domenica 26 settembre 2021

La fotografia di Missy Suicide alla base del fenomeno SG

La produzione attuale di immagini è incentrata in buona parte su un complicato intreccio di varie attività, si va dalla produzione fotografica alla creatività pubblicitaria, fino a giungere alle scenografie cinematografiche ed ai soggetti delle serie televisive o dei format televisivi. In ogni caso, un intreccio che trova il suo fulcro nel più ampio sistema della comunicazione odierna, che non solo richiede sempre più immagini – spesso ridondanti ed usurate – che descrivano con efficacia e chiarezza gli eventi che attraversano i meccanismi di tale sistema, ma li produce anche, nel senso che induce ad un’elaborazione di specifiche immagini che circuivano adeguatamente per tutta la filiera, direttamente o indirettamente. Un intreccio inestricabile, disorientante ed auto celebrativo, ma anche inevitabile e che è strettamente correlato alla funzione delle strutture narrative (cfr. storytelling), strutture che sono diventate ormai essenziali in questo vasto mondo della comunicazione (cfr. Semiologia).

In apparenza è impensabile ammettere che possa esistere un’attività formale ed estetica odierna che sia in grado di sottrarsi a questa situazione e non è detto che debba necessariamente divincolarsi da questo stato. Anzi. La stessa attività fotografica odierna fatica ad elaborare soggetti che possano codificare messaggi al di fuori dai diffusi riferimenti categoriale del pensiero sociale attuale; tra questi riferimenti la stessa realtà o la vita senza filtri sono categorie mediatiche e non solo condizioni predefinite e preesistenti dell’atto comunicativo. Inoltre, si è imposta un’idea di fotografia che preferisce evidenziare la sua dipendenza dal realismo estetico, visto che l’unica forma di fotografia-realtà è quella dei reporter di guerra, mentre tutte le altre formule ricadano nella fotografia di costume, pubblicitaria e comunque, non documentaristica. Una concezione che deriva in parte dalla situazione odierna, in parte da alcune direzioni dell’arte contemporanea, in parte dall’esigenza di fissare un limite, forse anche un confine escludente con la realtà virtuale, che proprio tramite il digitale sembra aver debordato sulla materialità dell’esistenza: vita e virtuale si sovrappongono e l’immagine non ha più nessun elemento di materialità che ne possa decretare la sua veridicità realistica o ontologica.

L’evoluzione di una parte della produzione estetica indotta dalle piattaforme social spinge con forza sulla stessa irrilevanza materiale delle immagini, per cui le campagne di denuncia o di progresso sociale, incentrate su una o su un sistema di immagini, debbono ricorrere a codici di immagini, spesso già presenti nel piano sociale e nel pensiero sociale. Un esito di per sé non imputabile dai nuovi mezzi di diffusione virtuale, ma che di certo è ampiamente amplificato e quindi, dietro una mole immensa di produttività estetica non c’è solo una sfrenata creatività, ma anche l’esigenza di replicare e riformulare codici di informazioni necessari per la vita sociale e forse anche per la stessa vita materiale della società e delle nazioni: un riflesso condizionante e decisivo del simbolismo sulla stessa configurazione materiale della società, sui consumi, viene raccontata da Umberto Galimberti (1942) in un suo libro.  

Ciò detto, anche l’attività fotografica non è esclusa da questa situazione, anzi, per le varie attività a cui si è legata nel tempo ne è diventato lo strumento essenziale, ed in alcuni frangenti il cardine stesso come è accaduto negli anni Ottanta del secolo scorso. Oggi, le tecniche fotografiche sono sensibilmente cambiate, in alcuni casi riformulate nell’ottica delle nuove tecnologie digitali, ma costante è rimasto il connubio raggiunto tra iconografia e comunicazione, quest’ultima intesa non solo come campo di diffusione, ma anche come fonte primaria della stessa immagine fotografica. Ciò rende quasi impercettibile la commistione delle tecniche fotografiche ed in molti casi la stessa convertibilità di tali tecniche per ottenere effetti sempre più sorprendenti ed appaganti. Quest’uso combinato di tecniche è reso possibile da un lato dalla formazione dei professionisti attuali, dall’altro lato da una serie di dispositivi fotografici e da esigenze commerciali che chiedono e richiedono questo tipo di soluzioni. Un esempio è l’estensione della tecnica fotografica dello still life per i ritratti, spesso ritratti di nudo ed in bianco e nero, anche se la tecnica è stata pensata per la fotografia a colori e per la produzione pubblicitaria – si basta scorrere i profili social dei fotografi professionisti per accorgersi di questo tipo di soluzioni.

Nulla di grave ben inteso e spesso i risultati sono estremamente accattivanti, ma questa direzione della fotografia non è solo un esito dello sviluppo tecnologico dei dispositivi fotografici, dietro questo fenomeno interviene anche una evoluzione del discorso delle attività formali, discorso da cui la fotografia non è estranea e che come detto, ha contribuito a formulare.

È in questo scenario che si colloca l’opera fotografica di Missy Suicide, al secolo Selene Mooney Castellanos, che ha dato inizio ad un fenomeno sociale ed estetico di portata globale. Quello che per molti – compreso il sottoscritto all’inizio – è solo un fenomeno di costume e forse anche un fenomeno sociale, è in realtà, uno di quei prodotti della cultura pop di inizio millennio. L’aspirazione di formulare una nuova e diversa definizione di bellezza, poi fissata dalla cultura antagonista e dal mainstream mondiale nell’estetica del tatuaggio o degli inked model, deriva in primis da un’intuizione primigenia di elevare il criterio soggettivo di bellezza a valore generale, criterio fissato dal principio che la bellezza risiede negli occhi di colui che guarda e non nel soggetto che si mostra, che in seguito diventerà il canone fondamentale di un programma militante antitetico al circuito ed al sistema della moda: un carattere questo che si è caricato nei forum dedicati a questo modello di bellezza in modo ideologico e ciò ha fatto eludere che a suo modo il sistema della moda stesso proprio in quegli anni ha cercato di riformulare in chiave soggettiva i canoni sociali ed ufficiali; in pratica, tentando di dire quanto verrà affermato dalla svolta degli inked model. Comunque, il fenomeno delle Suicidegirls – nome che deriva dal titolo del sito internet omonimo da cui inizia la diffusione di questo paradigma estetico alternativo – rappresenta un fatto estetico che sconfina dall’ambito del fenomeno di costume o della nuova moda giovanile. L’ideale come detto, è più ambizioso, è la riformulazione del concetto di bellezza – come titola il volume per il quinquennale della fondazione del sito suicidegirls.com «beauty redefined» - ed uno stravolgimento dell’iconografia della moda e del sistema della comunicazione.

Ora, se il successo dell’iniziativa imprenditoriale nel campo del web ha attribuito significati differenti da quelli fissati dall’intuizione originaria e spesso, ha trasformato l’iconografia inked in una forma di contestazione, in genere di rifiuto dell’ordinario sistema estetico, per diventare esso stesso paradigma ed iconografia, le idee che hanno animato l’impegno di Missy Suicide sono poche, semplice ed in buona parte collegate ad una certa situazione della fotografia mondiale.

Il primo dato rilevante è quello che in seguito diventerà il tema di arrivo di un percorso evolutivo della stessa immagine SG, vale a dire quell’idea di definizione di un canone estetico alternativo, se non in netto rottura con i clichés imposti dal sistema della moda e dai trend commerciali. Nel suo primo volume, semplicemente intitolato Suicidegirls (2001), Missy Suicide avverte fin da subito quest’esigenza di definizione di un nuovo canone estetico, vissuto dalla fotografa anzitutto come uno spazio sociale, come dimensione di un incontrarsi e solo in seguito come un’esigenza estetica. Infatti, fin da subito la via intrapresa è quella delle nuove tecnologie internet, cioè l’utilizzo di spazi virtuali come a.e., la rudimentale ed originaria bacheca dove gli iscritti del sito venivano in contatto tra loro, creando una primitiva comunità di persone accomunati da particolari sensibilità, o semplicemente da gusti estetici diretta espressione del proprio mainstream di riferimento. Il tema della libertà di ogni individuo e soprattutto quello della riconoscibilità delle differenze che caratterizzano tali identità sono le premesse fondamentali per una riflessione estetica alternativa, più “sentita” che non teorizzata – quest’ultimo aspetto verrà in seguito. Infatti, è l’ambiente giovanile della fotografa statunitense a dettare i termini di questa riflessione, ammesso che all’epoca ci fosse una solida consapevolezza di ciò.

Missy Suicide è stata una fotografa amatoriale, oggi produttrice ed imprenditrice, che ha vissuto gran parte della propria giovinezza nello stato dell’Oregon, precisamente nella città di Portland. La sua formazione fotografica è essenzialmente autodidattica, composta durante gli anni del college, e spesso associata ai modelli della fotografia delle riviste patinate che colleziona e dei molti magazine per adulti come Playboy e Penthouse, da cui trae il suo ideale iconografico di riferimento, la Pin-Up (Betty Page). L’ambiente sociale (giovanile), culturale e la situazione economica della città di Portland tra gli anni Novanta ed i primi anni Duemila descrive l’attecchire di una cultura pop orientata chiaramente al multiculturalismo. Una vitalità ampiamente avvertita dai giovani e che lascia traccia di sé nelle opinioni della fotografa, nelle scelte anticonvenzionali e non stereotipate che iniziano a realizzare fin dalla giovinezza e soprattutto per quel gusto sulle formule inconsuete e bizzarre che la orientano verso la cultura post-punk e all’internazionalismo etnico della neocultura hippy.

Questi scorci biografici, accennati nell’introduzione del volume fotografico menzionato, indicano con una certa evidenza un’attitudine amatoriale che ricorda certe idee di un’altra fotografa statunitense Diane Arbus (1923-1971), con la quale condivide l’assenza di alcuna pregiudizialità estetica verso i soggetti e di una sorta di anarchia di metodo degli strumenti usati per realizzare le proprie fotografie, ma anche delle scelte su ambientazioni e su situazioni. Dal punto di vista estetico l’attività amatoriale o il non professionismo è l’eredità più evidente della svolta documentaristica che proprio la fotografia degli anni Sessanta, ed in particolare proprio l’opera fotografica della Arbus e di altri, ha impresso nel discorso delle attività estetiche, nell’arte contemporanea di fine Novecento e in specifico nell’attività fotografica. In una certa misura, l’approccio alla fotografia e la stessa idea di fotografia espressa da Missy Suicide non sono molto lontani da questa forma di attività amatoriale che contraddistingue la fotografia a partire dalla seconda metà del secolo scorso: il professionismo della fotografia si confina infatti, nello spazio delle immagini glamour e dei messaggi commerciali, mentre ai fotografi amatoriali compete, per così dire, la ricerca estetica tout-court, l’innovazione, l’inusuale.

È in questi termini che Missy Suicide si approccia all’attività fotografica, evitando cioè di seguire modelli prestabiliti o preconfezionati, ma così facendo orienta il suo apprendistato fotografico verso il libero sfogo della propria curiosità e considera l’attività fotografica più che una ricerca estetica come il “documento” di ciò che in qualche modo si mostra come una stravaganza interessante, meritevole di attenzione. Siamo lontani dall’idea oggi molto in voga di una fotografia dettata da ragioni di composizione estetica, incentrata su una progettualità in cui ogni componente della fotografia è strutturato in un equilibrio formale appagante; qui, ciò che guida la fotografia sono solo le sensazioni, disordinate forse ed indeterminate che coinvolgono la fotografa durante i set fotografici. Non c’è progettazione, non c’è composizione formale, non c’è alcuna preventiva valutazione di come potrebbe apparire la stessa fotografia. Tutto è lasciato alla casualità dell’impressione o della impressionabilità. Ecco allora, delinearsi un’altra caratteristica della fotografia di Missy Suicide.

Il multiforme interesse della fotografa verso tutte quelle forme bizzarre o comunque, verso quelle forme inconsuete, trasgressive e rigettate dall’iconografia ufficiale è motivato non solo da un istinto proprio, ma anche da una precisa scelta iconografica compiuta sulle illustrazioni di Alberto Vargas (1896-1982) – tra l’altro citato dalla stessa fotografa. La fotografia non può essere il mezzo di una codificazione prestabilita, che si limita alla sua diffusione, ma diventa l’atto con cui dare espressioni a combinazioni imprevedibili, almeno nelle intenzioni della fotografa: la fotografia come “improvvisazione”, ma non nell’uso della tecnica. Se l’arte di metà Novecento si è interrogata sulle varie contaminazioni tra le forme, contaminazione necessaria visto che la crisi della figurazione tradizionale, in quanto l’accostamento bizzarro, spesso scandaloso – come ha mostrato il movimento Dada – ha in sé la condizione per il superamento delle aporie estetiche, la fotografia, pur seguendo un percorso affine, ma in fondo, autonomo rispetto all’evoluzione dei temi dell’arte, si è concentrata unicamente nella definizione di alcuni pochi modelli di riferimento ed al perfezionamento di quelle tecniche fotografiche che permettessero la loro realizzazione al meglio. L’incontro tra arte tradizionale e fotografia è vissuto da entrambe le attività come fortuito ed occasionale, anche se la direzione semiologica della pittura europea e mondiale fornirà ad entrambe uno spazio comune di intervento, cioè le figure di un immaginario diffuso e condiviso plasticamente rappresentato da pubblicità e comunicazione. Questa dimensione virtuale tiene insieme sia l’iconografia erotica di Vargas, sia il piano astratto dell’immaginario tout-court, abolendo in fondo, le distinzioni categoriali e costruendo le nuove forme nell’ottica di una continuità formale, quella stessa che ha portato la Pop Art al tema del recupero e del riciclo di materiali inconsueti o addirittura scartati dal mercato dei consumi. È in questa particolare situazione dell’arte novecentesca che si colloca l’idea di fotografia che nel tempo la fotografa di Portland preciserà.

La libertà e soprattutto la convinzione della fotografa di Portland che la bellezza sia una qualità che non riguardi le categorie estetiche codificate dalla società e tuttavia, il gusto che sottende a tale giudizio è in buona parte influenzato dalle convinzioni morali sulla bellezza e sulle opportunità stabilite dal sistema sociale. In tal senso, l’attività fotografica può limitarsi a descrivere questa situazione, ma entro certi limiti anche ad intervenire. L’intuizione fondamentale è quella di sottrarre allo sguardo del fotografo il monopolio del giudizio estetico e ciò viene realizzato tramite gli scatti personali realizzate dalle stesse modelle riportati a corredo del primo volume – siamo ancora in epoca pre-selfies! Ovviamente, è una scelta che segue ancora l’idea di fotografia amatoriale che caratterizza il libro menzionato della fotografa, ma introduce un concetto nuovo di voyeurismo creando una possibilità espressiva che solo nell’epoca attuale dei selfies si può intendere. Anche se sul piano espressivo non si può evitare che una logica di consumo possa influire nella stessa rappresentazione fotografica, il fatto che ora la macchina fotografica passi di mano dal fotografo al modello o al soggetto fotografato crea una situazione di “intimità” inedita, ma anche un edonismo che non cerca la trasgressione ad ogni costo, ma eleva a trasgressione la natura stessa del corpo esibito, della nudità offerta senza altri costrutti e orpelli. La bellezza naturale, seppur alterata dalla presenza delle forme tatuate, impone un clichés che costringe l’osservatore a soffermarsi oltre la immagine stessa, che è in fondo, lo scopo ricercato dalla fotografa. In ogni caso, la nuova direzione offre una immagine che non corrisponde perfettamente alle esigenze dei vari processi della comunicazione, vale a dire all’esigenza di codificare categorie già note e diffuse; non ha l’esigenza di rendersi appetibile ad ogni costo e quindi, non asseconda scopi commerciali; non ha l’esigenza di imporre modelli di riferimento.

Assecondare questa direzione significa dunque, eliminare la presenza del fotografo dal campo della immagine. In tal senso, si ritrova la lezione del fotografo francese Jeanloup Sieff (1933-2000) e precisamente nell’idea di una fotografia che cerca di non violare l’intimità della nudità femminile, tanto che le fotografie sono realizzate in ambienti casalinghi, per lo più salottieri, e con pose in cui la modella è ritratta per lo più di spalle o senza indugiare troppo sulla fisionomia del volto: corpi anonimi certo, ma corpi in libertà, corpi che esprimono sensazioni e sentimenti comuni ad ogni donna o essere femminile. Nell’intuizione di libertà assoluta di Missy Suicide si può ritrovare, facendo le debite differenze, questa lezione, soprattutto nella definizione di uno sguardo voyeur non più di matrice maschile, ritenuto invadente e stereotipato. Il voyeurismo erotico che Missy Suicide viene a codificare non deve intendersi solo nei termini di «soft porn» come ha dichiarato la pornostar americana Angela White (1985), ma come una necessaria «offerta visiva», che non sia solo un simbolo o una superfetazione, semmai deve intendersi una dichiarazione pubblica di un genuino atteggiamento naturale del nudo. Una nudità libera e non sovraccaricata dal peso della composizione formale o dalle esigenze di perfezione dei canoni imposti e proposti dai messaggi pubblicitari: il corpo così come si trova, con le sue imperfezioni. Il nudo in Missy Suicide è anzitutto libertà, ma soprattutto è accettazione di sé.

Questi concetti hanno bisogno di un linguaggio fotografico che riesca a rappresentarli e tale linguaggio è fatto di:

-          Una ritrattistica che riprende l’impostazione della fotografia di posa, sia nell’ambientazione minimale sia nell’uso dei fondali monocromatici. Ciò conferisce alla fotografia un carattere amatoriale e l’idea di un apprendistato non ancora pienamente compiuto. Tuttavia, è una caratteristica non voluta – tanto che verrà a perdersi nei lavori successivi della fotografa -  che però, concettualmente segna un discrimine forte con la fotografia patinata del sistema della moda a cui in parte s’ispira: sembra quasi incompatibile la polemica verso i canoni ufficiali di bellezza proposti dalla moda e mirare poi a Betty Page come icona erotica che in qualche modo ne è feticcio. Quello che in fondo, appare una sorta di contraddizione indica l’aspirazione di elevare a paradigma estetico ciò che non viene riconosciuto come tale; è, in fondo, la riformulazione di una bellezza soggettiva che è percepita sotto forma di gusto estetico e che non può rientrare tra i canoni di giudizio sociali. La moda e la stessa società aspira a riferirsi a modelli estetici assoluti, anche se poi la storicizzazione di questi modelli rivela il loro relativismo storico e generazionale. Nella fotografia di Missy Suicide prevale l’esigenza inversa di quella espressa a.e., dalla fotografia di un Jeff Dunas (1954) e cioè elevare ad immagine pubblica quella bellezza che non è intesa, né percepita come tale: le grandi top model degli anni Ottanta sono il modello di un paradigma di bellezza assoluto ed in quanto tale sono un fatto pubblico, le modelle di Missy Suicide, soprattutto se sono inked model, non descrivono questo paradigma ed in quanto tale non sono riconosciute come un fatto sociale. Almeno fino al clamoroso (e crescente) successo del sito web Suicidegirls.

-          La composizione non è la priorità espressiva delle fotografie di Missy Suicide, anzi il senso di amatoriale che caratterizza il suo primo lavoro rivela un netto rifiuto a questo criterio e la stessa idea espressa dalla fotografia sembra essere il risultato di un’improvvisazione, di quelle intuizioni che conferiscono al costrutto fotografico un mood non replicabile.

-          In tal senso, la fotografia diventa un sistema che trae il proprio codice di lettura interpretativa e di giudizio non più da canoni esterni all’immagine stessa. E quindi, il racconto di sé delle modelle, il loro umore e le loro aspirazioni, che come detto corredano ed accompagnano la fotografia di informazioni di altra natura rispetto all’immagine, intervengono sul giudizio della stessa fotografia da parte dell’osservatore. A tal riguardo, la presenza del tatuaggio non è un fatto estraneo o secondario, ma la fotografa statunitense ha agito come se il tatuaggio non esistesse, come se la fotografia fosse il prodotto di un’attività convenzionale. Ancora adesso non ho ben compreso se ciò sia segno di una “visione naturale” dei corpi tatuati, vale a dire che per il senso comune attuale è indifferente se un corpo sia o non sia tatuato, oppure se ciò sia solo di un’indifferenza non adeguatamente valutata dalla stessa fotografa. Il tatuaggio non è una forma “esclusa” dal sistema della comunicazione, è un oggetto ed una forma che porta con sé regole e significati che deriva dai sistemi culturali che lo hanno elaborato, per cui trovarlo sulla pelle di un modello non è un fatto così ovvio. Il tatuaggio, in base alla forma ed all’estensione, chiede di essere trattato dalla fotografia con una certa accortezza, in quanto può influire negativamente sull’equilibrio complessivo dell’immagine. Nel caso il tatuaggio incide sulla relazione erotica che l’immagine intrattiene con l’osservatore: tale rapporto non è più quello tradizionale della fotografia erotica, la sensualità della nudità maschile o femminile viene quasi soffocata dalla preponderanza feticistica innescata proprio dalla presenza del tatuaggio: in un certo senso, i tatuaggi, soprattutto su alcune zone erogene del corpo umano, possono avere l’effetto di amplificare il carattere feticistico, carattere che appartiene strutturalmente alla dimensione erotica, ma che in questo caso straborda a tal punto da opprimere un eventuale insorgenza di desiderio. Non so se questi effetti siano valutati dalla fotografa statunitense di certo, un osservatore per nulla abituato all’invadenza visiva del tatuaggio potrebbe rimanere sconvolto ed infastidito: certo, tra gli scopi dell’iniziativa di Missy Suicide vi è quello di costringere lo spettatore a superare il mero dato biologico e scrutare, diciamo così, nell’«anima» della modella, ma è indubbio che la fotografia di un corpo tatuato non è un’attività neutra e deve fare i conti con i problemi di composizione estetica e con i codici cromatici alternativi richiamati dal tatuaggio.

In conclusione, se il fenomeno delle SG è correlato in qualche modo con le dinamiche dell’arte del ‘900 tale fenomeno ha una sua primordiale origine su un’idea di fotografia di per sé non innovativa, in quanto recupera un modo di fare fotografia che le stesse riviste della moda degli anni Ottanta avevano abbandonato, con l’adozione negli anni Novanta di altri criteri di valutazione estetica e di composizione. Tuttavia, su una forma di linguaggio fondamentalmente obsoleta trova collocazione una precisa esigenza estetica che proprio all’inizio degli anni Duemila trova modo di imporsi, quella di diffondere stili e moduli espressivi provenienti dal mainstream e dalla cultura urbano-metropolitana. Per una qualche ragione non perfettamente storicizzata questo fenomeno che si afferma come fatto sociale nasce in realtà, come un fatto estetico e precisamente, come una diversa idea di fotografia. L’intuizione e forse anche la sensibilità della fotografa di Portland coglie effettivamente una lacuna estetica, a cui tenta di rimediare, ricorrendo in ogni caso a formulazioni già ampiamente utilizzate, ad un codice estetico riadattato alla nuova idea e ad un gusto per il bizzarro. Se per Missy Suicide la sigla SG è e rimane l’espressione di un’attitudine, di una consapevolezza più o meno determinata di sé, per il resto del mondo è un fatto sociale che conferma una direzione già presente nella creatività della moda, cioè l’idea che ogni individuo è un essere unico e per certi aspetti irripetibile e l’abbigliamento e tutto ciò che è correlato alla moda sono forme espressive di questa unicità. La moda infatti, proprio negli anni Duemila, comprende che non è più lei a dettare le norme del bel vestire o del buon gusto, ma è la personalità dell’uomo o della donna alla moda, è il loro grado di eccentricità, la loro passione e la loro voglia di dare un’immagine pubblica di sé, la loro personalità. In ciò le SG non sono un fenomeno alternativo, contrariamente a quel che pensano i cultori dell’inked, semmai è una diversa formulazione dello stesso concetto estetico già formulato dal sistema della moda, magari forse con una maggiore consapevolezza ideologica e con un’attitudine maggiore verso le contaminazioni e la non convenzionalità.

 

Porto Empedocle, 25/09/2021 (modifiche del 26/09/2021)

venerdì 17 settembre 2021

Qualche considerazione sul solitario con le carte


            È noto che nell’estate del 1815, precisamente il 18 giugno, Napoleone Bonaparte (1769-1821) viene sconfitto definitivamente nella pianura di Waterloo, mettendo fine all’avventura dei Cento giorni – tanto durò il governo dell’imperatore dopo il suo rocambolesco ritorno dal primo esilio presso l’isola d’Elba. Dopo la battaglia Napoleone si consegna agli inglesi e intraprende il suo ultimo viaggio in esilio presso un isolotto atlantico, l’isola di Sant’Elena, dove morirà il 5 maggio 1821. Alla morte dell’imperatore lo scrittore milanese Alessandro Manzoni (1785-1873) scrive un’ode famosa nella nostra letteratura nazionale dall’incisivo titolo 5 Maggio, il cui incipit è ancora ricordato nella cultura popolare odierna, ma fissa anche l’immagine indelebile del grande sconfitto dalla storia che ancora adesso caratterizza il nostro ricordo di Bonaparte. L’immagine manzoniana serve a veicolare un monito che alcune righe di commento del Pazzaglia esplicitano chiaramente,

«Napoleone è come sospeso fra due abissi d’angoscia: dietro di sé il nulla della vita passata […] davanti a sé il nulla della morte che vanifica la vita» [1976: 347].

Quest’idea del grande personaggio decaduto, anche molto clamorosamente, compone quell’iconografia propria del Manzoni che serve a rafforzare la sua concezione della storia. La filosofia europea aveva affermato con Giambattista Vico (1668-1744) l’idea (ancora dal clima rinascimentale) antropocentrica che la verità assoluta è quella che deriva dai gesti e dalle imprese dell’uomo, appunto dagli eventi della storia. Nel clima del romanticismo europeo questa concezione filosofica entra in crisi, anche in maniera molto dolorosa, e lo scrittore milanese cerca a suo modo di rielaborarla, ma collocandola in uno scenario più ampio e metafisico tirando in ballo la concezione cristiana della Provvidenza: nella storia esiste una logica a tratti insondabile, ma che assume spesso i caratteri provvidenzialistici di un disegno ordinatore e pianificante che descrive la direzione verso cui si muove (inesorabilmente) l’umanità intera. Dietro gli insondabili equilibri della storia agisce, secondo Manzoni, la Provvidenza di Dio e come tale ogni vita storica, ogni esistenza è collegata a tale andamento, come viene a dimostrarci la figura dell’Innominato nel grande romanzo dello scrittore, I promessi sposi (1827). Tuttavia, questa concezione definisce l’immagine di Napoleone come di un uomo chiuso nella sua disperata condizione sia di esule, sia di colui che la storia ha, per così dire, rimbalzato fuori dall’azione e dagli eventi della storia e vive la sua mesta situazione di rimuginante, «su quell’alma il cumulo / delle memorie scese» (vv. 67-68), che come un’anima dannata dantesca contempla con sofferenza gli antichi fasti quella «vera gloria» (v. 31) che ora appare ironica, beffarda e ingiusta. Un uomo insomma, gravato da un fatalismo che ne inibisce l’attività, gli sforzi e lo stesso slancio vitale, tanto che s’affatica a scrivere le proprie memorie che lo abbattono, anziché risollevarlo: per Manzoni solo la «man dal cielo» «valida» e «pietosa» può farlo ed alleviare il dolore di questo amaro destino.

Ora, gli ultimi anni di vita di Bonaparte sono stati oggetto di dibattito politico ed intellettuale, spesso travolto dai rispettivi interessi di parte e soprattutto dalla circolazione di notizie non proprio così affidabili ed attendibili. A riguardo, l’unica fonte documentaristica e biografica per quanto riguarda il dopo Waterloo di Napoleone è il famoso Memoriale di Sant’Elena scritto da Emanuel de Las Casas (1766-1842) e pubblicato dopo alterne vicende nel 1823, dopo la morte dell’imperatore e dopo sette anni dall’esilio definitivo del grande personaggio. Una recente edizione del Memoriale ha suscitato interesse e polemiche, in quanto è tratta da un manoscritto, autografato dallo stesso Napoleone e ritrovato a Londra da un gruppo di ricercatori del British Museum. La copia manoscritta viene ritrovata a casa del governatore dell’isola, che ebbe sotto custodia Napoleone e che sottrasse a Las Casas il diario su cui annotava il quotidiano con l’imperatore in esilio. Il manoscritto è infatti, una “fedele” trascrizione del diario, a cui è apposta una firma autenticata in calce dello stesso imperatore e fatta pervenire agli inglesi, i quali come detto, si erano resi disponibili ad accogliere l’illustre esule. Ciò detto, la menzionata copia non risolve i vari (e molti) dubbi che scaturiscono dalla pubblicazione del Memoriale di Sant’Elena, sia perché lo stesso autore pubblicò diverse edizione, sia per gli evidenti interessi di parte, quel che è certo è che nelle varie versioni in stampa Las Casas sembra aver modificato (aggiungendo ed integrando) alcune parti del diario, in particolare le modifiche riguardavano alcune dichiarazioni dell’imperatore – per lo più fedeli al manoscritto – che vengono di volta in volta abbellite o piegate ad esigenze narrative e politiche del testimone che le pubblica.

In ogni caso, qualunque sia la verità storica l’intervento di Las Casas offre al pubblico un’immagine di Napoleone Bonaparte molto diversa da quella che la propaganda borbonica dell’epoca diffondeva e di cui non è ignara neanche l’immagine manzoniana, anche se con intenti e motivazioni antitetici. Lo stereotipo dell’ex imperatore come un uomo in rovina è ritenuto convincente, anche perché assomma su di sé tutti i tratti ovvi dello spirito dell’«émigré», termine con cui si descrivevano tutti gli esuli. Di qui, è arduo non acconsentire alla idea manzoniana del verso 55 dell’ode, «E sparve, e i dì nell’ozio», che evidentemente conferma ancora una volta quest’immagine fatalistica dell’ex imperatore in esilio. Ora, alcune righe del Memoriale di Sant’Elena riportano una scena che in linea generale sembra confermare il clima dello stereotipo, e cioè che durante il suo viaggio verso l’isolotto atlantico Napoleone conducesse momenti molto appartati, precisamente si mettesse in disparte, anche dallo stesso gruppo di collaboratori francesi che con lui avevano fatto la scelta di condividere l’esilio – anche se non lo erano tenuti. Quest’isolamento di Napoleone conferma appunto, il dramma e l’animo travagliato dell’imperatore decaduto. Tuttavia, proprio su quest’episodio, apparentemente banale, un altro testimone evidenzia un aspetto interessante. Conferma sì, l’attitudine dell’imperatore ad appartarsi dalla sua comitiva di riferimento, ma lo faceva, non per disperarsi o per malinconiche nostalgie, bensì per giocare a carte, precisamente per realizzare figure con le carte, cioè fare dei solitari.

Ne parla l’esperto di giochi Giampaolo Dossena (1930-2009) nell’introduzione ad un suo libro del 1976 dedicato appunto, ai solitari con le carte. La notizia curiosa è riportata in un libro del 1816, dedicato ai solitari, di un certo dottor William Warden, il quale in una sua lettera, riferendosi all’episodio menzionato usa l’espressione «to play at patience», vale a dire “giocare a solitario”. L’espressione contiene due informazioni di rilievo, la prima che ci offre un’immagine di Napoleone molto diversa dallo stereotipo su cui non mi và di dilungarmi, mentre la seconda riguarda il termine «patience». Sempre Dossena, citando l’Oxford English Dictionary si evince che questo francesismo viene utilizzato per definire appunto i giochi solitari con le carte, tra l’altro sembra che i francesi per indicare questi stessi giochi utilizzino un’altra parola francese «réussite», che vuol dire approssimativamente «risultato», «riuscito». Quest’ultimo significato è più aderente all’epoca di Napoleone in quanto in Francia l’origine divinatoria del solitario è un fatto che caratterizzerà la creazione e l’attività di fare solitari: l’idea che il solitario fatto con le carte potesse avere “capacità” divinatorie è ben presente nella cultura francofona. In ogni caso, è evidente da quel che afferma Dossena, che il termine «patience», usato per indicare l’attività di risolvere solitari, fosse esclusivamente usato per l’uso delle carte da gioco e non per altri rompicapi simili. Nell’Enciclopedia dei giochi [1999] al terzo volume Dossena riserva questa definizione esclusivamente al Solitario Classico, in questo modo sciogliendo l’ambiguità con l’attività divinatoria ancora contenuta nell’idea italiana di solitario.

La definizione fornita da Dossena è semplice, anche se può apparire lapalissiana; dice al riguardo che per solitario si definisce «gioco che si fa in solitudine, senza compagni e senza avversari». In base a questa definizione derivano le diverse tipologie di solitari, di cui l’espressione più generica e generale è quella già indicata da me di «rompicapo». Tuttavia, nel lessico italiano tale definizione è generica, mentre nel senso che si è detto sopra vuole essere più specifica; qui si vuole evidenziare il fatto che i solitari sono giochi che si effettuano esclusivamente con le carte e quindi, non devono confondersi magari con i puzzle o con altre forme di rompicapi che utilizzano strumenti di gioco differenti, come ad esempio pedine e pedana nel gioco del Solitaire. Il solitario classico dunque, è un gioco che realizza una sola persona e prevedono un mazzo di 32 carte, ma esistono giochi che richiedono mazzi che utilizzano 40 o 52 carte. Le carte vengono distribuite sul tavolo in modo da comporre delle figure; le carte restanti compongono quel che viene chiamato Tallone, cioè il mazzetto da cui estrarre di volta in volta le carte che servono per completare il solitario. Il gioco consiste infatti, nell’individuare una sequenza, a.e. ricomporre le scale dall’Asso al Re, e tentare di districare la figura seguendo tale linea. Poiché le figure possono essere anche molto complesse, ingegnarsi a risolvere un solitario comporta un po’ di pazienza e concentrazione, di qui appunto il termine «patience» e l’evidenza pratica di appartarsi un attimo dalla compagnia.

Ora, pur non avendo notizie certe sulla storia del solitario, tranne alcuni riferimenti in letteratura e qualche notizia storica, ciò che stupisce è l’origine divinatoria del gioco. Il rapporto con l’attività divinatoria è quasi una costante nella storia del solitario e ciò non solo perché le carte da gioco sono una derivazione dalle carte dei Tarocchi, come noto utilizzate per le predizioni, ma anche perché veniva dato alla soluzione del solitario un qualche valore di responso oracolare. Alcuni riferimenti risalenti alla Rivoluzione Francese ci dicono che nella corte francese le dame dell’aristocrazia erano solite a risolvere solitari e a tale attività veniva dato un valore divinatorio, nel senso serviva per stabilire la “riuscita” di un corteggiamento amoroso, infatti ai segni delle carte veniva assegnato un certo significato che decretava alla fine del gioco la “predizione” oracolare: in una certa misura assegnando alle carte da gioco lo stesso valore che si assegna agli ideogrammi dell’I-Ching, il noto libro della magia cinese. Tale carattere divinatorio non riguarda solo la Francia, alcune testimonianze storiche (cfr. Dossena, op. cit.) di area germanica riportano l’uso del solitario come una forma di ordalia, gli sfidanti si impegnavano a risolvere uno alla volta una figura di solitario, magari sempre più complessa e la riuscita del gioco attestava le ragioni dell’uno o dell’altro contendente. Ebbene, in epoca napoleonica il gioco del solitario vive – almeno in Francia – questa ambigua commistione con l’arte divinatoria dei tarocchi, ma all’epoca di quando ci viene riportato l’episodio di Bonaparte menzionato, il gioco del solitario proprio in Francia è diventato un’attività alla moda ed è potuto diventarlo in quanto ha scisso l’attività ludica da eventuali significati divinatori.

Per capire come tale moda si affermasse in Francia e coinvolgesse appassionatamente addirittura lo stesso Napoleone si deve considerare l’evoluzione dai tarocchi alle carte da gioco. Lo strumento fondamentale per realizzare un solitario sono appunto, le carte da gioco; il nostro punto di partenza è l’Ancient Tarot de Marseille, cioè il mazzo di tarocchi che funge da riferimento a tutti gli altri mazzi di tarocchi. Come il Tarocco piemontese, il Tarot de Marseille è composto da 78 carte, di formato però 65x122 – mentre il piemontese è di formato più piccolo – e prevede 22 Arcani Maggiori e 56 Arcani Minori – in genere si dà la lista dei primi, ma si può consultare in giro nel web per averla. La composizione dei semi e dei valori del Tarot de Marseille è quella a cui siamo oggi abituati, cioè coppe, bastoni, denari o oro e spade; mentre i valori sono carte da 1 a 10, a cui seguono Fante, Cavallo, Dama e Re. Le peculiarità e quindi le differenze tipologiche nei successivi mazzi di carte da gioco è unicamente la resa grafica; queste carte infatti, riportano il seme di bastoni dal 2 in su come una sorta di asticciola contorta, mentre il seme di spade sempre come un’asticciola, ma più ricurva. Dal punto di vista grafico non c’è molta differenza tra i due semi, facilmente confondibili, ma è nel dare una migliore lettura e comprensibilità delle figure che si impongono nel mercato europeo i mazzi di “tipo italiano” (cfr. Dossena: 1976). Le figure nel Tarot de Marseille sono a figura intera, ma è già con il Tarocco piemontese che le figure iniziano a comparire a figura doppia rovesciata: la convertibilità prospettica delle figure inizia ad essere una peculiarità delle carte di tipo italiano e sono questo tipo di carte che – probabilmente con l’inserimento dell’Italia nell’impero napoleonico – iniziano a diffondersi in Francia introducendo formule e possibilità diverse nell’uso delle carte. In ogni caso, è in Italia, verso la fine del XVI secolo che compare questo effetto della figura ridondante, ma è solo a partire dal 1808 che inizia a diffondersi in Francia. La ridondanza infatti, rende più leggibile la figura sul piano e quindi, utilizzabile in un eventuale partita con avversari o appunto, in una composizione di solitario.

È evidente a questo punto, che i mazzi di carte che iniziano a circolare in Francia sono in buona parte tutti ricavati dai mazzi italiani, a loro volta differenti tra loro in base ad esigenze di tipo regionale ed in qualche caso addirittura locale, tanto che compaiono gli stessi semi, seppur definiti con una leggera differenza grafica. Per quanto riguarda le carte da gioco francesi, la derivazione italiana è evidente sul piano della grafica che viene adottata, ma non per l’assegnazione dei valori. Al posto della nomenclatura italiana Fante, Cavallo e Re le figure vengono indicate dai francesi rispettivamente Valletto (Valet), Donzella (Dame) e Re (Roi). Nei mazzi con 32 carte la sequenza è Asso (As), 7, 8, 9, 10, Valletto, Dama e Re ed hanno questa composizione, perché sono usate per giocare a piquet (picchetto). Ovviamente, esistono anche mazzi con 40 e 52 carte, ma nel caso dei mazzi con 52 carte essi possono confondersi con le carte dei tarocchi, mentre i mazzi di 40 carte hanno una composizione ed un utilizzo differente dall’equivalente mazzo italiano di 40 carte: tradizioni di gioco e di carte differenti.

Ciò detto, ritornando a Napoleone, non è ben chiaro a quale solitario era solito giocare o risolvere, in questo le fonti che ci hanno riportato l’episodio sono avare e comunque, totalmente disinteressate al tipo di struttura componesse l’ex imperatore, si può solo fantasticare, forse ipotizzare, ma questo è un esercizio che si può lasciare alla creatività dei romanzieri che non è oggetto di interesse in questo discorso. Quel che è certo è che una delle probabili figure che avrebbe potuto risolvere l’imperatore avevano a che fare con le stesse forme in uso nella corte francese prima della Rivoluzione Francese ed in ogni caso riconducibile ad una variante – non sappiamo quale – di un solitario detto Francese. La struttura di questo solitario si realizza con un mazzo di 32 carte (quello diffusamente usato in Francia, anche all’epoca dell’imperatore) disposte su sei colonne di lunghezza differente – questa disposizione si chiama siringa coperta)tutte coperte, cioè girate con il dorso in su, tranne una fila di carte – l’ultima – che viene disposta sulle ultime carte della siringa più una carta finale tutte scoperte, cioè a faccia in su: la disposizione è identica a quella di Free Cell nella sezione Giochi messi a disposizione dal software Windows della Microsoft. Le carte restanti compongono il Tallone da cui verranno tirate una alla volta le carte che servono da comporre le file delle colonne

Il meccanismo del gioco è semplice, bisogna individuare tra le carte scoperte uno o più assi da posizionare sopra la siringa delle colonne. Fatto questo, si osserva se sia possibile realizzare delle composizioni tra le carte in vista, associandole in sequenza discendente o ascendente, a seconda di come si vuole procedere. I legami tra le carte prevedono che le carte debbano essere associate in base allo stesso seme ed in conformità alla sequenza scelta, es. si può associare 8 sul 7 scoperto dello stesso seme, ma non il 9 con il 7 anche se hanno lo stesso seme; e viceversa, non si può legare il 10 al 7 dello stesso seme se la sequenza che si è scelto è di tipo ascendente. Nel fare questo si ricorrono alle carte del Tallone fino alla riuscita e soluzione del solitario, che prevede il riordino in senso ascendente dall’Asso al Re nei quattro pozzetti sovrastanti la siringa.

Su questo schema di gioco generale esistono otto varianti, la cui differenza di gioco consiste in via esclusiva il numero di carte utilizzate. In genere, tale solitario prevede un mazzo di 32 carte, ma vi sono varianti che utilizzano 40 e 52 carte. Tra le varianti che usano 52 carte una menzione particolare viene data da Dossena a quella detta Scala di Piranesi, di cui dice «a giudizio di molti questo è il più bel solitario con le carte che sia stato inventato» [1999: voll. 2], ovviamente non da Piranesi, poiché all’epoca non si facevano solitari: è un solitario composto da otto colonne a siringa coperta ed a differenza del numero di carte non ha particolari differenze di gioco rispetto alla Quinta variante, che è quella più diffusa e che si gioca con un mazzo di 32 carte, ma anche con un mazzo di 40 carte, diciamo all’”italiana”. Ho citato questa variante con 52 carte di proposito, perché esistono derivazioni di questo solitario che possono giocarsi con un avversario. Nell’Enciclopedia dei giochi Dossena menziona un solitario dal nome Imperatore, che è una versione dello Scala di Piranesi, nel senso che prevede l’uso di un mazzo di 52 carte, una siringa coperta di otto colonne ed una rielaborazione della struttura rovesciata di quello. Anche in questo caso c’è un riferimento a Napoleone, in quanto il titolo del solitario si riferisce appunto a Bonaparte e a nessun altro: ciò non so se sia un indizio del tipo di gioco che realizzava Napoleone con le carte, di certo è un’attestazione che conferma la sua reale passione per il solitario, che alla sua epoca era diventato un gioco alla moda.

In conclusione, è superfluo dire che chi volesse approfondire la materia può rivolgersi ai due testi menzionati di Dossena, i quali sono anche una lettura divertente, ma è anche evidente che la storia del solitario inizia proprio in epoca napoleonica, quando in Francia viene a sancirsi la definitiva scissione con l’arte dei tarocchi. Prima di questa interdizione, siglata anche dal gusto modaiolo dell’epoca, non si può ragionevolmente parlare di “gioco” del solitario e tuttavia, rimane misterioso, forse addirittura irresolubile, il fatto che prima del XIX secolo sia possibile – anzi certo – che l’uomo abbia giocato ai solitari, che li abbia inventati e forse diffusi in una certa misura, magari riusando i tarocchi solo per scopi ludici, ma è proprio questo legame esplicito con l’arte divinatoria ha decretato per il solitario un discredito immotivato, relegandolo tra quelle invenzioni di secondo piano e soprattutto, attribuendogli significati che riguardano più il giudizio sulla persona che li realizza che non sul gioco in sé: l’esempio di Napoleone descrive chiaramente il senso di questo discredito, il fatto che l’ex imperatore giocasse ai solitari non è il segno di una passione avvincente, ma quello dell’uomo decaduto e sfortunato, di colui che la storia ha condannato. In tal senso, rovesciando questo tipo di presunzione si può affermare che il solitario sia una sorta di trasposizione “metaesistenziale” (se ha senso questa definizione) in cui l’avversario non è un altro simile a me (come in fondo vorrebbe la nostra tradizionale metafisica), ma è il gioco stesso o la figura del solitario in senso stretto: insomma, l’attività del solitario rivela che non sia necessaria, né indispensabile avere l’intuizione di un avversario o di un essere che ci assomigli e con il quale si entra in gara. Scrive Dossena che «l’avversario siamo noi stessi […] noi, che prima del gioco non sappiamo mischiare bene le carte» [1976: 39]. Ecco, il solitario ci aiuta non solo a mischiare le carte bene, ma anche districarci dalle varie combinazioni che tale mescolamento produce.

 

Porto Empedocle, 17/09/2021

sabato 4 settembre 2021

Commento ad una lezione televisiva del critico d’arte Sgarbi

                 Un intervento interessante – il primo di un ciclo di sei lezioni – del critico d’arte Vittorio Sgarbi (n.1952) ad Uno Mattina (Rai Uno) del 9 agosto 2021 racconta una delle cifre più notevole del noto pittore milanese Michelangelo Merisi (1571-1610), detto Caravaggio, vissuto nella seconda metà del Cinquecento, quella cioè relativa al suo realismo figurativo. Cifra che caratterizza le opere del Caravaggio tra il 1593 ed il 1610, anni in cui opera a Roma, a Napoli, a Malta ed in Sicilia. Lo spunto dell’intervento di Sgarbi è il recente dibattito sull’autenticità del quadro Ecce Homo di Madrid, una tela rinvenuta in Spagna attribuita ad un pittore barocco minore, un certo Spagnoletto, e che nella primavera di quest’anno doveva essere battuta ad un’asta. La messa all’asta viene bloccata dal governo spagnolo dopo il montare di una serie di interventi di critici autorevoli (tra cui lo stesso Sgarbi) che dichiarano l’attribuzione del quadro a Caravaggio: un dibattito che alimenta la notizia, mai finora confermata, che possa esistere un’altra tela di questo tema del Caravaggio.

                È mia personale opinione che il fatto interessante relativa a questa polemica non è tanto il confronto scientifico tra i vari critici d’arte, tutti intenti a dimostrare la propria tesi sulla paternità effettiva o presunta del quadro in questione, quanto lo scenario politico che tale dibattito descrive; per scenario politico intendo il futuro degli equilibri intercorrenti tra le valutazioni estetiche dei critici d’arte e il potere condizionante delle stesse case d’asta, quest’ultime autentiche forza contrattuale che influisce sugli stessi movimenti d’opinione e commerciali nel mondo dell’arte: una sfida di non poco conto visto che l’affermazione dell’«arte digitale» ha mutato i tradizionali rapporti tra artista ed acquirente, quest’ultimo non più legato alla figura del consulente critico. La vittoria dell’una parte piuttosto che dell’altra può determinare dunque, scenari differenti negli anni prossimi e ciò rende, in effetti, del tutto ininfluente se l’Ecce Homo di Madrid sia oppure non sia un quadro di Caravaggio: potrebbe esserlo ed anche se lo fosse è in realtà ben poca cosa rispetto al panorama culturale generale, quello stesso che gli ha dato e riconosciuto l’attribuzione presunta o reale.

                Ebbene, la posizione del critico d’arte italiano è dichiaratamente favorevole all’attribuzione del quadro a Caravaggio e proprio l’opera di Caravaggio è lo spunto dell’intervento televisivo sul primo canale della Rai. Ovviamente, non è una retrospettiva critica del pittore, ma solo un excursus sull’opera di Caravaggio che insiste su un tema unitario, cioè la stretta correlazione formale che intercorre tra il realismo figurativo del pittore milanese ed il realismo mostrato dalla fotografia. Sgarbi esordisce infatti, in queste lezioni ammettendo ed argomentando come Caravaggio e la sua pittura siano stati rispettivamente il primo fotografo della storia e la prima produzione di immagini statiche, riconducibili appunto alle istantanee fotografiche. Un’affermazione che non è una mera provocazione, ma un convinto argomento critico, tanto che spiega e motiva quest’argomentazione con una serie di riferimenti che intrecciano pittura figurativa e fotografia. Ovviamente, c’è nel discorso del critico d’arte la convinzione che il radicalismo esasperato della figurazione di Caravaggio, oltre ad essere l’aspetto più evidente dell’innovazione della sua pittura, sia anche il motivo di una demistificazione della stessa realtà: l’assioma per cui la realtà dipinta così com’è non può ingannare e quindi, risulta vera, oggettiva ed incontestabile. Ecco perché, viene assegnata alla pittura del Caravaggio addirittura una valenza «antisistema», nel senso di una pittura congenitamente avversa alle rappresentazioni del potere e quindi, espressione di una carica quasi eversiva – ammesso che ogni forma d’arte possa essere o ritenersi un’attività “impegnata” e “contestataria”, senza esibire per forza di cose i tratti di ciò che oggi s’intende per «arte pubblica».

È appunto, quest’idea paradigmatica di realismo figurativo che personalmente mi ha lasciato perplesso, soprattutto perché sorretto dall’evidente associazione con l’espressione del linguaggio fotografico. Certo, molta pittura figurativa degli ultimi decenni si è accostata sempre più ad una tecnica”fotografica” della scena, e gli effetti visivi sono talmente sorprendenti che si fatica (e non poco) a cogliere quelle differenze che permettono di indicare se si è dinanzi ad una stampa fotografica oppure ad una tela. Ciò non deve stupire, in quanto una parte della pittura figurativa è da tempo che si muove nell’ordine di idee di un iper-realismo figurativo, una direzione figlia del Postmodernismo e dall’affermazione della Pop Art – ovviamente, la Pop Art non è solo Andy Warhol (1928-1987). In questo scenario, il rapporto tra pittura e fotografica non ha più quella conflittualità che risale all’epoca dell’invenzione della stessa stampa fotografica e se si risale più indietro, addirittura fin dall’epoca antica. Pensare di estendere un certo paradigma estetico, oggi in fondo molto diffuso, per definire una categoria interpretativa da applicare ad una produzione figurativa del tutto ignara delle esigenze espressive fondamentali di un’epoca posteriore come è quella attuale, a me sembra un bello ed interessante “esercizio d’interpretazione”, che però si basa su una premessa che non mi sento di accettare. Ciò che mi lascia perplesso non è la sovrapposizione tra pittura e fotografia, che in una certa misura è del tutto legittima, ma che tale operazione sia motivata da una concezione della fotografia che ritengo molto semplificata ed in fondo, superata, tranne ovviamente se si tiene come termine di paragone la produzione fotografica dei social, cioè che quel modello lì sia tutta la fotografia nel suo essere.

L’argomentazione di Sgarbi è l’argomento di chi ritiene ampiamente superati i limiti estetici tra le due attività correlate, il che, credo, sia pacifico ed ammissibile, tuttavia il superamento delle conflittualità tra fotografia e pittura sono di un ordine d’idee diverso da quello presunto dal critico d’arte, ma da chiunque che possa seguire questo tipo di direzione argomentativa. Se il conflitto è stato sedato, ciò è avvenuto perché è la stessa pittura a rivedere il proprio paradigma sui rapporti che instaura con altre discipline. La commistione e contaminazione con le altre discipline artistiche tradizionali come possono essere alcuni collagés di Umberto Boccioni (1882-1916), oppure la svolta “semiotica” della figurazione novecentesca ad opera della pittura informale come risulta dall’opera di Georges Mathieu (1921-2012) o di Hans Hartung (1904-1989), oppure la trasformazione della tradizionale figurazione in una ampia ricerca cromatica ispirata al mondo rappresentativo di Paul Klee (1879-1940) che annulla il «figurativo» come nel caso di Alfred Manessier (1911-1993) o come nel caso dell’astrattismo di Giulio Turcato (1912-1995): insomma, una pittura che muovendosi sul piano di un’emotività cromatica sempre più estrema, secondo i dettami del Surrealismo e del Dadaismo, finisce per mettere in crisi il legame tradizionale tra la figurazione e realismo, descrivendo formule di realtà e di naturalismo molto distanti dall’usuale pittura di derivazione rinascimentale – come voleva Gino Severini (1883-1966) – e per quanto ci riguarda, molto distante anche dalla pittura “vera” dello stesso Caravaggio. Una pittura che non può più risolvere quelle questioni che sono emerse con il Cubismo di Pablo Picasso (1881-1973) o con i movimenti dell’Avanguardia pittorica e che trovavano nel decorativismo di Henri Matisse (1869-1954) una direzione risolutiva, ma trovano soprattutto nelle sconvolgenti contraddizioni ed associazioni surrealiste di René Magritte (1898-1967) la spiegazione dell’impossibilità di seguire il corso tradizionale della figurazione rinascimentale (o all’italiana): basti pensare all’opera di Giorgio De Chirico (1888-1978).

Ebbene, in questo scenario è proprio l’attività fotografica a ridare all’uomo quella fiducia di poter possedere uno strumento rappresentativo della realtà più convincente e più efficiente della tradizionale pittura figurativa, la quale ormai si orienta verso paesaggi metaforizzati o simbolizzati come rivelano l’opera di Joan Miró (1893-1983) o quella di Marc Chagall (1887-1985). Il Dadaismo aveva irriso al tema borghese dell’utilità e dello scopo di una opera d’arte – temi riproposti in una certa scultura materica e concettuale odierna -, mentre il riduzionismo formale che insegue un cromatismo che sia il più “primitivo” possibile (cfr. i pittori del fauvismo) che animerà gran parte della produzione pittorica del Novecento rivelano che ciò che viene inteso con il termine «realtà» non è proprio ciò che l’empiria dei sensi ci testimonia quotidianamente. È la fine dell’arte pittorica come mezzo e “strumento” della realtà. È  la fine del principio michelangiolesco che dell’unità formale tra l’opera e la materia: non basta semplicemente seguire i segni tracciati nella materia bruta per giungere alla verità ontologica dell’opera d’arte. Si guardi alla Pop Art oppure, all’italiana Arte Povera: forse solo i pittori del Futurismo italiano, pur utilizzando un linguaggio antifigurativo, continuavano a dipingere la realtà «come se fosse» quella empirica dei sensi.

Certo, i limiti tecnologici della fotografia sono evidenti, a partire dalle tecniche di stampa non ancora codificate, dall’uso del b/n che non è il linguaggio espressivo che meglio descrive la realtà “a colori” dei sensi, ed infine, da una carenza di dettagli che “sfuggivano” alle sostanze fotosensibili, tuttavia, la via verso una realtà “vera” come quella intuita e non trasfigurata dalla pittura era stata intrapresa e ciò non poteva evitare la conflittualità con le attività tradizionali, in primis appunto con la pittura. I pittori faticavano a riconoscere alla fotografia una dignità artistica ed all’epoca del pittorialismo potevano ancora vantare una superbia tecnica in quanto le mancanze delle stampe venivano sopperite dall’intervento di pittori specializzati a “ritoccare” le immagini. Un esempio di quest’atteggiamento sono le critiche del pittore italiano Giacomo Balla (1871-1958), il quale prima di dedicarsi alla pittura futurista, realizza alcuni quadri chiaramente postimpressionistici densi di dettagli e particolari, utilizzando delle fotografie come modelli di riferimento, ma per evidenziare i limiti di precisione di questo tipo di immagini.

Bisogna attendere l’invenzione della tecnica della stampa a colori da parte della giapponese Kodak per avere finalmente un’immagine fotografica che descrive in tutto e tutto le immagini intuite dalla vista; in questo caso, realtà ed immagine fotografica si saldano perfettamente e viene a superarsi il divario che ancora sussiste con la fotografia in chiaroscuro. Prima di questo momento, il tema più rilevante riguarda lo statuto artistico della fotografia. Il Dadaismo, in particolare con la figura di Man Ray (1890-1976), e più in generale il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) creano le condizioni teoriche per cui si possa ragionare sull’espressione fotografica in questi termini. A tal riguardo, anche l’abruzzese Francesco Paolo Michetti (1851-1929) con la sua fotografia, seppur di impronta “antropologica”, si muoverà in questa direzione, ben prima della conquista del colore, ammesso che ce ne fosse di bisogno per decretare la fotografia un’attività artistica. Il problema ontologico della realtà insomma, non è la questione fondamentale della fotografia – forse non lo sarà mai, almeno fino all’epoca più recente con l’affacciarsi del digitale e della realtà virtuale – e qualora si ponesse il tema le premesse e le conclusioni a cui la fotografia più recente giungerà saranno del tutto indifferenti al tema del realismo naturalistico.

Ecco perché l’impressione ricevuta dal discorso del critico d’arte non è così entusiastica, perché mi sembra che le sue premesse si muovano su un’evidenza esteriore, che suggerisce la correlazione tra fotografia e pittura figurativa, ma in fondo, sia la fotografia sia la pittura figurativa insistono su un realismo molto eterogeneo, anzi su due concetti di realismo diversi, se non addirittura opposti. Ciò che mi suggerisce questa conclusione è il riferimento del critico d’arte agli studi fotografici sul movimento del britannico Eadweard Muybridge (1830-1904): le famose fotografie di Muybridge sono una tappa fondamentale nello sviluppo della tecnica fotografica – quella che oggi si chiamerà panning, che dimostra che i dispositivi fotografici potevano fissare il divenire in immagini istantanee, “bloccare”, per così dire, il movimento di un corpo, ma tale risultato non ha nulla a che vedere con l’essenza della realtà, riguarda solamente la capacità della tecnica di un’attività di svolgere al meglio un compito, nel nostro caso la capacità del fotografo di creare delle diapositive che abbiano un evidente senso del movimento. Certo, Sgarbi non considera questi studi come il superamento tecnologico e tecnico di un limite “psicologico” insito nella fotografia, cioè della limitazione del proprio campo di ripresa esclusivamente alle fotografie di posa o ai paesaggi naturalistici, ma utilizza questo riferimento per affermare una fantomatica «velocità del pensiero e della mano», guarda caso proprietà della pittura e che oggi (con qualche sforzo) si ritiene condivisa anche dalla fotografia. L’idea di fondo è il potere dell’immagine di “congelare” il tempo e l’azione di un soggetto in pose plastiche; un’immagine che mira a raccontare anche tutto ciò che accade intorno al soggetto o della sua relazione con il paesaggio circostante, oltre che la sua semplice presenza nella scena. In ciò l’affinità tra la pittura di Caravaggio ed una famosa fotografia di Robert Capa (1913-1954) è evidente, ma il fatto che il pittore ed il fotografo, a diverso titolo e con una diversa manualità, sono in grado di produrre delle istantanee della realtà non è, a mio avviso, sufficiente e così rilevante da enfatizzare la questione naturalistica. Si può creare con gli attuali software creativi un’immagine virtuale e tuttavia rimanere impressionati dell’alto grado di realismo dell’immagine stessa: è quanto fanno molti pittori figurativi con i loro quadri iperrealistici. Dove risiede la differenza? Sul documento che accompagna l’opera? Sulle cronache che descrivono la scena dipinta? Un’immagine di per sé non ha molti elementi, forse neanche li richiede, con i quali attestare la sua autenticità realistica, o il suo essere una trasposizione della realtà: ribadisco, ammesso che nel fruire di un’immagine lo spettatore bisogna di sapere che ciò che sta guardando sia una scena vera od un soggetto realmente vissuto.

Il rapporto tra fotografia e pittura, ammesso che sia possibile, si muove sul piano dell’artefatto e della manipolazione estetica della realtà e non tanto sul piano del suo basamento ontologico, che tra l’altro sembra ad interessare veramente a pochi, se non a nessuno.

Pur non giocando con il citazionismo, il critico d’arte utilizza i riferimenti fotografici appunto come citazioni, indicando a chi lo ascolta come in alcune fotografie si possa riscontrare una soluzione già espressa dalla pittura. È il caso di una fotografia del tedesco Wilhelm Von Gloeden (1856-1931), che ritrae un giovane ragazzo siciliano, il quale reinterpreta la posa plastica di un noto quadro di Caravaggio (cfr. Fanciullo con canestro di frutta, 1593-94). Le differenze formali di linguaggio sono evidenti, inoltre la posa del ragazzo fotografato è chiaramente una citazione, ma che suggerisce perfettamente il quadro da cui è ispirato. Ora, il confronto con l’originale pittorico si impone quasi naturalmente e ciò fa dire al critico d’arte che le due immagini siano sovrapponibili, quasi identiche. Sulla scelta del progetto e sulle finalità indicate dall’immagine è possibile che quanto affermato dal critico d’arte sia corretto, ma tutto ciò è solo la dimensione esteriore dell’immagine. Gli statuti su cui operano la fotografia e la pittura sono differenti e perciò stesso non sovrapponibili. Nel caso della fotografia di Von Gloeden la citazione è servita per mettere in chiaro le potenzialità formali della fotografia, la sua capacità di produrre contenuti estetici e visivi con un’alta qualità artistica: non le semplici fotografie delle cartoline francesi che tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento avevano grande diffusione; la fotografia riproduce la realtà, ma può anche produrre immagini assolute, scevre dal condizionamento situazionale del tempo e del luogo. Personalmente, riscontro ben poco dell’argomento di Sgarbi nel confronto da lui indicato; o forse, sono così ottenebrato da non riuscire a vederlo o da non volerlo vedere.

                In conclusione, ammetto che non ho seguito tutte le restanti lezioni del critico d’arte, forse anche per una mia ritrosia, per cui la mia opinione deve intendersi limitata unicamente alla prima lezione, quella in cui credo che ci siano state gran parte delle premesse del discorso di Sgarbi. L’argomento in ogni caso, mi è sembrato interessante e l’ho trovato, a tratti anche istruttivo, in quanto ha proposto una correlazione a cui non avevo pensato. Certo, personalmente faticherei a motivare una relazione di questo tipo, perché la fotografia che ho in mente è molto diversa da quella espressa dal critico d’arte, tuttavia non nascondo che tale approccio può sensibilizzare il pubblico generalista di RAI Uno verso temi in fondo bizzarri, almeno tali rispetto ad una sensibilità accademica che si muove su territori di ben altro spessore e profondità. Non conosco le motivazioni del critico d’arte e mi affido unicamente alle sue dichiarazioni, tuttavia è evidente che il suo intervento è solo un pretesto per sensibilizzare su temi di altra natura. I temi che compongono o che potrebbero comporre l’argomentazione in questione sono tali che i dieci minuti a disposizione del critico d’arte sono molto pochi ed in ogni caso, mi pare che prevalga una concezione della fotografia derivata dal fotoreportage o dalla cronaca giornalistica. In questi campi, le premesse concettuali che definiscono lo statuto di un’immagine sono certamente, quelle alluse dal critico d’arte, il problema è che queste premesse vengono estese a tutta la produzione di immagini fotografiche, suggerendo che la fotografia sia soltanto quel tipo di prodotto. Non è così, perché implicitamente si ammetterebbe la realtà sia come scopo che fine (utilità) dell’immagine fotografica. Se è così, come dovremmo intendere le fotografie delle “pubblicità progresso”? Se è così, allora dovremmo bandire la fotografia di moda. Se è così, occorrerebbe mettere delle restrizioni agli scoop scandalistici, visto che le immagini che vengono prodotte sono fine a se stesse, meglio sono finalizzate ad uso pubblicazione dei giornali di gossip e di un pubblico di curiosi e via dicendo. Insomma, si dovrà rinunciare all’erotismo fotografico di Helmut Newton (1920-2004), oppure alle campagne pubblicitarie delle case di moda, visto che poco o nulla hanno a che fare con la realtà nella sua espressione più alta.

Scattare la realtà non significa riprodurla realmente. Il grande fotografo tedesco Edward Weston (1886-1958)  ha dimostrato con la sua fotografia diretta quanto possano essere alienanti ed irreali dei semplici capannoni portuali in una sua famosa fotografia. La fotografia non è la vita simpliciter, come l’attuale cultura del selfies sembra suggerire, ma è lo strumento espressivo dell’ignoto e dell’irreale come in fondo, dimostra ampiamente la fotografia del francese Henri Cartier-Bresson (1908-2004), l’inventore della “poetica dell’istante”, quella stessa a cui in una certa misura viene allusa sottotraccia dall’argomentazione di Sgarbi. Senza fare altro citazionismo, basterebbe navigare tra i profili social di alcuni fotografi, per rendersi conto che aldilà dell’immagine patinata insiste un concetto di realtà molto diverso da quella presunta dalle lezioni di Sgarbi, in particolare mi riferisco a quei fotografi che ambientano le loro pose in vecchi capannoni o impianti industriali, oppure presso ruderi o case abbandonate, location che attribuiscono all’immagine quel tocco di irrealtà che contrasta la qualità iper-realistica derivante proprio dalla tecnica fotografica, per lo più mutuata dal genere Still Life. La realtà e quindi, quel “feticcio” che la storia dell’arte indica con varie etichette con “naturalismo”, “realismo”, “verismo”, …, (tutte inventate da letterati) non esiste in arte, soprattutto nella figurazione e ciò era un grande problema (quasi filosofico) che travagliava i grandi artisti fin dall’epoca medievale come in Giotto (1267-1337) a.e., i quali pur non avendo (per poco) la “grandiosa” teoria della prospettiva rinascimentale si sforzarono di rendere i propri soggetti i più autentici e veri possibili, in qualche caso compiendo delle apparenti “dozzinali” manipolazioni delle proporzioni dei soggetti. Dimensioni irrealistiche certo, ma se rilette nell’ottica della teoria della prospettiva sono ampiamente coerenti ed addirittura sovrapponibili (questi sì) con le manipolazioni dello spazio da parte della tecnica delle parallele prospettiche.  

Insomma, il realismo che dovrebbe fungere da termine comune nel rapporto tra fotografia e pittura è in verità, l’effetto di un codice che primariamente deve potersi stabilire e non il dato acquisito della forma e della figura, come sembra intendersi dall’argomentazione del critico d’arte.

 

                                                                                                                             Porto Empedocle, 9 agosto 2021 (rivisto 4 settembre 2021)