sabato 24 marzo 2018

Altre considerazioni sull'opera di Paul Ricoeur



«Il passato mostra una parte di te, una parte che è cambiata con gli anni, e che nel presente è inconciliabile. Eppure sei sempre tu».
(Angelo Romeo)i
Durante lo studio dell'opera di Paul Ricoeur, per la preparazione della mia tesi di laurea in filosofia, mi imbattei in un concetto che all'epoca mi aveva grandemente affascinato, tanto da influenzare l'impostazione della stessa tesi, cioè la funzione storicizzante della scrittura. Il filosofo francese definiva quest'effetto con il termine «distanziazione», mutuato dall'ermeneutica di Gadamer, ma con il quale anziché descrivere un esito storicizzante della distanza storica del documento, riflesso a sua volta dall'applicazione della metodologia epistemologica, esso mira a descrivere una condizione insita dell'esteriorizzazione oggettiva, recuperando in questo modo il senso heideggeriano della «violenza» del linguaggio nella rivelazione ed autoesplicitamento del Dasein: una violenza che è strutturale al linguaggio che coinvolge anche la configurazione dei domini semantici ed il senso derivato dalla trama sintattica del discorso, la cui cooriginarietà con l'Essere è troppo compromessa appunto sul piano esteriore. Ora, Ricoeur, meglio di Gadamer, individua questa conseguenza e descriverà con la distanziazione non solo la distorsione semantica prodotta dalla distanza storica, ma anche l'interruzione di senso e di comprensione agita proprio dalla struttura narrativa del testo o documento che dir si voglia. Ciò vuol dire che non può esistere sul piano ermeneutico un significato originario presunto da ritrovarsi nel testo, ma esiste un senso complessivo del discorso, o meglio tematizzato dal discorso che va determinato, nel senso recuperato (e restaurato archeologicamente) attraverso l'analisi testuale. Tuttavia, il senso che si ricava da quest'analisi non è il significato predeterminato di heideggeriana memoria, bensì il senso assunto dal testo, strutturato e depositato nel testo dalla struttura narrativa del discorso. Pertanto, ciò vuol dire che decade nell'analisi testuale (condotta attraverso le strategie dell'epistemologia semiotica) un qualsivoglia interesse alle implicazioni psicologiche affioranti dal testo: su questo punto il filosofo francese riprende la teoria jakobsoniana della comunicazione e dell'autoreferenzialità poetica della comunicazione, per cui se insiste nel testo una soggettività essa è l'argomentazione e/o il tema del discorso (recupero della teoria della retorica di Perelman).
La teoria del discorso che il filosofo francese elaborerà a partire dalla prima antologia di scritti ermeneutici (1969) consiste certamente nella definizione di una strategia epistemologica basata su una teoria del senso, ma soprattutto, a partire dagli anni Settanta, su una logica proposizionale che accosterà l'opera ricoeuriana verso una retorica logica e quindi, verso una precisazione delle strutture narrative alla base dell'intuizione di senso. Da ciò deriverà la teoria del testo che sarà asse portante degli scritti ermeneutici ricoeuriani negli anni Ottanta. Tuttavia, quest'attenzione alle strutture narrative, che in Ricoeur finiscono per identificarsi con il sistema dell'azione (conoscenza primitiva dell'agire, o saper fare), svela un orizzonte che esclude l'Io dal suo ruolo di fulcro e di primato dell'agire testuale. Gli anni Sessanta sono caratterizzati dalla polemica nei confronti dell'idealismo ermeneutico entro cui cade il gadamerismo definendo il «circolo ermeneutico» una predeterminazione della soggettività: il recupero dell'ontologia heideggeriana in questi anni ha una funzione negativa, nel senso espropriativa del senso di appartenenza dell'Essere che l'ermeneutica gadameriana aveva predeterminato – senza l'iniziale precomprensione dell'Io produttore la comprensione del testo prodotto non poteva riuscire; quest'espropriazione (che in Heidegger è un esito insito all'esteriorizzazione linguistica) in Ricoeur è posta metodologiamente tramite la via dell'analisi semiotica del testo. Pertanto, l'unico soggetto che interloquisce con l'ermeneuta non è il soggetto produttore del testo, né qualsiasi altro, ma è il testo nudo e le sue strutture narrative: in tal senso, Ricoeur aveva parlato di morte dell'autore (rifacendosi all'omonima tesi di Maurice Blanchet), per cui il rapporto e l'esperienza ermeneutica non sono più tra due soggettività (come voleva l'ermeneutica romantica; cfr. Schleiermacher), ma la definizione di un'intersoggettività lunga (così la definisce) intercorrente tra la soggettività dell'ermeneuta (unico Dasein del rapporto) ed un testo a cui si nega la sua dimensione di esistente, quindi non più Ego-testo-Io, ma Ego estinto-testo-Dasein (Io). La rivelazione della posterità dell'Io è alla base del testo come «macchina desiderante», che ha una sua ritrovata autonomia dalle intenzioni soggettive e soprattutto diviene una docile struttura che accoglie le significazioni che le provengono dalla lettura ermeneutica dell'unica realtà esistente, aventi solo responsabilità etiche.
La depsicologizzazione che Ricoeur realizza dell'attività ermeneutica colloca il testo sul piano della virtualità e quindi, dentro un sistema di relazioni intertestuali tanto che l'analisi ermeneutica diviene essenzialmente una letteratura, cioè un percorrimento (enciclopedico) di un tracciato virtuale in cui un testo non è una realtà isolata, ma sospesa in un mondo di riferimenti e di rimandi: Ricoeur sostituisce con letteratura la «tradizione» gadameriana con l'evidente esito di rendere la lettura riappropriativa del testo autonoma dai vincoli storico-linguistici ed estetici in cui viene a trovarsi nella teoria gadameriana. In tal senso, il testo è ad un tempo il «corpo» in cui si oggettivizza il significato, ma anche il deposito entro cui si stratifica nel tempo il senso fissato dal discorso. Il testo come letteratura rivela allora, sì una virtualità sconosciuta all'ermeneutica della tradizione, per cui il testo è una soggettività ancora presente, perennizzata, assoluta, ma soprattutto una «struttura» (nel senso strutturalista) attraverso cui il voler dire del testo non solo può essere trasmesso, ma anche riattualizzato davanti a soggettività estranee alle condizioni predeterminate di produzione e ad un contesto ideologico-culturale differente da quello originario. Ora, se negli anni Sessanta l'intenzione del testo (voler dire) è ancora identificata con il senso, quindi si può ancora parlare di Ego produttore e Io lettore-destinatario, ciò perché è ancora dominante l'approccio semantico, con la svolta di tipo anglosassone degli anni Settanta (cfr. Austin) quest'identità decade, o comunque non è più così decisiva e portante nella teoria di Ricoeur, prima perché l'approccio semantico si fonda sulla parola come unica e sola unità di senso, per cui riproponendo sotto mentite spoglie la teoria linguistica antica, e secondariamente perché Ricoeur inizia ad abbandonare la teoria del simbolo come strategia epistemica per la spiegazione della polisemia del testo: la teoria del simbolo non è solo effetto di un tradizionalismo fenomenologico del filosofo, ma è soprattutto la conseguenza relativa alla centralità della parola nel gioco ermeneutico; quando invece, inizia a comprendere che la sede del discorso non è più la parola, ma la frase (quest'ultima già intuita chiaramente ne Le conflit des interprétations) e più ancora l'enunciato (di qui la definizione della problematica del testo), allora il tema della comprensione verrà impostata su tutt'altre direzioni.
L'oggettivizzazione linguistica rivela sul piano metafisico un'assenza della soggettività, tanto che questa verrà recuperata con la dialettica della “riappropriazione” archeologica (recupero e riattualizzazione) del senso (doppia dialettica), ma sul piano epistemologico la via lunga della semiotica ha trasformato l'Ego nello Io del testo, cioè nell'operatore funzionale che si districa attraverso il viluppo del discorso: in realtà, Ricoeur non parlerà di Io operativo nel testo, perché l'unica soggettività che agisce nel rapporto ermeneutico è solo quella dell'ermeneuta, tuttavia tramite il sistema dell'azione, che ha nella struttura narrativa la piattaforma della sua esteriorizzazione linguistica, il lettore/ermeneuta può “riflettersi” nel testo come se avesse dinanzi a sé un altro essere, simile a lui in quanto agisce con la medesima logica primitiva del saper fare. La storia è dunque, non solo il filo entro cui e attraverso cui si assiste al dispiegamento degli eventi narrati, ma è anche lo stato delle condizioni entro cui l'ermeneuta può comprendere un oggetto virtuale quale è il testo come se fosse il Dasein heideggeriano di Sein und Zeit. È la storia dunque, a portare all'attenzione dell'ermeneuta una nuova soggettività che non è quella psicologicamente empatica dell'io originario, dell'io scrittore, dell'io produttore; in tal senso, la storia definisce una nuova soggettività, perché aiuta la sedimentazione attraverso di essa di nuovi significati, che si associano, si assimilano a quelli trasmessi dal testo, caricandosi di nuove e diverse valenze di senso.
Come si può evincere, la depsicologizzazione del testo non ha determinato una rinuncia alle prerogative della soggettività, ha semmai determinato un superamento del cognitivismo e dell'idealismo kantiano insito nell'ermeneutica post-gadameriana, ma ha lasciato l'azione della soggettività laddove l'analisi ermeneutica di Heidegger l'aveva collocata, cioè nella Verstehen del Dasein e che in Ricoeur coincide in ultima analisi al momento della riappropriazione semantica e della riattualizzazione nella significanza. Tuttavia, per quanto ben congegnata la teoria di Ricoeur mi affiora una sensazione, che sfocia in una perplessità che non so bene definire, e cioè che, pur accettando questa visione della riappropriazione semantica, non posso non pensare che dietro il groviglio di eventi che mi si presentano attraverso la storia non ci sia stato, seppur ormai come dato postumo, un soggetto produttore che esprimeva suoi (e soltanto suoi) convincimenti e/o un soggetto destinatario che traeva piacere da quel tipo di intreccio. Insomma, non posso pensare al testo solo come una machina senza guida, anche se l'approccio responsabilmente etico che posso avere come lettore mi crea una cintura sanitaria contro le storture ideologiche che possono veicolare tramite il testo. Mi spiego quel che mi viene asserito da Ricoeur nel momento in cui tengo ben separati il comprendere ermeneutico di un testo e il giudizio di valore che posso formulare una volta compiuta l'analisi e l'appropriazione semantica richiestami dall'esegesi del testo.
Ancora adesso, non mi riesce di comprendere questa sottigliezza che avverto nella filosofia di Ricoeur e che è determinata dall'apologia del soggetto svolta dal filosofo in tutta la sua opera, fino in ultimo al capolavoro degli anni Novanta (l'ultimo), Sé come un altro, in cui ricompila la sua opera in funzione della soggettività, fulcro autentico del filosofare ermeneutico di Ricoeur (Jervolino). È come interrogarsi (accaduto di recente) sul Mein Kampf di Adolph Hitler. Ora, se responsabilmente posso e devo trarre le dovute conseguenze di tipo etico sul messaggio di quest'opera controversa, come di tante altre opere controverse, è pur vero che il sistema ermeneutico presentatomi da Ricoeur semplifica e complica il lavoro esegetico, perché da un lato sembra non riconoscere alcuna responsabilità etica all'opera (se è un oggetto virtuale senza proprietà è come se non esistesse), mentre le riconosce (e gravemente) al lettore e all'ermeneuta che si carica del compito di comprenderla. Inoltre, la comprensione diventa un lavoro farraginoso, perché, azzerando i legami con una qualsivoglia tradizione, si è costretti a compiere un preventivo lavoro enciclopedico (tranne nel caso in cui si abbia di proprio una conoscenza enciclopedica così vasta da permettere un approccio critico su ogni pagina dell'opera) che solo personale specializzato compie ed è disposto a fare, mentre viene ributtato da un lettore di media formazione (troppo dispendioso): e se invece di un'opera saggistica, ci troviamo dinanzi ad un libro di poesia (a.e. Ezra Pound), ad un romanzo (I misteri di Parigi di Eugène Sue) oppure ad un testo religioso (cf. Apocalisse di Giovanni). Pur se il ricorso alla tradizione letteraria è complicato, almeno ti offre un progetto di senso che può essere migliorato ed in cui sono già introiettate eventuali valenze morali ed etiche, che si possono accettare o dissentire, ma con un testo che è strutturalmente «per aria», la cui valutazione (non dico la comprensione) è affidata unicamente alle capacità responsabili del soggetto destinatario (non importa se originario o postumo), si rischia il relativismo se non addirittura il revisionismo arbitrario: rischi che non si possono evitare, umanamente parlando, nonostante una buona teoria ermeneutica, tuttavia quel che mi preme non è avere necessariamente una teoria che mi prevenga e mi immunizzi da questi rischi, ma una teoria che sia conscia dell'essere di questi stessi e che li ammetta preventivamente in qualche maniera.
Non so, ho questa incertezza.


i Questa è una scrittura poetica risalente all'epoca liceale, quando vagheggiavo di possedere una vis poetica che mi si mostra intermittente. La cito non per narcisismo, ma perché è stato il “vero” motivo di queste poche righe. Rileggendola casualmente (vorrei soprassedere sull'ingenuità, lo dico con pudore) mi ha suscitato il tema e l'argomento dello scritto, risvegliando interrogativi mai sopiti a quanto pare, forse mai risolti perché inerenti ad una meditazione mai paga e comunque appartenenti all'opera del filosofo francese. Tuttavia, mi ha impressionato il fatto che nonostante avverta perfettamente l'enorme distanza rispetto a quello che sono e ai sentimenti attuali, sento una certa riconoscibilità con quel giovane liceale che sono stato. Ora, se avverto limpidamente questa riconoscibilità logica e sentimentale diciamo così, ciò si concilia poco con l'idea del filosofo francese di una comprensione altresì basata su un effettivo corto circuito di tipo semantico ed intuitivo del testo. Se ciò fosse vero, allora per ritrovare il significato dello scritto poetico lì espresso dovrei avventurarmi in un'analisi linguistica serrata del medesimo, mentre in realtà, il senso, o meglio una valenza di senso ivi presente mi appare immediatamente, intuitivamente e senza analisi: certo, si può dire che in questo caso io sia l'autore (l'io produttore di Ricoeur) e quindi in una certa misura, i concetti e le strutture logiche dello scritto mi appartengono, ma questo è irrilevante ai fini del compito ermeneutico, perché ciò che conta è solo il messaggio dello scritto, il discorso ed il tema ivi espresso; eppure, avverto una “similarità” primitiva con colui che l'ha prodotto: Ricoeur risolve questa riconoscibilità tramite il tema dell'azione, affrontando poi in seguito (solo dal punto di vista morale) il tema della responsabilità etica (cfr. Il paradigma della traduzione e la terza sezione di Dal Testo all'Azione, dedicata all'ideologia).

venerdì 23 marzo 2018

Anelli cinesi, un'analogia matematica dell'esistenza


Noi europei veniamo a conoscenza degli «Anelli cinesi» nel XVI secolo, quando il frate Luca Pacioli, noto per il suo trattato sulla sezione aurea, lo importa dall'oriente e e ne dà una desrizione nel De viribus quantitatis. Da questo momento in poi il gioco sarà noto in Italia con il nome di «Anelli di Cardano», dal nome di un altro insigne matematico della epoca, Girolamo Cardano, che lo aveva menzionato in una sua opera.
Il gioco appertiene alla tipologia degli «Anelli e spada», consistente in un intreccio di anelli e chiavistello da districare. La meccanica del gioco di per sé non è particolarmente complicata, tranne per il grado di difficoltà che può rappresentare proprio il districamento: più è alto il numero degli anelli che compongono la catena maggiore è la complicazione della meccanica di gioco. In effetti, come si intuisce lo scopo del puzzle è liberare l'intreccio di catena e spada (una sorta di chiavistello) che è la struttura del gioco medesimo. La cifra dell'azione di gioco è dunque, realizzare il districamento degli elementi del gioco che consiste nel trovare di volta in volta la disposizione degli anelli rispetto alla spada in modo che questa possa scorrere lungo la catena senza incastrarsi: la spada deve attraversare l'intera catena prima di poter essere liberata. Pertanto, il districamento viene a realizzarsi in determinate condizioni, che risultano camuffate dall'intrigo di anelli che si complica quando si passa a dover liberare l'anello successivo a quello appena liberato.
Per intendere meglio questa spiegazione, si assegni per ogni posizione dell'anello lungo la catena una lettera dell'alfabeto; supponiamo che la catena sia composta da cinque anelli (è la versione che posseggo personalmente), iniziando a contare la catena dall'anello più esterno, abbiamo una sequenza A, B, C, D, E con un'avvertenza, l'anello iniziale, cioè A, si trova già districato, il che non vuol dire che nel corso del gioco non possa districarsi nuovamente, per cui la liberazione della spada dall'intreccio si realizza dopo che ci sarà stato il districamento di tutti gli anelli fino ad E. Come si evince, la meccanica di gioco è un poco laboriosa e richiede una buona dose di pazienza - gli aneddoti cinesi sul gioco concordano tutti nel mettere in rilievo questo dato – e di concentrazione, perché molte delle configurazioni degli anelli tendono a ripetersi e possono confondere il giocatore nella sua strategia di districamento: proprio il tema della concentrazione rivela chiarissimamente l'origine, almeno culturale, del gioco, poiché nella cultura taoista la concentrazione (affinata anche dalle tecniche di respirazione o ginniche) è premessa decisiva per giungere ad una conoscenza profonda della realtà, acquisita tramite la meditazione delle forme cangianti del reale; in tal senso, il gioco può considerarsi come un esercizio meditativo o in ogni caso, come un palliativo che induce alla concentrazione.
Inoltre, sul piano filosofico la liberazione della spada non è altro che effetto di una diversa disposizione, ergo “organizzazione” della catena rispetto all'intreccio e alla spada: un fatto che sembra compatibile anche con una struttura matematica del gioco. Il districamento crea sistemi d'ordine diversi che stanno tra loro entro un preciso sistema di corrispondenze. Il districamento meccanico compiuto dall'azione di gioco può assimilarsi alla concezione cinese del mutamento delle forme del reale: il mutare delle cose e degli esseri non è solo un divenire al modo occidentale, ma è anche un configurarsi di volta in volta in una forma che “esteriorizza” l'essenza della realtà, tuttavia questa forma è inestricabile dall'essenza e quindi essenza e forma si delineano nella cosa come un'unità originaria; ora, ciò vuol dire che la ricerca dell'essenza non può essere disgiunta dalle proprietà epistemologiche dell'oggetto e/o dell'essere, ma và delineata in rapporto alla forma così come essa si esprime. Insomma, l'essenza per determinarsi non può essere determinata senza un sistema di condizioni entro cui viene a «formarsi»: il districamento non è dunque uno scioglimento, o un superamento hegeliano, ma è il mutamento di condizioni materiali e spirituali entro cui la forma espressa rappresenta la liberazione dall'obbligazione e dal groviglio degli anelli oppure no. In tal senso, mi sembra che la meccanica del gioco possa essere un'analogia filosofica che può spiegarsi in relazione alla cultura cinese, ma nella prospettiva occidentale l'interesse di questa meccanica è puramente epistemologico.
Lo schema della disposizione degli anelli rivela la struttura algebrica che vi è implicita. I passaggi che il giocatore deve compiere per la risoluzione del puzzle rivelano una struttura relazionale in cui i pezzi si trovano in una trama di permutazioni, cioè lo spostamento degli anelli e la loro disposizione secondo alcune disposizioni descrive un'attività e una relazione definita da precise condizioni che sono valevoli per tutti. Una caratteristica che i matematici dell'epoca barocca avevano colto chiarissimamente, basti pensare alla solida tradizione della logica cominatoria nella filosofia europea, soprattutto nell'epoca del Rinascimento (cfr. Raimondo Lullo); certo, nel XVI secolo quest'interesse era fortemente affievolito, per via della filosofia cognitiva di Cartesio e l'empirismo di Berkeley, tuttavia rimaneva un fermo punto di riferimento in quanto viene ad elaborarsi una diversa concezione dell'esperienza congiungendo la cifra della stabilità del conoscere, affidata alla memoria (quindi enciclopedia e mnemotenica), con il potere di predizione della logica sillogistica; in questo contesto l'arte combinatoria, ricavata anche e non solo dal sincretismo con la Cabala ebraica, continua ad essere la struttura logica del ragionamento scientifico e del discorso corretto e vero (dobbiamo attendere la metà del XIX secolo per riformulare questa stessa visione del mondo della scienza).
Parlare di permutazioni allora, ci rinvia inevitabilmente al linguaggio formale di Boole e quindi al sistema dei numeri binari. Se ricorriamo al linguaggio dei numeri binari, la spiegazione dell'azione di gioco e la presentazione della soluzione del puzzle si rende più agevole, perché con i numeri binari di “uno” e “zero” indichiamo la posizione e la disposizione degli anelli nella configurazione della mossa. Con “uno” possiamo indicare l'anello ancora incastrato, mentre con “zero” l'anello districato (non è importante se l'anello liberato si trovi sopra o sotto la spada, conta lo stato della sua condizione), per cui per fare un esempio, se ottengo una configurazione del tipo 10101, questo numero binario verrà a descrivere la configurazione in cui gli anelli ancora incastrati si trovano nella posizione A, C e D: se riportiamo il valore numerico del numero binario nel sistema decimale il valore che otteniamo è il numero 21. Questa correlazione con il sistema dei numeri binario non è una bizzarrìa, ma indica una struttura algebrica della meccanica del gioco: se infatti, consideriamo la versione composta da cinque anelli, il numero di mosse possibili per la risoluzione del gioco è 2^5, cioè 32 mosse, per cui 21 può essere una delle configurazioni possibili per la soluzione del gioco. La struttura binaria dell'azione di gioco rivela che la meccanica si svolge entro un determinato sistema di condizioni e che il districamento è l'effetto di una precisa disposizione del sistema stesso, con una definita trama relazionale.
In tal senso, accanto al significato matematico-algebrico che il gioco possa esibire, la meccanica del gioco può esibire anche un'analogia filosofica che è compatibile certamente con la cultura cinese, ma a questo punto non solo.


lunedì 12 marzo 2018

Il mistero nella campagna 2018 della Campari

La recente campagna pubblicitaria della Campari è un bellissimo esempio di trasposizione di alcuni registri cinematografici applicati alla comunicazione pubblicitaria. Cose già fatte, in precedenza, ma in questo caso ciò che prevale è un uso consapevole di un linguaggio visivo, a cui di volta in volta si dà una certa inclinazione, lieve quanto basta, per ricodificare il messaggio visivo in un messaggio pubblicitario.
La scelta della Campari di assegnare a Stefano Sollima questo compito mi sembra molto centrata, e la realizzazione secondo gli stilemi attuali dell'action-movie, incentrati sulla dinamicità del racconto e su una crudezza narrativa, creano uno stato di tensione e di suspance, che tengono avvinto lo spettatore sia allo svolgimento della vicenda narrativa, sia al messaggio pubblicitario, che in diverse forme mimetiche è costantemente presente nell'esposizione visiva.
La storia è interamente incentrata su una vicenda da spy-story, incentrata cioè alla rivelazione di un'identità ignota. In questo caso, l'identità da svelare è quella di un misterioso bartender noto con l'eponimo di Red Hand: il nome deriva da un'ingegnosa campagna publicitaria che mostra le mani di un barman inguantate da lattice rosso e di cui non si conosce il volto del preparatore di cocktail. Eo allora, che viene a profilarsi il mistero sull'identità del barman, presunto fulcro narrativo di una storia che coinvolge principalmente l'unica autentica protagonista dello short-movie della Campari, una fotoreporter di nome Mia Parc impersonata dall'attrice americana Zoe Saldana. Dico "presunto fulcro narrativo", perché l'identità ignota del barman misterioso è il pretesto su cui insiste un tema più decisivo, tanto che una volta scoperto da parte della protagonista la finzione che soggiace allo evento di Red Hand (diversi professionisti si susseguono nel ruolo, coperti dalla finzione di questo Red Hand), il filmato non perde in suspance e di appeal, anzi la nuova situazione narrativa basata su una passione amorosa modifica il tema iniziale del filmato in una ricerca d'amore. Nel cambio di prospettiva il ruolo del magico aperitivo della Campari ne viene rafforzato, divenendo sempre in ogni occasione il coprotagonista della vita di ognuno dei personaggi coinvolti nella storia: ciò vuol dire che di riflesso, il succoso liquido rosso della Campari è coprotagonista assoluto dei momenti più importanti della vita dello spettatore e quindi del consumatore.
Anche in questo caso il linguaggio del cinema fa presa sui sentimenti e sulle emozioni forti della vita spirituale dell'uomo - nell'episodio precedente la vicenda si sviluppava in un noir con tanto di omicidio -, il che è in sintonia con l'esigenza di collegare il prodotto dello short-movie alla vita del suo consumatore tipo, ma è anche un'esigenza narrativa, in quanto le qualità del prodotto appaiono con maggiore evidenza se veicolate attraverso, diciamo così, gli occhi del consumatore. Tuttavia, il filmato, pur mostrando alcuni evidenti tratti di genere, mostra un certo spaccato dello immaginario attuale delle movide internazionali: la diversa graduazione della luce nei diversi siti della movida delle grandi città del mondo rivela come ad ogni luce di una qualsiasi movida risiede un'ombra, una particolare luce soffusa che ricorda zone di vita inquieta che il luccichìo non sempre riesce a mascherare completamente.