Esistono molti luoghi
considerati enigmatici, misteriosi e addirittura magici; luoghi in cui domina
il mistero, ma anche il pericolo, e forse anche la morte. Sono luoghi che
esibiscono evidenti tratti di esotismo, spesso carichi di stereotipi, di
clichés e di insipienza e quindi, generatori di per sé delle più bizzarre
fantasie, se non di mostri veri e propri. La letteratura, soprattutto quella di
genere come i racconti gialli o i racconti horror, fanno ricorso a questi
luoghi sia per contestualizzare le storie che raccontano sia per creare nel
lettore quella attesa che lo coinvolge, lo intriga e lo spaventa. Ebbene, molti
di questi luoghi o sono ruderi abbandonati o sono zone urbane notoriamente
considerate malfamate o evidentemente degradate – e purtroppo ce ne sono molte
nelle città contemporanee -, più difficile che luoghi domestici riescano a
suggestionare la fantasia o le paure dei lettori, tranne forse certi edifici di
epoca vittoriane, ormai divenute icone di storie piene di thriller o di vicende
scioccanti, o strutture particolarmente bizzarre e grottesche come i plastici
dei film di Tim Burton. Dicevo, tra questi luoghi annoverare una biblioteca è
se non improbabile, almeno più difficile, tranne se la storia lo richiede – e
di esempi ce ne sono molti sia al cinema che in letteratura. Una biblioteca
nota nella nostra letteratura nazionale è quella descritta da Umberto Eco nel
suo primo romanzo, Il nome della rosa.
La storia del romanzo è
molto nota e come si sa al centro delle vicende raccontate c’è un misterioso
libro proibito, che si rivelerà essere il perduto secondo libro della Poetica
di Aristotele, libro di cui si ha solo alcuni riferimenti e citazione dai
commentatori del passato. Il romanzo di Eco ipotizza non solo che tale libro
sia realmente esistito, ma che l’unica copia circolante in Europa fosse
presente nel catalogo della biblioteca dell’abbazia benedettina in cui viene
ambientato il romanzo. La conoscenza di questo libro si rivela mortale, perché
in esso viene teorizzata una concezione della comicità, ben prima che il
filosofo Henri Bergson ne formulasse un trattato sulla falsariga del trattato
aristotelico. A causa delle idee aristoteliche sulla comicità che l’abbazia è
funestata da misteriosi incidenti mortali, incidenti rivelatesi poi omicidi con
l’intervento di un frate francescano Guglielmo di Baskerville, coadiuvato dal
suo novizio, il benedettino Adso, voce narrante della storia. L’abbazia è un
fantomatico monastero dell’alta Italia – oggi universalmente indicato dai
lettori di Eco con la Sacra di San Michele situata nella valle di Susa – che
nell’anno 1327 è sede di un concilio tra gli ordini
monastici per decidere su alcune questioni che riguardano la politica universalistica
del papato, fortemente avversata dai frati minori dell’ordine francescano, a
cui da poco è stata riconosciuta la regola (la seconda, quella del 1322). In
questo clima di tensione spirituale e di generale crisi politica che domina in
Italia a causa dei contrasti tra il papato e l’imperatore di Germania sul tema
delle investiture e del potere regale si assistono a queste morti misteriose,
eventi drammatici che vengono spiegati come segni di un’apocalisse
sopravveniente. Nello sviluppo narrativo compare come fondo costante della
storia la presenza di questa biblioteca inaccessibile, che eccita la curiosità
del frate francescano, investito tra l’altro dall’abate del monastero di
indagare le cause di questi fatti misteriosi. È convinzione di frate Guglielmo
che la ragione che spieghi le morti misteriose nell’abbazia, oltre l’azione
malefica del diavolo, sia da ritrovare appunto, in questo luogo inaccessibile,
ma anche estremo vanto dell’abbazia, visto che tra le sue mura sono conservati
alcuni codici e manoscritti rarissimi, un patrimonio che si perderà in parte
nel rogo finale dei locali della biblioteca.
Ora, se questo libro
proibito è la causa degli eventi che innescano il racconto del romanzo, in
realtà lo elemento protagonista del romanzo è appunto, il luogo della
biblioteca, immaginato da Eco con una struttura labirintica e collocata nella
sommità del monastero, preceduta dalla sala dello scriptorium, il locale in cui i monaci amanuensi lavorano sulle
copie manoscritte dei libri donati in prestito o come dote al monastero: la
copiatura aveva la funzione di produrre una copia che sarebbe stata conservata
nella biblioteca, oppure consegnata al privato o all’istituzione religiosa che
l’avesse richiesto. Quest’attività definisce un sistema di produzione dei
contenuti culturali che domina tutta l’epoca medievale e descrive soprattutto
un paradigma che vede come centro nevralgico il ruolo, la funzione e lo status
sociale del monachesimo europeo. Il racconto del romanzo non è dunque, solo la
storia di un’ossessione che a parti inverse accomuna un po’ tutti i
protagonisti, ma è soprattutto la storia del declino di un sistema culturale
incentrato sulla figura del monaco ed in modo indiretto sulla centralità ideale
ed intellettuale che occupa un luogo come la biblioteca.
Tra le righe del romanzo Eco cerca di
trasmettere il senso che l’uomo medievale assegnava a siffatto luogo. Accanto
al concetto di auctoritas che
caratterizza espressamente alcuni testi fondamentali della civiltà medievale
europea – su tutti ovviamente i libri della Bibbia, ma anche alcuni trattati
dell’antichità -, esiste un altro tema, anzi un vero e proprio luogo fisico in
cui la verità espressa dalle auctoritas
trova riparo, ma anche irraggiamento nella vita dell’uomo europeo e nel cristiano
in particolare. L’immagine della luce, attributo che la teologia cattolica
applica esclusivamente alla verità di fede, diventa anche un’attribuzione della
biblioteca, in quanto è questo luogo lo strumento con il tale luce può prodursi
nella mente dell’uomo e diffondersi su tutta la sua realtà. La biblioteca è il
luogo fisico della luce, il luogo attraverso cui l’umanità po’ seguire quella
direzione indicata da quei giganti che sono gli autori ed i filosofi antichi,
quelli di cui l’uomo medievale sente di essere il continuatore. L’uomo medievale di Jacques Le Goff
ricorda come per il Medioevo non esiste alcuna rottura con il passato,
nonostante l’età antica sia dominata da quella cultura pagana ed anticristiana
che il noto Concilio di Nicea ha definitivamente cancellato, e l’epoca moderna
espressa dal Medioevo sta in rapporto di relazione costante con quel passato: i
testi di riferimento continuano ad essere i testi pagani, soprattutto per
filosofia, scienza, oratoria, linguistica e esegesi, ma tale invadenza pagana è
mitigata dal modello educativo formulato da Sant’Agostino, un modello in cui la
cultura classica non è rigettata, ma “depredata” di ciò che può tornare utile
all’apologia cristiana e più in generale alla teologia cristiana. In questo
paesaggio fondamentale è il ruolo che occupa la biblioteca, luogo della difesa
della memoria di questa infanzia dell’umanità che altrimenti cesserebbe di
aiutare l’umanità nel suo percorso di crescita verso la fede e verso la
comprensione delle cose. È proprio per realizzare questo scopo che si
costruiscono biblioteche, ma è tramite questa edificazione che interviene la
azione del monaco, l’unica figura che può affermare una statura intellettuale,
cioè la statura di «litterates», di conoscitore delle lingue antiche e quindi,
lettore dei testi antichi.
Ciò detto, la biblioteca pur
essendo un luogo molto diffuso in epoca medievale non è invenzione degli uomini
del Medioevo e neanche dei monaci cristiani, non sia hanno notizie certe
sull’esistenza di strutture che possono essere assimilate ad una biblioteca
prima dei regni ellenistici; si può ipotizzare, perché alcune notizie sembrano
suggerirlo, che già in epoca babilonese fossero presenti strutture di queste
tipo, almeno come luogo di deposito delle tessere o degli editti del re, ma è
solo in epoca più tarda che viene a costituirsi il significato di biblioteca
nel modo in cui si è abituati a considerarla. Tale significato viene definito
in Egitto, durante il regno di Tolomeo II Filadelfo con la fondazione e
costruzione del Museum di Alessandria,
cioè della biblioteca reale: siamo nel III secolo a.C. Il Museum non è una biblioteca in senso stretto, almeno non nel
significato che diamo a questo termine, ma è stato un centro culturale, tra
l’altro uno dei più importanti di epoca ellenistica, distrutto definitivamente
nella tarda antichità: probabilmente il Museum
è stato distrutto e ricostruito più volte come alcune notizie sembrano
suggerirci. In ogni caso, il luogo – di cui rimane solo una piccola stanza con
degli scaffali – è legato all’attività del tempio del dio Serapide di
Alessandria, del quale poteva trovarsi un affresco su una delle pareti
dell’edificio.
Uno degli scopi principali
della biblioteca è appunto, l’accumulo dei volumen,
cioè dei rotoli di papiro su cui erano stati manoscritti i libri che
confluivano ad Alessandria – alcuni di questi manoscritti venivano per un breve
periodo requisiti dalle autorità per venire copiati – e tale attività era
presieduta da un prostates, cioè da
un sovraintendente direttamente nominato dal re: il primo bibliotecario di
Alessandria a riguardo, fu Zenodoto di Efeso, che era anche un filologo.
Esistono varie stime sulla quantità di rotoli che il Museum di Alessandria riuscì a raccogliere, pur non indicando un
numero preciso basti dire che la mole è veramente considerevole per l’epoca.
Ora, non si hanno notizie precise su come sia nata l’idea di costruire una
biblioteca ad Alessandria, quel che è certo fu un’iniziativa interamente
ascrivibile alla dinastia dei Tolomei, che vi dedicò impegno ed interesse. Il
nucleo originario dell’idea probabilmente risale alla costituzione dei regni
ellenistici all’epoca dello stessa Alessandro Magno. Tolomeo I Sotere, diadoco
di Egitto, fa edificare un tempio dedicato alle Muse, da qui il nome di Museum, a cui collega un edificio
annesso (la futura biblioteca) la cui attività è anzitutto di raccogliere
manoscritti, per poi divenire un’attività di ricerca culturale vera e propria:
in ogni caso, ciò accade con il primo direttore della biblioteca. Sempre sotto
Tolomeo I inizia la catalogazione delle opere della biblioteca, compito svolto
da un altro direttore della biblioteca, Callimaco di Cirene, autore di un’opera
ispirata probabilmente al registro della biblioteca. È sotto il regno di
Tolomeo III che l’attività di ricerca della biblioteca risulta più evidente;
all’epoca infatti, ad Alessandria esistevano due biblioteche, la prima, la più
grande e all’interno del palazzo reale, aveva la funzione di luogo di consultazione
degli studiosi del Museum, mentre la
seconda era più piccola e sorgeva all’esterno del palazzo, in concomitanza del
tempio di Serapide, da qui appunto, il nome di Serapideo di Alessandria. Anche
in questo caso, l’attività della biblioteca è correlata all’impulso dato dai
vari direttori che ne presiedono la gestione, per cui a metà del III secolo
a.C. l’interesse della biblioteca si rivolge sempre più verso l’ambito
scientifico sotto la direzione del geografo Eratostene, mentre gli interessi di
linguistica e filologia si collocano sotto le direzioni di Aristofane di
Bisanzio e Aristarco di Samotracia.
La fine della dinastia dei
Tolomei d’Egitto ha determinato la fine della stessa biblioteca di Alessandria.
Varie testimonianze letterarie suggeriscono che a fatica l’istituto sopravvisse
qualche secolo dopo la fine dei Tolomei, ma è evidente che la biblioteca non
aveva più lo splendore degli anni precedenti. Quel che è certo è che la
biblioteca venne distrutta più volte e l’ultimo intervento significativo per il
ripristino della grandezza della biblioteca si colloca sotto l’impero romano
con un ampliamento dei locali dell’edificio per ordine di Claudio e sotto la
sovraintendenza di Strabone. Le guerre intestine dentro l’impero romano e
l’occupazione araba dell’Egitto devastarono e distrussero la biblioteca, la
quale cesso di esistere nel VII secolo d.C. con gli arabi.
La distruzione della
biblioteca non ha però, sancito la morte dell’idea fondante che l’ha
caratterizzata, un esempio è la ricostruzione recente del contemporaneo Museum di Alessandria, una struttura che
si ispira al mito della biblioteca trasmesso dalla letteratura antica, anche se
de facto svolge una funzione molto
diversa da quella che probabilmente svolgeva il Museum all’epoca dei Tolomei.
La biblioteca raccontata da Eco nel suo
romanzo non è la stessa biblioteca di Alessandria, anche se il topos ideale che anima l’immagine del
romanziere italiano ha molta affinità con l’antica struttura. L’istituto di Eco
è sia un luogo fisico, seppur inventato ed in parte idealizzato, sia una vera e
propria metafora. Con essa viene proposta una rappresentazione del Basso
Medioevo, in particolare la rappresentazione dei mutamenti che proprio il
sistema culturale dell’epoca, cioè quello costituito dal monachesimo europeo,
sta subendo, a causa del disgregamento della società medievale, ma anche a
causa delle nuove esigenze culturali. Nel romanzo vengono ricordate le
costruzioni di biblioteche urbane, cioè cittadine, erette tramite il
finanziamento dei comuni o di qualche privato, sovente mercanti che trovano in
questo investimento culturale un mezzo di affermazione sociale e politica.
Questo evento, che diventerà ancor più evidente durante i secoli della civiltà
umanistico-rinascimentale con la costruzione di biblioteche private, introduce
nel paesaggio europeo un nuovo soggetto che entra in competizione con le
strutture precedenti, sovente risultando vincente: per la propria attività i
mercanti avevano maggiore disponibilità per l’acquisto di manoscritti, ma anche
più occasioni di reperire testi poco diffusi ed importarli; l’esito di questa
condotta arricchisce le collezioni private, ma crea le condizioni per una
domanda culturale disattesa dal vecchio sistema culturale costruito dal
monachesimo e le biblioteche dei monasteri sono tra le prime istituzioni ad
avvertire chiaramente i segni del nuovo corso della storia, una direzione da
cui non si può deviare.
«siamo
nani (…) che stanno sulle spalle di quei giganti [sc.: la saggezza degli
antichi] e nella nostra pochezza riusciamo talora a vedere più lontano di loro
sull’orizzonte» (p.94).
Eppure in altre epoche la
costruzione delle biblioteche dei monasteri ha proceduto non solo con la affermazione
del monachesimo come strumento indispensabile dell’unificazione religiosa dell’Europa,
ma anche della più generale diffusione del Cristianesimo e dei suoi modelli di
fede. In questi processi la biblioteca ha svolto un ruolo fondamentale, ha dato
cioè al monachesimo europeo un legame con il mondo profano, ma anche il motivo
per cui la realtà terrena doveva essere rivalutata ed elevata a gloria eterna
di Dio. La fuga dalle vicende terrene che ha giustificato e legittimato la
scelta monastica non poteva essere a lungo andare il solo motivo per cui accettare
l’esistenza spirituale e sociale del monaco, la costruzione delle biblioteche
religiose fornirono a tutta la popolazione dei monaci europei la loro ragion d’essere,
il motivo per cui un monaco non solo esiste, ma il suo ruolo è funzionale e
decisivo per l’intera società. Il monaco è colui che produce contenuti
culturali,è colui che vigila sulla bontà delle conoscenze, le custodisce e le
diffonde, ma prima di essere questo e prima di essere una figura sociale di
grande prestigio il monaco deve volgere il proprio destino in direzione dell’attività
culturale, seppur un’attività essenzialmente contemplativa e specialistica.
La costruzione di
biblioteche religiose diventa allora, lo strumento potentissimo dell’affermazione
sociale e politica del monachesimo, descrivendo un modello di vita che entrerà
nell’immaginario europeo e vi rimarrà per molti secoli, anche dopo la fine del
Medioevo: prendere i voti monastici diventerà una scelta di carriera
prestigiosa e privilegiata, soprattutto se la militanza è tra gli ordini più
importanti. Ma ciò è creato e viene raggiunto attraverso la conservazione dei
libri, religiosi in primis e poi quelli pagani, e quindi tramite le biblioteche
appunto.
Prima si è detto della
biblioteca della città egizia di Alessandria e questa rappresenta il primo
modello di biblioteca di cui si ha solide notizie, tanto che essa è entrata a
far parte dell’immaginario collettivo anche ai nostri giorni, ma la biblioteca
religiosa che è al centro del romanzo di Eco non è un modello derivato, neanche
indirettamente, dall’antica istituzione egizia. Il modello di biblioteca a cui
fa riferimento il romanziere è quello elaborato durante l’Alto Medioevo dalla
comunità cristiana. Anzitutto, queste biblioteche vengono costruite con uno
scopo preciso, quello di conservare i testi sacri e non di accumulare gli
oggetti dello scibile umano, che sono appunto i libri. L’affermazione del
Cristianesimo quindi, costituisce il motivo determinante per la costruzione di
biblioteche religiose. A ciò si accompagnano anche alcune convergenze
storico-politiche che hanno permesso la diffusione di queste istituzioni. L’editto
dell’imperatore Teodosio II favorì e non poco la costruzione di biblioteche religiose,
infatti il documento imperiale prevedeva la chiusura dei templi pagani e con
essa la distruzione delle biblioteche pagane. L’editto colpiva l’edilizia e la
cultura pagana, ma non quella cristiana, per cui è evidente che nel costruire le
chiese cristiane o qualsiasi altro edificio religioso le biblioteche non potevano
essere corpi disgiunti dalla costruzione e vennero costruite all’interno del
manufatto. Questa prima e significativa differenza dagli edifici pagani,
permise la costituzione di locali interni alle chiese adibiti solo alla
conservazione dei testi sacri e di quelli religiosi necessari all’ufficio
religioso. Tale schema caratterizza la costruzione di tutte le biblioteche di
quest’epoca, sia ad Oriente che ad Occidente. In particolare, è proprio ad
Oriente che inizia l’elaborazione del modello di biblioteca a cui in seguito il
monachesimo europeo ricorre per le proprie costruzioni. Il modello più
importante è la biblioteca della città di Gerusalemme, creata presso la Chiesa del Santo Sepolcro da un
presbitero e studioso libanese di nome Panfilo, il quale organizzò questo luogo
non solo come semplice luogo di conservazione, ma anche come luogo di studio
dei manoscritti tramite la costituzione di uno scriptorium, cioè di una sala adibita alla copiatura dei manoscritti
che fungeva pure da luogo di confronto culturale (III secolo): è l’idea
alessandrina di centro culturale ampiamente rielaborata e riproposta entro un
sistema di interessi molto differente da quello tenuto dal Museum. L’attività di Panfilo, ricordata da molti commentatori di
epoca antica, rappresenta un argine rilevante alla distruzione delle molte
collezioni di libri presenti nelle regioni orientali dell’impero romano operata
dagli arabi: il califfo Omar ibn al-Khattab (m.644) impose il criterio della
compatibilità con il messaggio coranico; in base a tale principio se i
manoscritti delle collezioni scoperte riportavano verità condivise o
condivisibili con quelle di fede potevano essere conservati, altrimenti
dovevano essere abbandonati o addirittura distrutti.
Diversa invece la situazione
nell’Occidente latino, che vantava poche collezioni di libri. La più importante
è quella della città di Roma, ma questa collezione era in realtà l’archivio
della Chiesa Cattolica, la cui costituzione tra l’altro risale solo intorno al
IV secolo e non vantava una grande varietà, visto che venivano raccolti
manoscritti di materia teologica. Altro tenore è la collezione libresca di
Spagna, composta dal vescovo Isidoro di Siviglia nel VII secolo, ma esclusa
alla consultazione: sembra che venisse non raccomandata la consultazione da
parte degli stessi monaci, ritenuti dal vescovo inadatti alla consultazione,
probabilmente per la natura degli argomenti non propriamente religiosi. In ogni
caso, la presenza di queste collezioni, pur essendo un elemento importante per
la costituzione di una biblioteca, non hanno determinato la creazione
automatica di queste istituzioni. La correlazione tra collezione di libri e
l’istituzione di una biblioteca inizia a definirsi con la trasformazione delle
funzioni del monaco o dei gruppi cenobitici che venivano a comporsi. È un abate
egiziano, ex militare convertito, di nome Pacomio ad introdurre nella propria
comunità cenobitica la pratica della consultazione dei testi, pratica che
prevedeva l’obbligo ai novizi di saper leggere. Quest’obbligo – quasi una
regola – determinerà la creazione di un locale specifico dentro il monastero in
cui venivano depositati libri e manoscritti vari e dove si esercitava la
lettura. Tale modello verrà replicato in tutto l’Oriente bizantino ed i nuovi monasteri
edificati prevedono lo spazio di una biblioteca.
Il modello di Pacomio trova
in Occidente la sua formulazione nell’ordine di San Benedetto da Norcia, il
quale recupera le regole cenobitiche del modello orientale, compreso
l’obbligatorietà della lettura, ma ad esse aggiunge una variazione che sarà
decisiva per il successo della formula benedettina. La lettura dei libri non è
un’attività occasionale o contingente, ma diventa un’attività prevista ed
imposta dagli obblighi di voto. Infatti, alcune ore della giornata di un monaco
sono espressamente dedicate alla consultazione e alla lettura di testi, in
genere dalla quarta alla sesta ora (orientativamente dalle 9 del mattino,
subito dopo la colazione, fino a poco prima del pranzo, cioè a mezzogiorno
circa, detta appunto sesta). A ciò si aggiunge un altro obbligo, quello di
leggere un libro imposto e concesso dalla biblioteca del monastero e che
impegna il monaco nel periodo compreso tra la Quaresima (febbraio-marzo) ed il
mese di ottobre. Il periodo successivo a questo intervallo di sei mesi, cioè da
ottobre fino alla Quaresima successiva, la scelta del libro da leggere era
libera e non vincolata. L’aspetto più interessante di questo modello riguarda
la produzione dei contenuti, cioè dei manoscritti che compongono la biblioteca
del monastero. Infatti, non disponendo di risorse legate all’acquisto di libri,
la regola benedettina prevede l’attività intellettuale e manuale della
copiatura dei manoscritti, ottenuti in prestito da altre comunità monastiche o
da privati come donazioni. La copiatura dei manoscritti richiede una
specializzazione che con il tempo venne assegnata ad una categoria di monaci
scribi, noti come amanuensi, che si
occupavano di tutte le fasi di progettazione e composizione del codice
manoscritto. A riguardo, rilevante è un’opera scritta da un altro monaco
convertito, Cassiodoro, che scrisse un manuale intitolato Istituzioni che forniva le tecniche e gli accorgimenti di
progettazione e compilazione di un manoscritto. L’approccio di Cassiodoro è
derivato in buona sostanza dalla pratica burocratica dell’amministrazione
romana, per cui nei monasteri da lui fondati la copiatura pur rivolta in
prevalenza alle opere teologiche non prevedeva alcun pregiudizio verso manoscritti
che non fossero di argomento religioso. In seguito sorgeranno monasteri che
presenteranno questa impostazione. Il più importante è il monastero a Bobbio,
vicino a Pavia, fondato da Colombano che raccolse attorno a sé il consenso di
molti letterati (es. Petrarca) e soprattutto donazioni ed investimenti:
nonostante la forte presenza di laici la biblioteca rimane a carattere
religioso. Tutti gli altri edifici religiosi a partire dal VII secolo in Europa
sorgeranno riproponendo questi modelli e soprattutto raccoglieranno donazioni
ricorrendo all’istituzione di biblioteche. In questo scenario, la diffusa
costruzione di biblioteche diventa l’elemento fondamentale con il quale molto del
patrimonio libresco antico riesce a sopravvivere alla distruzione del tempo e
dell’uomo.
«monasterium
sine libris est sicut civica sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine
suppellectili, mensa sine cibus, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor
sine follis» (p.44).
È evidente a questo punto
che la biblioteca di Eco non è altro che una replica di questa storia lunga e
gloriosa dell’istituzione, tuttavia come si è già detto il ricorso a questa
replica assume tutt’altro significato. Nel romanzo non c’è un vero e proprio
intento celebrativo, anche se indirettamente lo si può ritrovare, ma mira a
descrivere una crisi generalizzata propria del Basso Medioevo, crisi che si
palesa in uno dei prodotti più fulgidi della civiltà europea durante il
Medioevo, appunto la biblioteca. La biblioteca di Eco possiede tutti gli
attributi positivi che vengono riconosciuti all’istituzione durante quest’epoca,
ma per come l’autore descrive questo luogo ci si rende quasi subito conto che
l’immagine che si offre ne è il suo rovesciamento. Quel luogo in cui depositare
la verità e le più ampie certezze dello scibile umano diventa il luogo in cui
non solo si è insinuato il male ed il peccato, ma anche il luogo in cui quella
verità che guida il mondo e la condotta morale dell’essere umano non esiste più,
è solo apparenza. La connotazione labirintica infatti, evidenzia il connotato
negativo, quello di un luogo in cui non è possibile orientarsi e dove la
perdita è mortale, in quanto non c’è modo di trovare elementi che aiutino il
malcapitato ad attraversare i suoi cunicoli: Dante Alighieri parlava di selva
oscura nella sua Commedia ed Eco, a
suo modo, parlando di una biblioteca labirintica descriva lo stesso tipo di
selva, luogo oscuro, peccaminoso e mortale.
«la
biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e
che nessuno dei monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha
ricevuto il segreto […] Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di
muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove riporli,
egli solo è responsabile della loro conservazione» (p.45).
Il vecchio ideale monastico
incarnato dall’immagine della biblioteca che più volte il romanzo ci ricorda
viene costantemente disgregato e rovesciato e siffatto luogo finisce per essere
solo lo spazio in cui risiedono i peggiori incubi, le paure mai completamente
estinte, le ansie soffocanti mai sopite scaturite dalle domande più
tormentanti. E con lo sgretolarsi di quest’immagine, decade anche un’intera
civiltà, quella medievale e quella del monachesimo europeo. Si direbbe quasi
una metafora accidentale con cui il romanziere finisce per dare vita agli
ultimi scorci del millennio medievale: la fine di un’era nel vero senso della
parola, anche se non proprio l’apocalisse di cui vaneggiava il personaggio di
Ubertino da Casale. In fondo, la convinzione che anima il progetto mortale del
Venerabile Jorge è la stessa convinzione che anima e che distruggerà frate
Guglielmo di Baskerville, vale a dire l’opinione che una solida conoscenza
libresca e la conservazione accurata degli oggetti che compongono questa forma
di conoscenza costituiscano i caratteri fondamentali di un potere saldo ed
assoluto, quello della ragione e della razionalità. Quella moltitudine fatta di
carta e di inchiostro che un luogo come la biblioteca custodisce e preserva è quello
strumento di salvezza sia dell’anima umana che dell’intera umanità su cui la
cultura medievale ha prestato fiducia, indiscutibilmente. Non balena, neanche
sotto forma di dubbio, nella mente dei protagonisti del romanzo l’idea che quella
roccaforte non può evitare la deriva del mondo, forse tutt’al più può fornire
un flebile – ed incerto! – appiglio all’eventuale
cataclisma o evento catastrofico che potrebbe verificarsi. Jorge e Guglielmo
sono i rappresentanti (non gli unici, ma due scelti a caso – di una visione contraddittoria
in cui la stessa situazione è vissuta e risolta “relativisticamente” in maniera
diversa, ma i presupposti del loro agire e del loro modo di pensare sono gli
stessi: Jorge e Guglielmo sono due personaggi costruiti simmetricamente.
La struttura labirintica
della biblioteca è, a suo modo, la configurazione con la quale dare
rappresentazione a questo relativismo, anche se siamo ancora lontani dalla
consapevolezza che tale complessità congetturale non sia solo un fatto
esteriore alla natura del sapere, o soltanto un effetto metodologico degli
strumenti di conoscenza (cfr. Nicola Cusano). Il labirinto, immagine che Eco
tratta in un suo saggio, descrive una rappresentazione contorta della realtà,
disorientante e frustrante, ma nel romanzo questa complessità può ancora essere
governata, perché la biblioteca contiene gli strumenti che permettono di farlo –
il bibliotecario conosce la disposizione dei libri e sa orientarsi, Guglielmo
riesce ad orientarsi nel labirinto delle stanze dell’edificio perché ha appreso
dai libri come affrontare questa situazione – ed in quanto, pur essendo
misteriosa e fatale, contiene ancora le chiavi della salvezza. Il punto è che
questa certezza è un atto di fede che l’uomo medievale ha voluto compiere in
favore dei libri, pensando e sperando – come in fondo farà il tradizionalismo
ermeneutico contemporaneo – non solo che esiste una continuità di senso nella
tradizione e nella storia, ma che esista anche una risposta univoca, certa e si
spera affermativa desumibile dai libri. Il dramma nel romanzo è che Jorge scopre
con suo sconcerto che può esistere un libro che smentisce la sua presupposta
verità storica e sociale, mentre Guglielmo scopre a sue spese che la sua libertà
razionalistica, fatta di interpretazione di segni, di abduzioni logiche e via
dicendo, non sono quella garanzia sicura con cui trovare e risolvere senza
ombra di dubbio le questioni che si possono presentare. In tutto questo la
funzione della biblioteca è poca cosa, non è detto che la biblioteca più
fornita in cui si possa andare abbia il libro o quel contenuto utile alle
nostre esigenze intellettuali, magari per risolvere un quesito che ci sta a
cuore. Il labirinto è l’immagine di un sapere accumulato e sedimentato, ma è
anche l’immagine di un sapere complesso e vasto, ma forse del tutto inutile
agli scopi per cui lo si è accumulato in un luogo come una biblioteca.
Il romanzo anticipa un tema
che diventerà decisivo negli anni ’90 del secolo scorso nell’opera teorica di
Umberto Eco, preannunciando quello che si rivelerà con la crisi semiologica che
sconvolgerà i fondamenti dell’intero discorso scientifico contemporaneo – lo stesso
Eco sarà fautore di questo cataclisma culturale! -, ma è solo a partire da
questa situazione che ciò che sembrava a prima vista una semplice immagine
suggestiva (perché lo è!) di una «biblioteca labirinto» è in realtà, un topos
letterario che è riuscito a cogliere la natura intrinseca del sapere
semiologico, a cogliere una delle modalità più tipiche di tale sapere e cioè,
quello di comporre costruzioni, ma anche immagini e significati che si
sedimentano e che si “significano” tramite il loro costante sovrapporsi e
confondersi. Forse è questo quello che la mente allenata di Guglielmo di
Baskerville ha recepito dalla terribile esperienza vissuta nell’abbazia, una
situazione che quel campione di razionalità non è stato in grado di gestire e
che l’ha sconvolto profondamente.
Porto Empedocle, 05/10/2021