e addirittura veri e propri archetipi.
Questo approccio è insomma, una cifra della nostra era. 
Per rimanere sull’oggetto simbolico dell’argomento, ecco una piccola lista di usi e presenze simboliche in alcuni prodotti culturali dell’era recente:
  • Il filosofo tedesco Friederich Nietzsche (1844-1900) era solito descrivere la propria filosofia in molti aforismi, specie in quelli di Ecce homo, come una «filosofia del martello», recuperando appieno proprio la cifra violenta contenuta nell’oggetto che qualifica il suo pensiero, il martello appunto. 
  • Per rimanere ancora in ambito filosofico. Il filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004) scrive un libro, molto citato ed interessante, dedicato all’analisi dello stile aforistico del filosofo tedesco sopra indicato, per l’occasione ricorrendo ad un’immagine, tra l’altro usata dallo stesso Nietzsche, che è quella dello sprone. L’etimologia metaforica (ricordare le idee espresse in La metafora bianca) che ne offre Derrida ci conduce ad associare lo sprone di Nietzsche al rostro delle navi romane, in quanto questi oggetti condividono la stessa funzione – anche simbolica -, quella cioè di ferire, pungere, strappare, incunearsi e via dicendo. Una funzione che a me ricorda molto la corazza di aghi dei ricci o delle istrici soprattutto, ma senza quella valenza univoca che Nietzsche riconosce a strumenti di questo tipo, cioè oggetti la cui funzione esiste e si esercita solo con l’attività del soggetto che lo brandisce: l’immagine di Derrida (come ho inteso fare io con gli aghi delle istrici) ha una doppia funzione, lo sprone è sì un oggetto puntiforme di attacco che produce aggressione e violenza (come in fondo, sarebbe piaciuto a Nietzsche), ma è anche uno strumento passivo di difesa, che innalza diciamo così, una barriera  “strutturale” o “naturale” che non richiede alcuna attività per operare.
  • Un altro esempio è una citazione giocosa. Nella canzone del cantautore genovese Fabrizio De André (1940-1999) dal titolo Nella bottega del falegname, tratta dal suo La buona novella, viene riprodotto il suono di un martello seppur in forma onomatopeica (deng, deng), ma questo suono, che certamente ci fa pensare ad un martello, non è il suono del martello di un falegname, anche se protagonista del brano è San Giuseppe. Personalmente, l’immagine che mi sovviene alla mente è quella di un martello batte su un’incudine: è il martello di un fabbro – di qui forse, l’epiteto che molti utilizzano quando si rivolgono al cantautore genovese, «faber» appunto. Ipotizzando che non sia un fatto casuale, anche in questo caso la commistione di diverse valenze lascia affiorare un’idea suggestiva, ma credibile per la quale il martello è ad un tempo strumento di lavoro, strumento di violenza (visto che sta costruendo un oggetto suppliziale) e strumento mistico, in quanto il Cristianesimo eleverà questo oggetto scandaloso che è la croce in una speranza.
  • Nel film del regista coreano Park Chan-wook dal titolo Old Boy (2003) la locandina europea esibisce il protagonista che con gesto minaccioso tiene in mano e prova a scagliare un martello con una bicolorazione giallo e nera (come le api o come i cartelli di pericolo di contaminazione biologica e radioattiva). Il fotogramma è tratto da un momento del film in cui il protagonista nel tentativo di sfuggire ad un’orda di uomini che lo vogliono catturare si difende con un martello, picchiando con esso e brandendolo minacciosamente: scena che viene citata, senza però la presenza del martello nella prima stagione della serie televisiva della Netflix, Daredevil.
  • Nel 1983 il gruppo musicale statunitense Metallica pubblica il loro primo full-lenght, il noto Kill’em All. La copertina in Europa, ma credo anche negli Stati Uniti d’America viene censurata da una pellicola con la scritta "Parent Advisor". Il provvedimento si è reso necessario, perché compare una pozza di sangue su cui è immersa la testa di un martello: il titolo dell’album non lascia dubbi sull’inevitabile correlazione tra il messaggio del testo e il contenuto visivo. Anche in questo caso la violenza è fissata dall’immagine del martello, tuttavia è da notare che non è una violenza immotivata o senza scopo, certo in questo caso ha valore negativo, quello di una violenza aggressiva, destabilizzante ed eversiva, non necessariamente seriale (si ricorre ad altre icone come il coltello o il bisturi chirurgico, in qualche caso armi da fuoco), di certo occasionale.
  • Nel romanzo di Bram Stoker (1847-1912), Dracula, il protagonista per uccidere il non morto, quella forza del male che è il Conte Dracula deve ricorrere ad una tecnologia magica, tra cui compare anche il martello. La funzione dell’oggetto è semplicemente meccanica e materiale, cioè quella di conficcare nella cassa toracica, all’altezza del cuore, un paletto di frassino, ritenuto velenoso per la creatura della notte contro cui l’eroe del romano sta combattendo. Il martello ricorre nella letteratura gotica e fantastica per lo più come occasionale strumento che schiude o che chiude la situazione che caratterizza il tema del romanzo.
  • Nella liturgia della Porta Santa della basilica di San Pietro a Roma, opera dello scultore Vico Consorti (1902-1979),  prima della modifica apportata da papa Giovanni Paolo II (1978-2005) per il Giubileo del 2000, il rito prevedeva che il pontefice cattolico rompesse il diaframma, un sigillo posto sulla muratura attaccata alla porta, con un martelletto, inaugurando l’apertura del giubileo. Il vecchio rito prevedeva che, una volta rotto il sigillo, gli operai si premunissero per abbattere il muro che aveva carcerato la porta: si decise di cambiare il rito a causa di un incidente sfiorato accorso a papa Paolo VI (1963-1978) nel 1975, il quale durante l’abbattimento del muro viene sfiorato dai calcinacci. 
Ovviamente gli esempi possono moltiplicarsi quanto si vuole, io mi sono limitato a quelle forme in cui mi è accaduto di imbattermi nella mia vita e qualcuna addirittura, ho evitato di riportarla, perché mi è sufficiente fissare una traccia, glissando per così dire, su tutto il resto.