«Il
passato mostra una parte di te, una parte che è cambiata con gli
anni, e che nel presente è inconciliabile. Eppure sei sempre tu».
(Angelo
Romeo)i
Durante
lo studio dell'opera di Paul Ricoeur, per la preparazione della mia
tesi di laurea in filosofia, mi imbattei in un concetto che all'epoca
mi aveva grandemente affascinato, tanto da influenzare l'impostazione
della stessa tesi, cioè la funzione storicizzante della scrittura.
Il filosofo francese definiva quest'effetto con il termine
«distanziazione»,
mutuato dall'ermeneutica di Gadamer, ma con il quale anziché
descrivere un esito storicizzante della distanza storica del
documento, riflesso a sua volta dall'applicazione della metodologia
epistemologica, esso mira a descrivere una condizione insita
dell'esteriorizzazione oggettiva, recuperando in questo modo il senso
heideggeriano della «violenza»
del linguaggio nella rivelazione ed autoesplicitamento del Dasein:
una violenza che è strutturale al linguaggio che coinvolge anche la
configurazione dei domini semantici ed il senso derivato dalla trama
sintattica del discorso, la cui cooriginarietà con l'Essere è
troppo compromessa appunto sul piano esteriore. Ora, Ricoeur, meglio
di Gadamer, individua questa conseguenza e descriverà con la
distanziazione non solo la distorsione semantica prodotta dalla
distanza storica, ma anche l'interruzione di senso e di comprensione
agita proprio dalla struttura narrativa del testo o documento che dir
si voglia. Ciò vuol dire che non può esistere sul piano ermeneutico
un significato originario presunto da ritrovarsi nel testo, ma esiste
un senso complessivo del discorso, o meglio tematizzato dal discorso
che va determinato, nel senso recuperato (e restaurato
archeologicamente) attraverso l'analisi testuale. Tuttavia, il senso
che si ricava da quest'analisi non è il significato predeterminato
di heideggeriana memoria, bensì il senso assunto dal testo,
strutturato e depositato nel testo dalla struttura narrativa del
discorso. Pertanto, ciò vuol dire che decade nell'analisi testuale
(condotta attraverso le strategie dell'epistemologia semiotica) un
qualsivoglia interesse alle implicazioni psicologiche affioranti dal
testo: su questo punto il filosofo francese riprende la teoria
jakobsoniana della comunicazione e dell'autoreferenzialità poetica
della comunicazione, per cui se insiste nel testo una soggettività
essa è l'argomentazione e/o il tema del discorso (recupero della
teoria della retorica di Perelman).
La
teoria del discorso che il filosofo francese elaborerà a partire
dalla prima antologia di scritti ermeneutici (1969) consiste
certamente nella definizione di una strategia epistemologica basata
su una teoria del senso, ma soprattutto, a partire dagli anni
Settanta, su una logica proposizionale che accosterà l'opera
ricoeuriana verso una retorica logica e quindi, verso una
precisazione delle strutture narrative alla base dell'intuizione di
senso. Da ciò deriverà la teoria del testo che sarà asse portante
degli scritti ermeneutici ricoeuriani negli anni Ottanta. Tuttavia,
quest'attenzione alle strutture narrative, che in Ricoeur finiscono
per identificarsi con il sistema dell'azione (conoscenza primitiva
dell'agire, o saper fare), svela un orizzonte che esclude l'Io
dal suo ruolo di fulcro e di primato dell'agire testuale. Gli anni
Sessanta sono caratterizzati dalla polemica nei confronti
dell'idealismo ermeneutico entro cui cade il gadamerismo definendo il
«circolo ermeneutico»
una predeterminazione della soggettività: il recupero dell'ontologia
heideggeriana in questi anni ha una funzione negativa, nel senso
espropriativa del senso di appartenenza dell'Essere che l'ermeneutica
gadameriana aveva predeterminato – senza l'iniziale precomprensione
dell'Io produttore la comprensione del testo prodotto non poteva
riuscire; quest'espropriazione (che in Heidegger è un esito insito
all'esteriorizzazione linguistica) in Ricoeur è posta
metodologiamente tramite la via dell'analisi semiotica del testo.
Pertanto, l'unico soggetto che interloquisce con l'ermeneuta non è
il soggetto produttore del testo, né qualsiasi altro, ma è il testo
nudo e le sue strutture narrative: in tal senso, Ricoeur aveva
parlato di morte dell'autore (rifacendosi all'omonima tesi di Maurice
Blanchet), per cui il rapporto e l'esperienza ermeneutica non sono
più tra due soggettività (come voleva l'ermeneutica romantica; cfr.
Schleiermacher), ma la definizione di un'intersoggettività lunga
(così la definisce) intercorrente tra la soggettività
dell'ermeneuta (unico Dasein del rapporto) ed un testo a cui si nega
la sua dimensione di esistente, quindi non più Ego-testo-Io, ma Ego
estinto-testo-Dasein (Io). La rivelazione della posterità
dell'Io è alla base del testo come «macchina
desiderante», che ha una sua
ritrovata autonomia dalle intenzioni soggettive e soprattutto diviene
una docile struttura che accoglie le significazioni che le provengono
dalla lettura ermeneutica dell'unica realtà esistente, aventi solo
responsabilità etiche.
La
depsicologizzazione che Ricoeur realizza dell'attività ermeneutica
colloca il testo sul piano della virtualità e quindi, dentro un
sistema di relazioni intertestuali tanto che l'analisi ermeneutica
diviene essenzialmente una letteratura, cioè un percorrimento
(enciclopedico) di un tracciato virtuale in cui un testo non è una
realtà isolata, ma sospesa in un mondo di riferimenti e di rimandi:
Ricoeur sostituisce con letteratura la «tradizione»
gadameriana con l'evidente esito di rendere la lettura
riappropriativa del testo autonoma dai vincoli storico-linguistici ed
estetici in cui viene a trovarsi nella teoria gadameriana. In tal
senso, il testo è ad un tempo il «corpo»
in cui si oggettivizza il significato, ma anche il deposito entro cui
si stratifica nel tempo il senso fissato dal discorso. Il testo come
letteratura rivela allora, sì una virtualità sconosciuta
all'ermeneutica della tradizione, per cui il testo è una
soggettività ancora presente, perennizzata, assoluta, ma soprattutto
una «struttura»
(nel senso strutturalista) attraverso cui il voler dire del
testo non solo può essere trasmesso, ma anche riattualizzato davanti
a soggettività estranee alle condizioni predeterminate di produzione
e ad un contesto ideologico-culturale differente da quello
originario. Ora, se negli anni Sessanta l'intenzione del testo (voler
dire) è ancora identificata con il senso, quindi si può ancora
parlare di Ego produttore e Io lettore-destinatario, ciò perché è
ancora dominante l'approccio semantico, con la svolta di tipo
anglosassone degli anni Settanta (cfr. Austin) quest'identità
decade, o comunque non è più così decisiva e portante nella teoria
di Ricoeur, prima perché l'approccio semantico si fonda sulla parola
come unica e sola unità di senso, per cui riproponendo sotto mentite
spoglie la teoria linguistica antica, e secondariamente perché
Ricoeur inizia ad abbandonare la teoria del simbolo come strategia
epistemica per la spiegazione della polisemia del testo: la teoria
del simbolo non è solo effetto di un tradizionalismo fenomenologico
del filosofo, ma è soprattutto la conseguenza relativa alla
centralità della parola nel gioco ermeneutico; quando invece, inizia
a comprendere che la sede del discorso non è più la parola, ma la
frase (quest'ultima già intuita chiaramente ne Le conflit des
interprétations) e più ancora l'enunciato (di qui la
definizione della problematica del testo), allora il tema della
comprensione verrà impostata su tutt'altre direzioni.
L'oggettivizzazione
linguistica rivela sul piano metafisico un'assenza della
soggettività, tanto che questa verrà recuperata con la dialettica
della “riappropriazione” archeologica (recupero e
riattualizzazione) del senso (doppia dialettica), ma sul piano
epistemologico la via lunga della semiotica ha trasformato l'Ego
nello Io del testo, cioè nell'operatore funzionale che si districa
attraverso il viluppo del discorso: in realtà, Ricoeur non parlerà
di Io operativo nel testo, perché l'unica soggettività che agisce
nel rapporto ermeneutico è solo quella dell'ermeneuta, tuttavia
tramite il sistema dell'azione, che ha nella struttura narrativa la
piattaforma della sua esteriorizzazione linguistica, il
lettore/ermeneuta può “riflettersi” nel testo come se avesse
dinanzi a sé un altro essere, simile a lui in quanto agisce con la
medesima logica primitiva del saper fare. La storia è dunque,
non solo il filo entro cui e attraverso cui si assiste al
dispiegamento degli eventi narrati, ma è anche lo stato delle
condizioni entro cui l'ermeneuta può comprendere un oggetto virtuale
quale è il testo come se fosse il Dasein heideggeriano di
Sein und Zeit. È la
storia dunque, a portare all'attenzione dell'ermeneuta una nuova
soggettività che non è quella psicologicamente empatica dell'io
originario, dell'io scrittore, dell'io produttore; in tal senso, la
storia definisce una nuova soggettività, perché aiuta la
sedimentazione attraverso di essa di nuovi significati, che si
associano, si assimilano a quelli trasmessi dal testo, caricandosi di
nuove e diverse valenze di senso.
Come
si può evincere, la depsicologizzazione del testo non ha determinato
una rinuncia alle prerogative della soggettività, ha semmai
determinato un superamento del cognitivismo e dell'idealismo kantiano
insito nell'ermeneutica post-gadameriana, ma ha lasciato l'azione
della soggettività laddove l'analisi ermeneutica di Heidegger
l'aveva collocata, cioè nella Verstehen del Dasein e
che in Ricoeur coincide in ultima analisi al momento della
riappropriazione semantica e della riattualizzazione nella
significanza. Tuttavia, per quanto ben congegnata la teoria di
Ricoeur mi affiora una sensazione, che sfocia in una perplessità che
non so bene definire, e cioè che, pur accettando questa visione
della riappropriazione semantica, non posso non pensare che dietro il
groviglio di eventi che mi si presentano attraverso la storia non ci
sia stato, seppur ormai come dato postumo, un soggetto produttore che
esprimeva suoi (e soltanto suoi) convincimenti e/o un soggetto
destinatario che traeva piacere da quel tipo di intreccio. Insomma,
non posso pensare al testo solo come una machina senza guida,
anche se l'approccio responsabilmente etico che posso avere come
lettore mi crea una cintura sanitaria contro le storture ideologiche
che possono veicolare tramite il testo. Mi spiego quel che mi viene
asserito da Ricoeur nel momento in cui tengo ben separati il
comprendere ermeneutico di un testo e il giudizio di valore che posso
formulare una volta compiuta l'analisi e l'appropriazione semantica
richiestami dall'esegesi del testo.
Ancora
adesso, non mi riesce di comprendere questa sottigliezza che avverto
nella filosofia di Ricoeur e che è determinata dall'apologia del
soggetto svolta dal filosofo in tutta la sua opera, fino in ultimo al
capolavoro degli anni Novanta (l'ultimo), Sé come un altro,
in cui ricompila la sua opera in funzione della soggettività, fulcro
autentico del filosofare ermeneutico di Ricoeur (Jervolino). È
come interrogarsi (accaduto di recente) sul Mein Kampf di
Adolph Hitler. Ora, se responsabilmente posso e devo trarre le dovute
conseguenze di tipo etico sul messaggio di quest'opera controversa,
come di tante altre opere controverse, è pur vero che il sistema
ermeneutico presentatomi da Ricoeur semplifica e complica il lavoro
esegetico, perché da un lato sembra non riconoscere alcuna
responsabilità etica all'opera (se è un oggetto virtuale senza
proprietà è come se non esistesse), mentre le riconosce (e
gravemente) al lettore e all'ermeneuta che si carica del compito di
comprenderla. Inoltre, la comprensione diventa un lavoro farraginoso,
perché, azzerando i legami con una qualsivoglia tradizione, si è
costretti a compiere un preventivo lavoro enciclopedico (tranne nel
caso in cui si abbia di proprio una conoscenza enciclopedica così
vasta da permettere un approccio critico su ogni pagina dell'opera)
che solo personale specializzato compie ed è disposto a fare, mentre
viene ributtato da un lettore di media formazione (troppo
dispendioso): e se invece di un'opera saggistica, ci troviamo dinanzi
ad un libro di poesia (a.e. Ezra Pound), ad un romanzo (I misteri
di Parigi di Eugène Sue) oppure ad un testo religioso (cf.
Apocalisse di Giovanni). Pur se il ricorso alla tradizione
letteraria è complicato, almeno ti offre un progetto di senso che
può essere migliorato ed in cui sono già introiettate eventuali
valenze morali ed etiche, che si possono accettare o dissentire, ma
con un testo che è strutturalmente «per
aria», la cui valutazione
(non dico la comprensione) è affidata unicamente alle capacità
responsabili del soggetto destinatario (non importa se originario o
postumo), si rischia il relativismo se non addirittura il
revisionismo arbitrario: rischi che non si possono evitare,
umanamente parlando, nonostante una buona teoria ermeneutica,
tuttavia quel che mi preme non è avere necessariamente una teoria
che mi prevenga e mi immunizzi da questi rischi, ma una teoria che
sia conscia dell'essere di questi stessi e che li ammetta
preventivamente in qualche maniera.
Non
so, ho questa incertezza.
i Questa
è una scrittura poetica risalente all'epoca liceale, quando
vagheggiavo di possedere una vis poetica che mi si mostra
intermittente. La cito non per narcisismo, ma perché è stato
il “vero” motivo di queste poche righe. Rileggendola casualmente
(vorrei soprassedere sull'ingenuità, lo dico con pudore) mi ha
suscitato il tema e l'argomento dello scritto, risvegliando
interrogativi mai sopiti a quanto pare, forse mai risolti perché
inerenti ad una meditazione mai paga e comunque appartenenti
all'opera del filosofo francese. Tuttavia, mi ha impressionato il
fatto che nonostante avverta perfettamente l'enorme distanza
rispetto a quello che sono e ai sentimenti attuali, sento una certa
riconoscibilità con quel giovane liceale che sono stato. Ora, se
avverto limpidamente questa riconoscibilità logica e sentimentale
diciamo così, ciò si concilia poco con l'idea del filosofo
francese di una comprensione altresì basata su un effettivo corto
circuito di tipo semantico ed intuitivo del testo. Se ciò fosse
vero, allora per ritrovare il significato dello scritto poetico lì
espresso dovrei avventurarmi in un'analisi linguistica serrata del
medesimo, mentre in realtà, il senso, o meglio una valenza di senso
ivi presente mi appare immediatamente, intuitivamente e senza
analisi: certo, si può dire che in questo caso io sia l'autore
(l'io produttore di Ricoeur) e quindi in una certa misura, i
concetti e le strutture logiche dello scritto mi appartengono, ma
questo è irrilevante ai fini del compito ermeneutico, perché ciò
che conta è solo il messaggio dello scritto, il discorso ed il tema
ivi espresso; eppure, avverto una “similarità” primitiva con
colui che l'ha prodotto: Ricoeur risolve questa riconoscibilità
tramite il tema dell'azione, affrontando poi in seguito (solo dal
punto di vista morale) il tema della responsabilità etica (cfr. Il
paradigma della traduzione e la terza sezione di Dal Testo
all'Azione, dedicata all'ideologia).