Il
confronto con la cultura cattolica, per quanto mi riguarda, è stato
da sempre qualcosa di molto diverso di un semplice incidente di
percorso – tale forse fu, ma non troppo quando cercai qualche tempo
fa di chiarirmi il concetto di fede che possedevo, apprendendo o
riscoprendo ciò che ho sempre saputo, della mia apatia nei confronti
del tema – e qualcosa di molto meno che mero chiacchiericcio
intellettuale. Diciamo che per una serie di ragioni esistenziali,
alla maniera heideggeriana, il rapporto è quasi inevitabile e
strutturale della personalità di chi nasce in Italia e si relaziona
con un ambiente che ha una precisa, anche se a volte più blanda di
quel che si creda, connotazione confessionale. Ecco, quest'interesse
nei confronti della rivista cattolica Luoghi dell'infinito può
avere questa motivazione, accanto al fatto che, non leggendola, mi
perderei gli interventi dello storico fiorentino Franco Cardini, che
mi ravvivano una piccola passione – che in verità coltivo poco –
che è la storia medievale.
In
effetti, ciò che mi attirato della rivista sono stati i contenuti
artistici, gli interventi di Elena Pontiggia e di altri critici
dell'arte, che pur dissertando sulla pittura figurativa, sovente
rinascimentale, che è l'ambito che ha maggiormente espresso le
figure di fede, e di tanto in tanto mi accorgo che alcuni scritti
celano temi che meritano di essere scoperti o analizzati: ciò non
necessariamente in ossequio alla cornice di ecumenismo culturale dela
stessa rivista, un esempio sono (per me) le poco convincenti
argomentazioni addotte sul tema dei rapporti simbolici con le altre
fedi religiose e sulla fiducia espressa sulle possibilità
risolutrici del dialogo – tesi che sono un dozzinale sincretismo
con una certa cultura ebraica – nelle questioni di fede.
Cristianesimo Islam e Ebraismo, pur nelle loro differenze, sono
l'espressione di tre sistemi prototipi di sistemi di verità assunti
per definizione assoluti e quindi, il dialogo tra di essi può
intendersi solo un cvile accomodamento non perché in fondo si prega
lo stesso dio – mi si deve spiegare cosa hanno in comune gli
attributi di Allah con la piaghe della passione di Gesù Cristo in
croce, o le monolodiche litanie ebeaiche sul muro del pianto -, ma
perché la civiltà del diritto (la politica, la legislazione
sociale, l'economia...) deve creare una piattaforma in cui le pretese
delle singole verità assolute siano frustrate e non permettano di
trasformare i contenuti di fede nell'agitazione di fasce di
popolazione insoddisfatte.
Ora,
se il confronto è di questo tenore, po' apparire poco interessante
alla fin dei conti, perché ricalca molto alla lontana la stessa
operazione culturale di riviste come Micromega, che ha
favorito anni fa il “dialogo” ed il riavvicinamento di una certa
intellighenzia di sinistra ai temi della fede, creando un nuovo
spazio in cui sia la cultura cattolica sia una parte della sinistra
italiana potesse definire un ragionamento condiviso su molti temi,
alcuni dei quali di notevole impegno morale ed intellettuale, come
appunto i temi bioetici. Si dirà che è segno dei tempi, del
mutamento della prospettiva intellettuale, può darsi, ma quando ci
si confronta con la cultura cattolica ci si deve rendere conto che le
eventuali affinità culturali che si possono riscontrare non sono
l'esito di uno sforzo condiviso o di una spiritualità riconquistata,
come mi pare alcune notissimi nomi della cultura nazionale hanno
pubblicamente espresso, ma l'esplicitazione di quella matrice
materialistica che è il vero sostrato filosofico su cui esiste la
possibilità di un ecumenismo culturale, almeno nei modi ideati e
teorizzati dal Cardinale Gianfranco Ravasi e dalla stessa rivista. E
non ci si scandalizzi per questo, perché il materialismo è il
sistema filosofico di riferimento attraverso cui a partire dal
Concilio Vaticano II la cultura cattolica ha formulato il proprio
paradigma spirituale, plasmando un pensiero più duttile nel suo
applicarsi alla vita contemporanea che ha accettato senza compromessi
la «svolta
antropologica» impressa
e derivata dagli studi fenomenologici sulla religione, che ha
costretto un ripensamento della stessa teologia in termini
storicistici, riscoprendo a.e. la struttura narrativa del racconto
biblico e temi simili.
Ciò
detto, un'ultima considerazione vorrei fare sul tema dell'infinito,
presente nel titolo della rivista. Ora, con «infinito»
l'uomo ha identificato da sempre la realtà teologica della divinità
che si trova espressa, diciamo così, nelle forme finite della vita
sensibile e così deve intendersi il significato del titolo della
stessa rivista. E tuttavia, la presenza del tema dell'infinito nel
titolo della rivista rivela una scelta culturale in cui gli intenti
di ecumenismo espressi a più riprese naufragano inopinatamente, in
quanto le coordinate su cui si pretende di costruire questa specie di
koiné culturale sia intellettuale che religiosa mal si conciliano
con alcune nozioni implicite nel discorso cattolico, ma attivamente
presenti nella forma mentis di chi è un cattolico. Il modo di
intendere e di rappresentare l'infinito è la chiave di volta
dell'attuale civiltà umana, il fulcro attraverso cui la realtà
stessa dell'Universo o del Creato, come dir si voglia, si presenta e
si autorappresenta con l'immagine della Complessità. Ciò significa
che non solo il Cattolicesimo, se vuole costituirsi esso stesso
terreno comune di confronto tra sistemi culturali e religiosi e/o
visioni intellettuali differenti, non può più formulare e neanche
sostenere il tradizionale meccanicismo causale che è scaturito dal
suo determinismo teologico. La sfida della Complessità che ha
caratterizzato, prima in modo specialistico alcune discipline dello
scibile e poi la stessa vita sociale e materiale dei popoli, compresi
i credenti di ogni latitudine, è la direzione verso cui si muove da
tempo ormai il pensiero teorico. Una sfida che il Cattolicesimo ha
deciso di non affrontare, come ci ricorda il discorso di papa
Giovanni Paolo II nel 1992 dinanzi all'Accademia Pontificia delle
Scienze, disconoscendo la realtà complessa della realtà materiale
del cosmo e quindi dell'esistenza umana, perché ciò smentisce il
classico determinismo causalistico, di antica concezione filosofica,
che è a fondamento dell'idea dell'esistenza di una struttura
provvidenzialistica e misericordiosa dell'Universo: il vecchio
meccanicismo, che tanto venne combattuto nella sua veste modernista,
ora torna ad essere il fidato compagno di viaggio in un territorio
inesplorato e di cui si avvertono le terribili ombre dell'incertezza.
Per un sistema culturale come è il Cattolicesimo fondato su Verità
inoppugnabili deve essere drammatico relazionarsi con un paradigma
che fa dell'incertezza il suo assunto principiale decisivo: per
questo l'antica concezione di una conciliazione tra fede e scienza –
convinzione che seduce pervicacemente anche giovani menti – non
solo è ampiamente superata, ma anche del tutto improponibile. Ciò
getta sull'operazione culturale di Luoghi
dell'infinito una
ombra sinistra, che indica nella raffigurazione figurativa dell'arte
religiosa una dozzinale semplificazione di stampo ideologico,
paragonabile alla politica delle immagini sacre avviata dalla Chiesa
medievale. È forse il bisogno di avere un'arte o un'espressione
umana in generale addomesticata o facilmente addomesticata; ed è un
peccato, perché l'idea batailleiana dell'arte come momento di
creatività trasgressiva e disimpegnata dal sistema del lavoro e dal
sistema sociale dei tabù la trovo estremamente suggestiva, oltre che
in possesso di un convincente fondamento.
Forse
è eccessivo considerare l'arte un'attività ad uso e consumo del
potere ideologico e della stessa logica delle paure primordiali ed
irrazionali dell'uomo, ma è una possibilità non così lontana
dall'essere una realtà vera o ipotizzabile. In tal senso, questo mio
confronto con il Cristianesimo appare come la sfida omerica di
Ulisse che si lascia legare al palo della sua nave, perché vuole
soddisfare la «curiosità» di ascoltare il magico e mortale canto
delle sirene.
Così
mi trovo, così mi riconosco, così un giorno ci troveremo.