sabato 26 gennaio 2019

Su fine della storia, Postmodernismo e tatuaggio

Tatuaggio utilizzato tra le popolazioni del Borneo (immagine tratta da www.riflessioni.it di Tiziana Ciavardini)

   L'approccio storicistico della nostra epoca guarda molti dei fenomeni della contemporaneità in un rapporto di continuità storica e semantica, credendo che le fratture temporali siano solo un momento riassumibile nelle varie categorie storiche; insomma momenti di varietà rispetto ad una linea ben precisa e ben determinata.
   Sì, in effetti lo sguardo retrospettivo conferisce agli eventi questa natura temporale. Se poi si fa coincidere questa natura con la struttura narrativa dei ricordi e della memoria, allora è del tutto evidente che la storia dell'uomo è veramente una lunga cavalcata verso la civiltà, il progresso, la scienza ed il benessere, mentre le guerre, le pestilenze e le crisi siano semplici incidenti lungo questo fulgido cammino.
   Si può credere a questo paradigma; lo si può accettare come verità rivelata, soprattutto se come pensava #AlessandroManzoni la storia fosse l'espressione umana della provvidenza divina e quindi, espressione in un certo senso di una razionalità sovrannaturale, tuttavia la via alla civiltà, anzi questa via umana, troppo umana, che è la civiltà è un percorso più accidentato, meno determinato di quel che si creda, anche se si possono fissare come valori assoluti scopi e finalità universali e sovrastoriche. Una via da cui non è esclusa anche la fine, come ci raccontano provocatoriamente alcune pubblicazioni dello storico statunitense #FrancisFukuyama. Una fine che solo nel pensiero benpensante ha i toni dell'Apocalisse, ma del tutto possibile e soprattutto inevitabilmente ciclica: come i calendari maya o come il #bigbang dell'Universo, chissà.
   Fine della storia e continuità storica del passato non sono polarità di una contraddizione irrisolvibile, almeno per la nostra epoca che ha conosciuto il #Postmodernismo, la fine delle Grandi Narrazioni e lo sfaldamento della nostra Storia in tante, tantissime piccole storie; meglio, in storie dall'estensione limitata e dall'influenza confinata ai fatti di una quotidianità intima e privata, in ogni caso in un ordine di grandezza del tutto estraneo ai criteri della macrostoria dei popoli, delle nazioni, della politica. Insomma, dell'io collettivo riconvertitosi in un "noi" con l'annessa ontologia sociale. La distruzione, o come sostiene la filosofia di #JaquesDerrida la decostruzione della storia, della sua immagine in particolare in quanto metafora estetica di un senso di appartenenza adulterato non ha comportato la fine della storia, né materialmente, né concettualmente, visto che ancora adesso dissertiamo di storia (e non so con quanta legittimità!), ragioniamo sugli eventi di cronaca ricorrendo alle grandi categorie storiche e via dicendo. Tuttavia, la stagione postmodernista non è passata inutilmente tra le pieghe della cultura europea, tanto che in fondo alcune utopie borghesiane di un sapere definitivo, di biblioteche sterminate sono a loro modo un prodotto della bordata lanciata dagli anni Settanta all'illusione della compiutezza dell'essere, amplificando rendendolo più distruttivo quel relativismo già impostosi con l'epistemologia scientifica.
   Accorgersi di vivere in una complessità relativa è sconvolgente certo, ce lo dice chiaramente la dura reazione del pensiero cattolico su questi temi, ma sul piano morale questa presa di coscienza si traduce in un'accorgersi che la libertà dell'uomo non si configura solo come libero arbitrio tra bene e male, ma soprattutto come un faticoso esercizio di chiarezza e definizione, assolutamente incerto, rischioso e probabilistico degli obiettivi per cui la volontà agisce, per cui esiste un'azione. Diceva bene #MartinHeidegger quando ragionava sull'azione nei termini di una negatività irriducibile all'essenza positiva dell'essere, di quella verità intima da esplicitare ermeneuticamente, ma è quanto diceva lo stesso #Hegel nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche, cioè il negativo come un fatto esterno ed estraneo alla normatività soggettiva dello spirito, quindi indomabile ed incerto: la presupposizione diventerà in filosofia come in morale una strategia piuttosto che un principio, un contenuto che deve trovare dati ed elementi di conferma e che deve verificarsi di volta in volta.
   Ciò detto, appare a volte semplicistico, antirazionalistico ed indulgentemente inattuale la convinzione di avere o di cercare un nuovo realismo nella descrizione di arcaici sistemi antropologici e di semantiche primitive. Un'idea che sfocia nel fanatismo ideologico, anche se comprensibilmente correlato alle attuali costruzioni ideologiche, che sottolinea una necessità, quasi un bisogno insopprimibile e soprattutto un'urgenza di orientamento: fanatismo indotto, compatibile con il pensiero sociale (di ogni colore) dominante, con quella logica marxistica di dominio culturale delle elités di potere. In questo scenario ogni fatto di costume assume sfumature cromatiche più o meno intense nella misura in cui alcune delle sue strutture di senso reagiscono virulmente in certe situazioni che ne catalizzano l'azione. Ciò vale per la religione, per il terrorismo, per l'economia, come per il costume di una società.
   La pratica del tatuaggio, diffusa ormai da diversi anni, è un residuo, un lascito di una contemporaneità anarchica ed intellettualmente autarchica anziché una forma di resistenza culturale come molti si ostinano a presentarla, a descriverla. Una resistenza, se mai lo è, che ha ampiamente rielaborato il proprio naturale universo di riferimenti, quella che i linguistici definiscono come semantica e ripropone forme arcaiche che chissà come a causa della storia e della memoria storica ha attraversato il tempo per fissare concetti, idee o semplicemente dei gusti sociali in un contesto umano differente, che non riconosce (né vuole farlo) tutte le antiche conseguenze ed implicazioni istituzionali che rappresentano: tatuaggi come segni di un rito di passaggio, di una commemorazione dall'alto valore sociale, di una condanna pubblica e via dicendo. Per le ragioni che l'antropologia ci descrive è molto difficile accettare il riuso o riattualizzazione di questa pratica, visto che oggi quelle forme veicolano sensi opposti ed in buona parte incompatibili con il paesaggio umano che li ha definiti, utilizzati, imposti.
   A tal riguardo, una riflessione estetica ci aiuta a cancellare la costruzione metaforica che letteratura e storia ci offrono degli eventi umani, per ragioni di necessaria ricostruzione ideologica del passato, per agevolare noi stessi nel decidere e nell'agire ovviamente. E per quanto riguarda la pratica tatuistica che il costume odierno ha dato una sua ordinaria dignità ha un valore se il realismo che sottende non è quello di una civiltà sopravvissuta, ma quella di una civiltà, quella attuale, di ritrovarsi in uno specchio mendace, ma che ci racconta di continuità e di resistenze culturali, sol perché rivogliamo avere nuovamente l'antica fiducia metafisica di rappresentare la realtà circostante in uno schema teleologico e indirizzato verso il meglio (ottimismo progressista).
   La pratica del tatuaggio può rinviare nello specifico al #bodypainting, per via soprattutto di voler "disegnare" sul proprio corpo segni, simboli o semplici forme. Tuttavia, gli esiti concettuali a cui si approda con questa pratica del tatuaggio ha un valore meno giocoso e non propriamente "decorativistico". E' il tentativo di intercettare nella cultura quegli elementi di stabilità che inscrivono tutto il proprio essere dentro un sistema di riferimento, in un universo di significati codificato e che rende la nostra stessa esistenza meno alla deriva di quanto in effetti sia o di come è stata definita dalla filosofia.
24 gennaio 2019