martedì 5 ottobre 2021

Un Eco di ritorno - #4. La biblioteca de "Il nome della rosa"

Esistono molti luoghi considerati enigmatici, misteriosi e addirittura magici; luoghi in cui domina il mistero, ma anche il pericolo, e forse anche la morte. Sono luoghi che esibiscono evidenti tratti di esotismo, spesso carichi di stereotipi, di clichés e di insipienza e quindi, generatori di per sé delle più bizzarre fantasie, se non di mostri veri e propri. La letteratura, soprattutto quella di genere come i racconti gialli o i racconti horror, fanno ricorso a questi luoghi sia per contestualizzare le storie che raccontano sia per creare nel lettore quella attesa che lo coinvolge, lo intriga e lo spaventa. Ebbene, molti di questi luoghi o sono ruderi abbandonati o sono zone urbane notoriamente considerate malfamate o evidentemente degradate – e purtroppo ce ne sono molte nelle città contemporanee -, più difficile che luoghi domestici riescano a suggestionare la fantasia o le paure dei lettori, tranne forse certi edifici di epoca vittoriane, ormai divenute icone di storie piene di thriller o di vicende scioccanti, o strutture particolarmente bizzarre e grottesche come i plastici dei film di Tim Burton. Dicevo, tra questi luoghi annoverare una biblioteca è se non improbabile, almeno più difficile, tranne se la storia lo richiede – e di esempi ce ne sono molti sia al cinema che in letteratura. Una biblioteca nota nella nostra letteratura nazionale è quella descritta da Umberto Eco nel suo primo romanzo, Il nome della rosa.

La storia del romanzo è molto nota e come si sa al centro delle vicende raccontate c’è un misterioso libro proibito, che si rivelerà essere il perduto secondo libro della Poetica di Aristotele, libro di cui si ha solo alcuni riferimenti e citazione dai commentatori del passato. Il romanzo di Eco ipotizza non solo che tale libro sia realmente esistito, ma che l’unica copia circolante in Europa fosse presente nel catalogo della biblioteca dell’abbazia benedettina in cui viene ambientato il romanzo. La conoscenza di questo libro si rivela mortale, perché in esso viene teorizzata una concezione della comicità, ben prima che il filosofo Henri Bergson ne formulasse un trattato sulla falsariga del trattato aristotelico. A causa delle idee aristoteliche sulla comicità che l’abbazia è funestata da misteriosi incidenti mortali, incidenti rivelatesi poi omicidi con l’intervento di un frate francescano Guglielmo di Baskerville, coadiuvato dal suo novizio, il benedettino Adso, voce narrante della storia. L’abbazia è un fantomatico monastero dell’alta Italia – oggi universalmente indicato dai lettori di Eco con la Sacra di San Michele situata nella valle di Susa – che nell’anno 1327 è sede di un concilio tra gli ordini monastici per decidere su alcune questioni che riguardano la politica universalistica del papato, fortemente avversata dai frati minori dell’ordine francescano, a cui da poco è stata riconosciuta la regola (la seconda, quella del 1322). In questo clima di tensione spirituale e di generale crisi politica che domina in Italia a causa dei contrasti tra il papato e l’imperatore di Germania sul tema delle investiture e del potere regale si assistono a queste morti misteriose, eventi drammatici che vengono spiegati come segni di un’apocalisse sopravveniente. Nello sviluppo narrativo compare come fondo costante della storia la presenza di questa biblioteca inaccessibile, che eccita la curiosità del frate francescano, investito tra l’altro dall’abate del monastero di indagare le cause di questi fatti misteriosi. È convinzione di frate Guglielmo che la ragione che spieghi le morti misteriose nell’abbazia, oltre l’azione malefica del diavolo, sia da ritrovare appunto, in questo luogo inaccessibile, ma anche estremo vanto dell’abbazia, visto che tra le sue mura sono conservati alcuni codici e manoscritti rarissimi, un patrimonio che si perderà in parte nel rogo finale dei locali della biblioteca.

Ora, se questo libro proibito è la causa degli eventi che innescano il racconto del romanzo, in realtà lo elemento protagonista del romanzo è appunto, il luogo della biblioteca, immaginato da Eco con una struttura labirintica e collocata nella sommità del monastero, preceduta dalla sala dello scriptorium, il locale in cui i monaci amanuensi lavorano sulle copie manoscritte dei libri donati in prestito o come dote al monastero: la copiatura aveva la funzione di produrre una copia che sarebbe stata conservata nella biblioteca, oppure consegnata al privato o all’istituzione religiosa che l’avesse richiesto. Quest’attività definisce un sistema di produzione dei contenuti culturali che domina tutta l’epoca medievale e descrive soprattutto un paradigma che vede come centro nevralgico il ruolo, la funzione e lo status sociale del monachesimo europeo. Il racconto del romanzo non è dunque, solo la storia di un’ossessione che a parti inverse accomuna un po’ tutti i protagonisti, ma è soprattutto la storia del declino di un sistema culturale incentrato sulla figura del monaco ed in modo indiretto sulla centralità ideale ed intellettuale che occupa un luogo come la biblioteca.

 Tra le righe del romanzo Eco cerca di trasmettere il senso che l’uomo medievale assegnava a siffatto luogo. Accanto al concetto di auctoritas che caratterizza espressamente alcuni testi fondamentali della civiltà medievale europea – su tutti ovviamente i libri della Bibbia, ma anche alcuni trattati dell’antichità -, esiste un altro tema, anzi un vero e proprio luogo fisico in cui la verità espressa dalle auctoritas trova riparo, ma anche irraggiamento nella vita dell’uomo europeo e nel cristiano in particolare. L’immagine della luce, attributo che la teologia cattolica applica esclusivamente alla verità di fede, diventa anche un’attribuzione della biblioteca, in quanto è questo luogo lo strumento con il tale luce può prodursi nella mente dell’uomo e diffondersi su tutta la sua realtà. La biblioteca è il luogo fisico della luce, il luogo attraverso cui l’umanità po’ seguire quella direzione indicata da quei giganti che sono gli autori ed i filosofi antichi, quelli di cui l’uomo medievale sente di essere il continuatore. L’uomo medievale di Jacques Le Goff ricorda come per il Medioevo non esiste alcuna rottura con il passato, nonostante l’età antica sia dominata da quella cultura pagana ed anticristiana che il noto Concilio di Nicea ha definitivamente cancellato, e l’epoca moderna espressa dal Medioevo sta in rapporto di relazione costante con quel passato: i testi di riferimento continuano ad essere i testi pagani, soprattutto per filosofia, scienza, oratoria, linguistica e esegesi, ma tale invadenza pagana è mitigata dal modello educativo formulato da Sant’Agostino, un modello in cui la cultura classica non è rigettata, ma “depredata” di ciò che può tornare utile all’apologia cristiana e più in generale alla teologia cristiana. In questo paesaggio fondamentale è il ruolo che occupa la biblioteca, luogo della difesa della memoria di questa infanzia dell’umanità che altrimenti cesserebbe di aiutare l’umanità nel suo percorso di crescita verso la fede e verso la comprensione delle cose. È proprio per realizzare questo scopo che si costruiscono biblioteche, ma è tramite questa edificazione che interviene la azione del monaco, l’unica figura che può affermare una statura intellettuale, cioè la statura di «litterates», di conoscitore delle lingue antiche e quindi, lettore dei testi antichi.  

Ciò detto, la biblioteca pur essendo un luogo molto diffuso in epoca medievale non è invenzione degli uomini del Medioevo e neanche dei monaci cristiani, non sia hanno notizie certe sull’esistenza di strutture che possono essere assimilate ad una biblioteca prima dei regni ellenistici; si può ipotizzare, perché alcune notizie sembrano suggerirlo, che già in epoca babilonese fossero presenti strutture di queste tipo, almeno come luogo di deposito delle tessere o degli editti del re, ma è solo in epoca più tarda che viene a costituirsi il significato di biblioteca nel modo in cui si è abituati a considerarla. Tale significato viene definito in Egitto, durante il regno di Tolomeo II Filadelfo con la fondazione e costruzione del Museum di Alessandria, cioè della biblioteca reale: siamo nel III secolo a.C. Il Museum non è una biblioteca in senso stretto, almeno non nel significato che diamo a questo termine, ma è stato un centro culturale, tra l’altro uno dei più importanti di epoca ellenistica, distrutto definitivamente nella tarda antichità: probabilmente il Museum è stato distrutto e ricostruito più volte come alcune notizie sembrano suggerirci. In ogni caso, il luogo – di cui rimane solo una piccola stanza con degli scaffali – è legato all’attività del tempio del dio Serapide di Alessandria, del quale poteva trovarsi un affresco su una delle pareti dell’edificio.

Uno degli scopi principali della biblioteca è appunto, l’accumulo dei volumen, cioè dei rotoli di papiro su cui erano stati manoscritti i libri che confluivano ad Alessandria – alcuni di questi manoscritti venivano per un breve periodo requisiti dalle autorità per venire copiati – e tale attività era presieduta da un prostates, cioè da un sovraintendente direttamente nominato dal re: il primo bibliotecario di Alessandria a riguardo, fu Zenodoto di Efeso, che era anche un filologo. Esistono varie stime sulla quantità di rotoli che il Museum di Alessandria riuscì a raccogliere, pur non indicando un numero preciso basti dire che la mole è veramente considerevole per l’epoca. Ora, non si hanno notizie precise su come sia nata l’idea di costruire una biblioteca ad Alessandria, quel che è certo fu un’iniziativa interamente ascrivibile alla dinastia dei Tolomei, che vi dedicò impegno ed interesse. Il nucleo originario dell’idea probabilmente risale alla costituzione dei regni ellenistici all’epoca dello stessa Alessandro Magno. Tolomeo I Sotere, diadoco di Egitto, fa edificare un tempio dedicato alle Muse, da qui il nome di Museum, a cui collega un edificio annesso (la futura biblioteca) la cui attività è anzitutto di raccogliere manoscritti, per poi divenire un’attività di ricerca culturale vera e propria: in ogni caso, ciò accade con il primo direttore della biblioteca. Sempre sotto Tolomeo I inizia la catalogazione delle opere della biblioteca, compito svolto da un altro direttore della biblioteca, Callimaco di Cirene, autore di un’opera ispirata probabilmente al registro della biblioteca. È sotto il regno di Tolomeo III che l’attività di ricerca della biblioteca risulta più evidente; all’epoca infatti, ad Alessandria esistevano due biblioteche, la prima, la più grande e all’interno del palazzo reale, aveva la funzione di luogo di consultazione degli studiosi del Museum, mentre la seconda era più piccola e sorgeva all’esterno del palazzo, in concomitanza del tempio di Serapide, da qui appunto, il nome di Serapideo di Alessandria. Anche in questo caso, l’attività della biblioteca è correlata all’impulso dato dai vari direttori che ne presiedono la gestione, per cui a metà del III secolo a.C. l’interesse della biblioteca si rivolge sempre più verso l’ambito scientifico sotto la direzione del geografo Eratostene, mentre gli interessi di linguistica e filologia si collocano sotto le direzioni di Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia.

La fine della dinastia dei Tolomei d’Egitto ha determinato la fine della stessa biblioteca di Alessandria. Varie testimonianze letterarie suggeriscono che a fatica l’istituto sopravvisse qualche secolo dopo la fine dei Tolomei, ma è evidente che la biblioteca non aveva più lo splendore degli anni precedenti. Quel che è certo è che la biblioteca venne distrutta più volte e l’ultimo intervento significativo per il ripristino della grandezza della biblioteca si colloca sotto l’impero romano con un ampliamento dei locali dell’edificio per ordine di Claudio e sotto la sovraintendenza di Strabone. Le guerre intestine dentro l’impero romano e l’occupazione araba dell’Egitto devastarono e distrussero la biblioteca, la quale cesso di esistere nel VII secolo d.C. con gli arabi.

La distruzione della biblioteca non ha però, sancito la morte dell’idea fondante che l’ha caratterizzata, un esempio è la ricostruzione recente del contemporaneo Museum di Alessandria, una struttura che si ispira al mito della biblioteca trasmesso dalla letteratura antica, anche se de facto svolge una funzione molto diversa da quella che probabilmente svolgeva il Museum all’epoca dei Tolomei.

 La biblioteca raccontata da Eco nel suo romanzo non è la stessa biblioteca di Alessandria, anche se il topos ideale che anima l’immagine del romanziere italiano ha molta affinità con l’antica struttura. L’istituto di Eco è sia un luogo fisico, seppur inventato ed in parte idealizzato, sia una vera e propria metafora. Con essa viene proposta una rappresentazione del Basso Medioevo, in particolare la rappresentazione dei mutamenti che proprio il sistema culturale dell’epoca, cioè quello costituito dal monachesimo europeo, sta subendo, a causa del disgregamento della società medievale, ma anche a causa delle nuove esigenze culturali. Nel romanzo vengono ricordate le costruzioni di biblioteche urbane, cioè cittadine, erette tramite il finanziamento dei comuni o di qualche privato, sovente mercanti che trovano in questo investimento culturale un mezzo di affermazione sociale e politica. Questo evento, che diventerà ancor più evidente durante i secoli della civiltà umanistico-rinascimentale con la costruzione di biblioteche private, introduce nel paesaggio europeo un nuovo soggetto che entra in competizione con le strutture precedenti, sovente risultando vincente: per la propria attività i mercanti avevano maggiore disponibilità per l’acquisto di manoscritti, ma anche più occasioni di reperire testi poco diffusi ed importarli; l’esito di questa condotta arricchisce le collezioni private, ma crea le condizioni per una domanda culturale disattesa dal vecchio sistema culturale costruito dal monachesimo e le biblioteche dei monasteri sono tra le prime istituzioni ad avvertire chiaramente i segni del nuovo corso della storia, una direzione da cui non si può deviare.

«siamo nani (…) che stanno sulle spalle di quei giganti [sc.: la saggezza degli antichi] e nella nostra pochezza riusciamo talora a vedere più lontano di loro sull’orizzonte» (p.94).

 

Eppure in altre epoche la costruzione delle biblioteche dei monasteri ha proceduto non solo con la affermazione del monachesimo come strumento indispensabile dell’unificazione religiosa dell’Europa, ma anche della più generale diffusione del Cristianesimo e dei suoi modelli di fede. In questi processi la biblioteca ha svolto un ruolo fondamentale, ha dato cioè al monachesimo europeo un legame con il mondo profano, ma anche il motivo per cui la realtà terrena doveva essere rivalutata ed elevata a gloria eterna di Dio. La fuga dalle vicende terrene che ha giustificato e legittimato la scelta monastica non poteva essere a lungo andare il solo motivo per cui accettare l’esistenza spirituale e sociale del monaco, la costruzione delle biblioteche religiose fornirono a tutta la popolazione dei monaci europei la loro ragion d’essere, il motivo per cui un monaco non solo esiste, ma il suo ruolo è funzionale e decisivo per l’intera società. Il monaco è colui che produce contenuti culturali,è colui che vigila sulla bontà delle conoscenze, le custodisce e le diffonde, ma prima di essere questo e prima di essere una figura sociale di grande prestigio il monaco deve volgere il proprio destino in direzione dell’attività culturale, seppur un’attività essenzialmente contemplativa e specialistica.

La costruzione di biblioteche religiose diventa allora, lo strumento potentissimo dell’affermazione sociale e politica del monachesimo, descrivendo un modello di vita che entrerà nell’immaginario europeo e vi rimarrà per molti secoli, anche dopo la fine del Medioevo: prendere i voti monastici diventerà una scelta di carriera prestigiosa e privilegiata, soprattutto se la militanza è tra gli ordini più importanti. Ma ciò è creato e viene raggiunto attraverso la conservazione dei libri, religiosi in primis e poi quelli pagani, e quindi tramite le biblioteche appunto.

Prima si è detto della biblioteca della città egizia di Alessandria e questa rappresenta il primo modello di biblioteca di cui si ha solide notizie, tanto che essa è entrata a far parte dell’immaginario collettivo anche ai nostri giorni, ma la biblioteca religiosa che è al centro del romanzo di Eco non è un modello derivato, neanche indirettamente, dall’antica istituzione egizia. Il modello di biblioteca a cui fa riferimento il romanziere è quello elaborato durante l’Alto Medioevo dalla comunità cristiana. Anzitutto, queste biblioteche vengono costruite con uno scopo preciso, quello di conservare i testi sacri e non di accumulare gli oggetti dello scibile umano, che sono appunto i libri. L’affermazione del Cristianesimo quindi, costituisce il motivo determinante per la costruzione di biblioteche religiose. A ciò si accompagnano anche alcune convergenze storico-politiche che hanno permesso la diffusione di queste istituzioni. L’editto dell’imperatore Teodosio II favorì e non poco la costruzione di biblioteche religiose, infatti il documento imperiale prevedeva la chiusura dei templi pagani e con essa la distruzione delle biblioteche pagane. L’editto colpiva l’edilizia e la cultura pagana, ma non quella cristiana, per cui è evidente che nel costruire le chiese cristiane o qualsiasi altro edificio religioso le biblioteche non potevano essere corpi disgiunti dalla costruzione e vennero costruite all’interno del manufatto. Questa prima e significativa differenza dagli edifici pagani, permise la costituzione di locali interni alle chiese adibiti solo alla conservazione dei testi sacri e di quelli religiosi necessari all’ufficio religioso. Tale schema caratterizza la costruzione di tutte le biblioteche di quest’epoca, sia ad Oriente che ad Occidente. In particolare, è proprio ad Oriente che inizia l’elaborazione del modello di biblioteca a cui in seguito il monachesimo europeo ricorre per le proprie costruzioni. Il modello più importante è la biblioteca della città di Gerusalemme, creata presso la Chiesa del Santo Sepolcro da un presbitero e studioso libanese di nome Panfilo, il quale organizzò questo luogo non solo come semplice luogo di conservazione, ma anche come luogo di studio dei manoscritti tramite la costituzione di uno scriptorium, cioè di una sala adibita alla copiatura dei manoscritti che fungeva pure da luogo di confronto culturale (III secolo): è l’idea alessandrina di centro culturale ampiamente rielaborata e riproposta entro un sistema di interessi molto differente da quello tenuto dal Museum. L’attività di Panfilo, ricordata da molti commentatori di epoca antica, rappresenta un argine rilevante alla distruzione delle molte collezioni di libri presenti nelle regioni orientali dell’impero romano operata dagli arabi: il califfo Omar ibn al-Khattab (m.644) impose il criterio della compatibilità con il messaggio coranico; in base a tale principio se i manoscritti delle collezioni scoperte riportavano verità condivise o condivisibili con quelle di fede potevano essere conservati, altrimenti dovevano essere abbandonati o addirittura distrutti.

Diversa invece la situazione nell’Occidente latino, che vantava poche collezioni di libri. La più importante è quella della città di Roma, ma questa collezione era in realtà l’archivio della Chiesa Cattolica, la cui costituzione tra l’altro risale solo intorno al IV secolo e non vantava una grande varietà, visto che venivano raccolti manoscritti di materia teologica. Altro tenore è la collezione libresca di Spagna, composta dal vescovo Isidoro di Siviglia nel VII secolo, ma esclusa alla consultazione: sembra che venisse non raccomandata la consultazione da parte degli stessi monaci, ritenuti dal vescovo inadatti alla consultazione, probabilmente per la natura degli argomenti non propriamente religiosi. In ogni caso, la presenza di queste collezioni, pur essendo un elemento importante per la costituzione di una biblioteca, non hanno determinato la creazione automatica di queste istituzioni. La correlazione tra collezione di libri e l’istituzione di una biblioteca inizia a definirsi con la trasformazione delle funzioni del monaco o dei gruppi cenobitici che venivano a comporsi. È un abate egiziano, ex militare convertito, di nome Pacomio ad introdurre nella propria comunità cenobitica la pratica della consultazione dei testi, pratica che prevedeva l’obbligo ai novizi di saper leggere. Quest’obbligo – quasi una regola – determinerà la creazione di un locale specifico dentro il monastero in cui venivano depositati libri e manoscritti vari e dove si esercitava la lettura. Tale modello verrà replicato in tutto l’Oriente bizantino ed i nuovi monasteri edificati prevedono lo spazio di una biblioteca.

Il modello di Pacomio trova in Occidente la sua formulazione nell’ordine di San Benedetto da Norcia, il quale recupera le regole cenobitiche del modello orientale, compreso l’obbligatorietà della lettura, ma ad esse aggiunge una variazione che sarà decisiva per il successo della formula benedettina. La lettura dei libri non è un’attività occasionale o contingente, ma diventa un’attività prevista ed imposta dagli obblighi di voto. Infatti, alcune ore della giornata di un monaco sono espressamente dedicate alla consultazione e alla lettura di testi, in genere dalla quarta alla sesta ora (orientativamente dalle 9 del mattino, subito dopo la colazione, fino a poco prima del pranzo, cioè a mezzogiorno circa, detta appunto sesta). A ciò si aggiunge un altro obbligo, quello di leggere un libro imposto e concesso dalla biblioteca del monastero e che impegna il monaco nel periodo compreso tra la Quaresima (febbraio-marzo) ed il mese di ottobre. Il periodo successivo a questo intervallo di sei mesi, cioè da ottobre fino alla Quaresima successiva, la scelta del libro da leggere era libera e non vincolata. L’aspetto più interessante di questo modello riguarda la produzione dei contenuti, cioè dei manoscritti che compongono la biblioteca del monastero. Infatti, non disponendo di risorse legate all’acquisto di libri, la regola benedettina prevede l’attività intellettuale e manuale della copiatura dei manoscritti, ottenuti in prestito da altre comunità monastiche o da privati come donazioni. La copiatura dei manoscritti richiede una specializzazione che con il tempo venne assegnata ad una categoria di monaci scribi, noti come amanuensi, che si occupavano di tutte le fasi di progettazione e composizione del codice manoscritto. A riguardo, rilevante è un’opera scritta da un altro monaco convertito, Cassiodoro, che scrisse un manuale intitolato Istituzioni che forniva le tecniche e gli accorgimenti di progettazione e compilazione di un manoscritto. L’approccio di Cassiodoro è derivato in buona sostanza dalla pratica burocratica dell’amministrazione romana, per cui nei monasteri da lui fondati la copiatura pur rivolta in prevalenza alle opere teologiche non prevedeva alcun pregiudizio verso manoscritti che non fossero di argomento religioso. In seguito sorgeranno monasteri che presenteranno questa impostazione. Il più importante è il monastero a Bobbio, vicino a Pavia, fondato da Colombano che raccolse attorno a sé il consenso di molti letterati (es. Petrarca) e soprattutto donazioni ed investimenti: nonostante la forte presenza di laici la biblioteca rimane a carattere religioso. Tutti gli altri edifici religiosi a partire dal VII secolo in Europa sorgeranno riproponendo questi modelli e soprattutto raccoglieranno donazioni ricorrendo all’istituzione di biblioteche. In questo scenario, la diffusa costruzione di biblioteche diventa l’elemento fondamentale con il quale molto del patrimonio libresco antico riesce a sopravvivere alla distruzione del tempo e dell’uomo.

«monasterium sine libris est sicut civica sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine suppellectili, mensa sine cibus, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor sine follis» (p.44).

È evidente a questo punto che la biblioteca di Eco non è altro che una replica di questa storia lunga e gloriosa dell’istituzione, tuttavia come si è già detto il ricorso a questa replica assume tutt’altro significato. Nel romanzo non c’è un vero e proprio intento celebrativo, anche se indirettamente lo si può ritrovare, ma mira a descrivere una crisi generalizzata propria del Basso Medioevo, crisi che si palesa in uno dei prodotti più fulgidi della civiltà europea durante il Medioevo, appunto la biblioteca. La biblioteca di Eco possiede tutti gli attributi positivi che vengono riconosciuti all’istituzione durante quest’epoca, ma per come l’autore descrive questo luogo ci si rende quasi subito conto che l’immagine che si offre ne è il suo rovesciamento. Quel luogo in cui depositare la verità e le più ampie certezze dello scibile umano diventa il luogo in cui non solo si è insinuato il male ed il peccato, ma anche il luogo in cui quella verità che guida il mondo e la condotta morale dell’essere umano non esiste più, è solo apparenza. La connotazione labirintica infatti, evidenzia il connotato negativo, quello di un luogo in cui non è possibile orientarsi e dove la perdita è mortale, in quanto non c’è modo di trovare elementi che aiutino il malcapitato ad attraversare i suoi cunicoli: Dante Alighieri parlava di selva oscura nella sua Commedia ed Eco, a suo modo, parlando di una biblioteca labirintica descriva lo stesso tipo di selva, luogo oscuro, peccaminoso e mortale.

«la biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha ricevuto il segreto […] Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove riporli, egli solo è responsabile della loro conservazione» (p.45).

Il vecchio ideale monastico incarnato dall’immagine della biblioteca che più volte il romanzo ci ricorda viene costantemente disgregato e rovesciato e siffatto luogo finisce per essere solo lo spazio in cui risiedono i peggiori incubi, le paure mai completamente estinte, le ansie soffocanti mai sopite scaturite dalle domande più tormentanti. E con lo sgretolarsi di quest’immagine, decade anche un’intera civiltà, quella medievale e quella del monachesimo europeo. Si direbbe quasi una metafora accidentale con cui il romanziere finisce per dare vita agli ultimi scorci del millennio medievale: la fine di un’era nel vero senso della parola, anche se non proprio l’apocalisse di cui vaneggiava il personaggio di Ubertino da Casale. In fondo, la convinzione che anima il progetto mortale del Venerabile Jorge è la stessa convinzione che anima e che distruggerà frate Guglielmo di Baskerville, vale a dire l’opinione che una solida conoscenza libresca e la conservazione accurata degli oggetti che compongono questa forma di conoscenza costituiscano i caratteri fondamentali di un potere saldo ed assoluto, quello della ragione e della razionalità. Quella moltitudine fatta di carta e di inchiostro che un luogo come la biblioteca custodisce e preserva è quello strumento di salvezza sia dell’anima umana che dell’intera umanità su cui la cultura medievale ha prestato fiducia, indiscutibilmente. Non balena, neanche sotto forma di dubbio, nella mente dei protagonisti del romanzo l’idea che quella roccaforte non può evitare la deriva del mondo, forse tutt’al più può fornire un flebile – ed incerto! –  appiglio all’eventuale cataclisma o evento catastrofico che potrebbe verificarsi. Jorge e Guglielmo sono i rappresentanti (non gli unici, ma due scelti a caso – di una visione contraddittoria in cui la stessa situazione è vissuta e risolta “relativisticamente” in maniera diversa, ma i presupposti del loro agire e del loro modo di pensare sono gli stessi: Jorge e Guglielmo sono due personaggi costruiti simmetricamente.  

La struttura labirintica della biblioteca è, a suo modo, la configurazione con la quale dare rappresentazione a questo relativismo, anche se siamo ancora lontani dalla consapevolezza che tale complessità congetturale non sia solo un fatto esteriore alla natura del sapere, o soltanto un effetto metodologico degli strumenti di conoscenza (cfr. Nicola Cusano). Il labirinto, immagine che Eco tratta in un suo saggio, descrive una rappresentazione contorta della realtà, disorientante e frustrante, ma nel romanzo questa complessità può ancora essere governata, perché la biblioteca contiene gli strumenti che permettono di farlo – il bibliotecario conosce la disposizione dei libri e sa orientarsi, Guglielmo riesce ad orientarsi nel labirinto delle stanze dell’edificio perché ha appreso dai libri come affrontare questa situazione – ed in quanto, pur essendo misteriosa e fatale, contiene ancora le chiavi della salvezza. Il punto è che questa certezza è un atto di fede che l’uomo medievale ha voluto compiere in favore dei libri, pensando e sperando – come in fondo farà il tradizionalismo ermeneutico contemporaneo – non solo che esiste una continuità di senso nella tradizione e nella storia, ma che esista anche una risposta univoca, certa e si spera affermativa desumibile dai libri. Il dramma nel romanzo è che Jorge scopre con suo sconcerto che può esistere un libro che smentisce la sua presupposta verità storica e sociale, mentre Guglielmo scopre a sue spese che la sua libertà razionalistica, fatta di interpretazione di segni, di abduzioni logiche e via dicendo, non sono quella garanzia sicura con cui trovare e risolvere senza ombra di dubbio le questioni che si possono presentare. In tutto questo la funzione della biblioteca è poca cosa, non è detto che la biblioteca più fornita in cui si possa andare abbia il libro o quel contenuto utile alle nostre esigenze intellettuali, magari per risolvere un quesito che ci sta a cuore. Il labirinto è l’immagine di un sapere accumulato e sedimentato, ma è anche l’immagine di un sapere complesso e vasto, ma forse del tutto inutile agli scopi per cui lo si è accumulato in un luogo come una biblioteca.

Il romanzo anticipa un tema che diventerà decisivo negli anni ’90 del secolo scorso nell’opera teorica di Umberto Eco, preannunciando quello che si rivelerà con la crisi semiologica che sconvolgerà i fondamenti dell’intero discorso scientifico contemporaneo – lo stesso Eco sarà fautore di questo cataclisma culturale! -, ma è solo a partire da questa situazione che ciò che sembrava a prima vista una semplice immagine suggestiva (perché lo è!) di una «biblioteca labirinto» è in realtà, un topos letterario che è riuscito a cogliere la natura intrinseca del sapere semiologico, a cogliere una delle modalità più tipiche di tale sapere e cioè, quello di comporre costruzioni, ma anche immagini e significati che si sedimentano e che si “significano” tramite il loro costante sovrapporsi e confondersi. Forse è questo quello che la mente allenata di Guglielmo di Baskerville ha recepito dalla terribile esperienza vissuta nell’abbazia, una situazione che quel campione di razionalità non è stato in grado di gestire e che l’ha sconvolto profondamente.   

 

Porto Empedocle, 05/10/2021